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Destini incrociati: Quando tutto è possibile
Destini incrociati: Quando tutto è possibile
Destini incrociati: Quando tutto è possibile
E-book439 pagine5 ore

Destini incrociati: Quando tutto è possibile

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Info su questo ebook

Basta un istante per perdere ogni cosa.
Layla Hamilton ha tutto ciò che ogni donna può invidiare. Figlia di uno dei più grandi imprenditori degli Stati Uniti, le manca davvero poco per realizzare il suo sogno, andare in Australia e diventare una veterinaria, quando la sorte decide per lei.
Rimasta vittima dei giochi di potere di un mondo oscuro che non le appartiene, Layla viene rapita e finisce a combattere duramente per la propria sopravvivenza.
Chris, ex militare e mercenario, tormentato dai fantasmi del suo passato, viene incaricato di salvarla. Non sempre però le missioni di recupero vanno secondo i piani stabiliti. Ed ecco che Chris e Layla si ritrovano soli a fuggire in una città sconosciuta e a cercare riparo dagli aguzzini di Hassaan Fareed, noto trafficante del Pakistan.
Il rapporto di Layla con la sua guardia del corpo è davvero complicato. Lui è prepotente, arrogante e solitario, lei solare, impacciata e chiacchierona.
Chris e Layla si sopportano a malapena, eppure nessuno dei due ha la minima idea dell’effetto che fa all’altro. Come due opposti sono destinati ad attrarsi e il loro “filo rosso del destino” a intrecciarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2022
ISBN9791220703574
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    Anteprima del libro

    Destini incrociati - Annalisa Nordi

    1

    Layla


    Qualsiasi cosa che può andare storta, lo farà.

    Arthur Bloch


    Chi affermava che New York fosse la città più grande ed esagerata del mondo, non aveva mai visto l’assolatissima Dubai. Una gemma luminosa in mezzo al deserto, bagnata dalle acque calde del Golfo Persico. Uno spettacolo di architettura contemporanea mixata con la tradizione antica.

    Il paradiso dello shopping e del relax, un luogo in cui i grattacieli sfioravano le nuvole, un vero tempio del lusso e dell’abbondanza.

    «Questo posto è una figata, Layla!»

    La voce squillante di Mel per poco non mi fece scivolare di mano il cellulare.

    «È la centesima volta che lo ripeti, Melinda

    La mia migliore amica alzò gli occhiali da sole griffati dal suo bel viso, lanciandomi un’occhiataccia.

    «Non chiamarmi con il mio nome di battesimo, non lo sopporto, lo sai!»

    Sghignazzai udendo il suo tono irritato.

    Non potevo negare che tutto ciò che avevamo intorno fosse magnifico. Alloggiavamo in uno dei migliori hotel della città e per non farci mancare nulla eravamo pure fresche fresche di spa, mentre ora ci rilassavamo a bordo piscina.

    In più era tutto spesato dal mio premuroso papino, George Hamilton.

    Avevo insistito per fare da sola, ma non aveva voluto che tirassi fuori un dollaro né per me stessa né per Mel. Non avevo fatto in tempo a sbattere le ciglia che lui – o meglio, la sua assistente – aveva già prenotato.

    Senso di colpa? Non molto. Era un padre parecchio assente e sapevo che era il suo modo per dirmi che lui c’era per me.

    Di certo, in veste di amministratore delegato della Hamilton Industries, se lo poteva permettere. Eravamo tra le dieci famiglie più ricche degli Stati Uniti e la sua unica figlia si era appena diplomata con il massimo dei voti alla Stanford University.

    Non nel ramo che lui avrebbe voluto, ma era un viaggio del tutto meritato.

    «Istanbul è la nostra ultima tappa, prima di iniziare il tour dell’Europa, giusto?» domandò Mel, sorseggiando il suo Margarita.

    «Sì, abbiamo il volo domani pomeriggio,» la informai, controllando sull’agenda.

    «Quindi, direi di accettare l’invito di quei bei fusti laggiù ad andare al Moon Light stasera,» esclamò Mel, colpendomi la gamba con il piede e salutando con un cenno i due ragazzi che avevamo conosciuto qualche giorno prima.

    Se non mi sbagliavo, uno si chiamava Dave e quello più alto Travis e venivano dalla Georgia… o dalla Florida?

    Okay, non lo ricordavo con precisione.

    Non erano affatto male, anzi, erano pure simpatici, Mel non si sarebbe fatta scappare l’occasione di divertirsi un po’ e io non gliel’avrei di certo negata.

    Sorseggiai il mio drink con aria accondiscendente.

    Permesso approvato.

    Lei scattò subito in piedi, sculettando verso i due e attirando non so quanti sguardi su di sé.

    La prima parola che ti veniva in mente quando conoscevi Melinda Mitchell era provocante. La seconda era logorroica, ma ormai era troppo tardi per scappare.

    Era un concentrato di sensualità, gambe chilometriche, ventre piatto, forme al posto giusto, capelli biondissimi e grandi occhioni da bambola.

    L’avevo conosciuta alla scuola materna, quando ancora non sapevo pronunciare le parole provocante e logorroica. Un bambino alquanto corpulento mi aveva spintonato per rubarmi il giocattolo che stavo usando.

    Incredibile ma vero, anche alla materna dei ricconi ci sono i bulli.

    Mel, senza farsi tanti riguardi, gli aveva dato un calcio allo stinco, per poi riconsegnarmi il mio amato Mr. Gus, il gatto di pezza.

    Fu amore a prima vista, o meglio, amicizia a prima vista. Da quel giorno non ci perdemmo mai.

    Eravamo come sorelle, facevamo tutto insieme.

    Okay, non proprio tutto, però le cose più importanti sì. Al ballo dell’ultimo anno di liceo, quando lasciai l’idiota con cui stavo, Mel scaricò il ragazzo che aveva in quel periodo e andammo alla festa insieme, ad esempio.

    Una serata memorabile; sorrisi solo a ripensarci.

    Ora, eravamo in viaggio da circa due settimane, con davanti quasi tutta l’estate per visitare le destinazioni che avevamo scelto. Quella era la nostra ultima sera a Dubai.

    Al termine delle vacanze sarei tornata a San Francisco per organizzare il mio grande passo.

    L’Australia.

    Io non possedevo la stoffa per gli affari, almeno per mio padre.

    Lui era quel genere d’uomo che pensava che le donne ricche dovessero gestire le cose di casa, le relazioni sociali, gli hobby, o presenziare agli eventi mondani come belle statuine.

    Possibilmente tenendo la bocca chiusa.

    Mia madre, Ella Hamilton Mendes, era sempre stata una donna dotata di grande intelligenza e molta pazienza, con una famiglia facoltosa alle spalle. Era un avvocato, anche se da quando si era sposata con papà non aveva più esercitato per accontentare i suoi desideri.

    Be’, papà con me era caduto male.

    Aveva tentato di dissuadermi: I soldi non ci mancano, Non vorrai faticare ogni giorno quando tuo padre è George Hamilton. Citai nella mia testa quelle frasi infelici.

    Ah, dimenticavo la sua uscita migliore, era stato esilarante. Puoi stare tranquilla e farti bella, figliuola, per aiutarmi a qualche ricevimento.

    Tradotto: Secondo me non hai la stoffa per niente, quindi metti in mostra le tue grazie, mentre io faccio abboccare all’amo i clienti.

    Non aveva funzionato. Per quanto apparissi frivola a volte, le cose non guadagnate non mi piacevano.

    Avevo preferito seguire il mio istinto e quello che più mi appassionava, al posto di Marketing avevo scelto Biologia e poi avevo ottenuto il dottorato in Veterinaria.

    Sognavo di aprire una clinica in Australia, studiare e curare la grande varietà di specie del posto.

    Fin da bambina trovavo adorabile qualsiasi tipo di animale, le persone invece non mi piacevano più di tanto. Troppo spesso erano opportuniste e false. Non tutte ovviamente, ma la maggioranza sì, soprattutto se facevi parte della mia cerchia.

    Tutti volevano qualcosa da te, che si parlasse di un favore o dei tuoi stupidi soldi.

    Non vedevano veramente chi eri.

    Mel tornò di gran carriera e si piazzò sul mio lettino con aria compiaciuta.

    «Abbiamo un appuntamento per questa sera alle nove!» esclamò con un sorriso smagliante.

    «Fantastico,» risposi sarcastica, accavallando le gambe.

    Mel strinse gli occhi cercando di imitare un’occhiata truce, ma risultò alquanto bizzarra. «Dovresti ringraziarmi ogni tanto, sai? Sarà merito mio se stasera ti farai una buona e selvaggia scopa…»

    Le tappai la bocca con la mano. «Non c’è bisogno che tutti lo sappiano!» l’ammonii a voce bassa.

    Lei sospirò. Conoscevo quello sguardo, stava per iniziare la sua filippica sull’importanza di divertirsi alla nostra età e sul fatto che prima o poi avrei dovuto trovare un fidanzato. Non potevo solo dedicarmi allo studio, al volontariato, alla beneficenza e ai miei adorati animali.

    Non si stancava mai di ripetermi il solito discorso, così la fermai prima ancora che parlasse.

    «Mi impegnerò, lo giuro. Trevis non è così male.»

    Mel si picchiò il palmo sulla fronte. «Trevor.»

    «Chi?»

    «Il tipo si chiama Trevor. Ma cosa devo fare con te, Layla?»

    «Ops!» Le feci un sorriso di scuse.

    «Sai dire solo Ops. Forza, andiamo a prepararci, mio dolce caso umano.»

    Posai il bicchiere di cristallo sul tavolino e inforcando gli occhiali da sole la seguii.

    Si annunciava una serata a dir poco esilarante.

    Il Moon Light era uno dei locali più esclusivi che avessi mai frequentato. Adiacente al nostro complesso alberghiero, ci si arrivava facendo giusto qualche passo o direttamente da una galleria sotterranea stracolma di negozi costosi.

    Fissai il mio riflesso allo specchio per qualche secondo incontrando i miei occhi verde scuro.

    Forse il vestito era un pochino appariscente, attillato e corto con strass e corallini dorati.

    Brillavo come una stella nel cielo notturno.

    «Se mi piacessero le donne in quel senso, ci proverei…» Mel sbucò dietro di me passandomi un paio di scarpe con il tacco. Le infilai aggiungendo una dozzina di centimetri alla mia altezza.

    «Spero di non ammazzarmi con queste cose ai piedi,» protestai.

    «Ti serviranno, Campanellino. Fidati della tua amica.»

    «Ah-ah! Grazie tante, ma detto da te che sei grande quanto Bigfoot…»

    Mel era altissima e con i trampoli che aveva indossato sfiorava il metro e ottanta. Per quanto riguardava la sottoscritta, invece, quei dodici centimetri mi servivano tutti.

    Non che avessi un problema con il mio corpo e il mio aspetto, ero perfettamente proporzionata, ma la gente ti faceva notare se non eri nella media.

    Che se ne vadano al diavolo… pensai sospirando.

    Avevo ereditato i geni messicani dalla mia bisnonna, era minuta e con un carattere ribelle.

    In più, bastava che stessi pochi giorni al sole per prendere una fantastica sfumatura olivastra.

    Come se andassi al mare tutto l’anno; fantastico, no?

    «Ehi, non offendere.» Mel mi colpì sul petto.

    La fissai a bocca spalancata. «Ahi! Mi hai appena schiaffeggiato una tetta!»

    «Chissà, magari così ti darai una svegliata!» asserì, uscendo dalla porta della suite.

    La seguii e la colpii a mia volta nello stesso punto.

    Mel ammiccò. «A me è piaciuto, santarellina.»

    Sbuffai mandandola al diavolo. Era incorreggibile.

    «Pronta a divertirti?» chiese subito dopo con un sorrisetto diabolico. «Zero inibizioni.»

    «Sono nata pronta,» buttai lì senza entusiasmo, citando Grosso guaio a Chinatown.

    Avevo deciso che quella sera mi sarei lasciata completamente andare, perdendo quella rigidità che spesso mantenevo per l’importanza del mio cognome.

    Immaginai la voce di mio padre pronto a farmi la ramanzina. Non vorrai mica infangare la reputazione della nostra famiglia. Be’, caro papino, quella notte sarei stata una ragazza senza cognome, solamente Layla.

    «Ricordati della nostra regola numero uno!»

    Prima di partire io e Mel avevamo stilato alcune regole che avrebbero caratterizzato il nostro viaggio.

    Per prima vigeva la legge del "Carpe Diem", cogli l’attimo.

    Come seconda Ciò che succede, ovunque noi siamo, rimane lì. Della serie Quello che succede a Las Vegas rimane a Las Vegas, ma applicato a ogni angolo di mondo visitabile.

    La terza era Rispetta le due regole precedenti.

    Prima che me ne rendessi conto arrivammo al locale tra una risata e l’altra.

    Dave e Trevor – o Trevis? Non riuscivo proprio a ricordarmi quale fosse il nome di quel poveretto – ci aspettavano davanti all’ingresso principale.

    «Niente male, eh, Campanellino!» affermò Mel, ammiccando dalla mia parte.

    Alzai gli occhi al cielo. Ancora quel nomignolo! Me lo portavo dietro dalla scuola media. Cercai di concentrarmi, a dire la verità la mia amica non aveva tutti i torti, quei due non erano affatto male.

    Soprattutto Trevor-Trevis; spalle larghe, capelli scuri, un bel viso.

    Bastò dire il mio nome al buttafuori e quello ci fece saltare la fila.

    «Evvai!» gongolò Mel al mio fianco. «Ecco perché esco con te… Scherzo, lo sai!»

    Ridacchiai varcando l’entrata.

    Il locale era scintillante come un diamante, trasudava lusso e sfarzo in ogni suo angolo.

    Gli enormi lampadari di cristallo, gli specchi che brillavano riflettendo i colori dei fari stroboscopici creando uno spettacolo di luci, la musica che martellava nelle casse facendomi vibrare le ossa.

    La pista da ballo era gremita di gente scatenata in una danza energica.

    Anche io mi sentivo carica come una molla.

    Ci accomodammo su dei divanetti di velluto rosso scuro e ordinammo qualcosa da bere. Poco dopo stavamo già ridendo e scherzando con i nostri cocktail in mano.

    «A tutti noi e a… stasera!» urlò Mel, per farsi sentire sopra la musica. Io e i ragazzi ci unimmo al suo brindisi con entusiasmo. Sorseggiando il mio drink, ondeggiai al ritmo del brano in sottofondo.

    «Festeggiamo!»

    E così facemmo, scattammo fotografie e selfie. Dopo aver bevuto qualche shottino e qualcosa in più, ci buttammo in pista. Saltellai come una pazza con Mel e ballai in modo provocante con Trevor-Trevis su un pezzo house.

    Dave ci portò un altro cocktail buonissimo.

    «Alle ragazze più belle di Dubai!»

    Mi sentivo elettrizzata, disinvolta ed ero anche un po’ ubriaca.

    La mia amica si stava dando da fare sbaciucchiando Dave, quando guardai l’orologio. Erano le due. Di lì a un’ora la discoteca avrebbe chiuso.

    «Ragazze, che ne dite di andarcene?»

    Indecisa, guardai Mel. Se loro fossero venuti a passare un po’ di tempo e a bere qualcosa alla suite non ci sarebbe stato niente di male.

    «Dai, Layla!» mi pregarono i ragazzi.

    «Non lo so.» Parlai all’orecchio di Mel appoggiandomi a lei, mi girava un pochino la testa.

    «Cosa vuoi che succeda, Campanellino? Ci divertiamo, hai promesso, non tirarti indietro!»

    Facendomi contagiare dall’euforia del gruppo mi sentii dire: «Va bene!»

    E li seguii fuori dal locale.

    Non andammo in camera, ma a passeggiare sulla spiaggia. Alle nostre spalle i grattacieli si stagliavano contro il cielo notturno.

    Mi sfilai le scarpe tenendole strette con una mano sola, i miei piedi furono ben felici quando la sabbia mi scivolò tra le dita. Quelle décolleté erano veri strumenti di tortura.

    Trevor-Trevis mi spiegò i loro programmi per l’estate.

    «Io e Dave lunedì partiremo per il Cairo e dopo una settimana ci fermeremo a Ibiza per un mese.»

    «Adoro i festaioli come voi!» disse Mel con una voce un po’ strascicata che mi fece ridere.

    Ci eravamo allontanati un bel po’ ed erano passate da un pezzo le tre e la maggior parte dei locali aveva chiuso i battenti.

    «Sono stancaaa, uno di voi mi dovrà portare in braccio.» Mel si lasciò cadere sulla sabbia e tirò giù anche me acciuffandomi per un polso.

    I ragazzi si sistemarono vicino a noi. Trevor-Trevis si accese una sigaretta e la passò a Dave.

    Oh!

    Non era una sigaretta ma una canna, me lo confermò l’odore pungente che mi solleticò il naso.

    Non mi piace questa storia.

    Dave aspirò e la passò con fare galante a Mel, nemmeno le stesse offrendo un bicchiere di champagne.

    La mia amica mi guardò emettendo una risatina e se la portò alla bocca.

    «Non fumo da una vita,» mormorò, ridacchiando ancora, «tocca a te, Campanellino!»

    Trevor-Trevis mi strinse a lui, venni scossa da un brivido di disagio.

    «Avanti, bellissima, è divertente.»

    Fissai disgustata la canna per un attimo, ma ero troppo assonnata per mettermi a discutere con tutti loro.

    «Okay, okay! Dammi qua… un tiro e basta.»

    Dopo, magari, mi avrebbero lasciata in pace.

    Feci così veloce che nemmeno inspirai, poi riconsegnai lo spinello al proprietario. Non percepii nessun cambiamento apparente, la testa mi girava già da prima, fu solo quando udii parlare in arabo e vidi delle gambe davanti al nostro gruppetto che mi accorsi delle guardie.

    «Cazzo!» Dave si alzò veloce come un fulmine, buttando la canna a terra e facendo finta di nulla.

    Poteva almeno coprirla con la sabbia quel genio.

    Ci tirammo in piedi anche io e Mel. Barcollai pericolosamente in avanti, ma lei mi prese per mano.

    «Buonasera, agenti,» esordirono i nostri nuovi amici.

    Tornando lucida per un momento, notai che erano in quattro.

    Uno di loro puntò gli occhi scuri sulla scollatura della mia amica con fare spudorato.

    Ignoralo.

    Mi sforzai di sorridere disinvolta, in modo naturale, sperando che non abbassassero lo sguardo sullo spinello acceso ai miei piedi.

    Qual era la pena se ti beccavano con della droga negli Emirati Arabi?

    Non lo sapevo con precisione, ma ero sicura che fosse qualcosa di piuttosto drastico.

    Fa’ che non guardi giù, fa’ che non guardi giù!

    Uno di loro si abbassò a raccogliere la canna.

    Miseriaccia!

    Trattenni il fiato, sapendo che eravamo in grossi guai. E scommettevo che nemmeno mio padre avrebbe potuto tirarci fuori da quel pasticcio alla svelta.

    Strinsi più forte la mano di Mel.

    La guardia parlò al collega con aria divertita e annusò la sigaretta chiudendo gli occhi, pensai quasi che si volesse fare un tiro anche lui.

    In tal caso, saremmo stati tutti più che d’accordo.

    «Ci dispiace,» mormorò Mel, la sua mano tremava nella mia.

    Uno dei poliziotti rispose in inglese. «Non dovete preoccuparvi. Non è un problema, questo.» Prese una boccata di fumo e lentamente la soffiò in faccia a Dave.

    Che fortuna sfacciata, avevamo trovato dei poliziotti con qualche vizietto.

    «Questa è una bella serata, dopotutto,» continuò a dire il soldato, e io ricominciai a respirare. Solo per un secondo, perché quello che mi uscì un attimo dopo fu un grido.

    In un batter d’occhio cambiò tutto.

    La seconda guardia tirò fuori una pistola e sparò dritto in faccia a Dave e poi a Trevor.

    «Oddio!» Mi pietrificai, poi l’istinto di sopravvivenza mi gridò di fuggire. Tirai Mel per un braccio, dovevamo andarcene via di lì e chiedere aiuto.

    Due metri. E ci erano già addosso.

    «Mel!» gridai, mentre uno degli uomini mi afferrava per la vita, tirandomi dalla parte opposta a quella della mia amica.

    «Layla, aiutami, ti prego!» Il suo grido terrorizzato mi arrivò dritto al cervello.

    Scalciai come una pazza. «Mollala, stronzo! Mel!» Mi dimenai ancora, ma qualcosa mi punse sul collo e il mio mondo si tinse di nero.

    La testa mi pulsava così tanto da farmi sospettare che un batterista heavy metal si fosse trasferito nel mio cranio e avesse dato un concerto.

    Cercai di deglutire, avevo lo stomaco sottosopra e la bocca secca.

    Cavoli, dovevo averci dato dentro parecchio con l’alcol la sera prima.

    Mi sentivo davvero male. Non ricordavo nemmeno com’ero tornata in hotel.

    Cercai di girarmi sul materasso, ma non riuscii a muovere un muscolo.

    Fa’ che non ci sia nessuno sconosciuto steso vicino a me.

    Ci mancava solo che fossi finita a letto con un tipo a caso e nemmeno me lo ricordassi.

    Tipo Trevor-Trevis…

    Una sensazione di terrore mi pervase il corpo, riconsegnandomi a uno a uno i ricordi della notte passata.

    Oddio!

    Io e Mel eravamo state rapite. Tutto dopo che le guardie avevano ucciso i ragazzi che erano con noi.

    Aprii gli occhi, ma non riuscii a vedere nulla, solo buio. Mossi la testa, una stoffa ruvida e puzzolente mi copriva il viso.

    Tremai ricordando il viaggio dentro al bagagliaio dell’auto.

    Poi cos’era successo? Dovevo aver perso i sensi o essere stata drogata di nuovo con qualcosa di forte.

    Cercai di muovere le braccia, ma erano legate a quello che credevo un tubo o una sbarra metallica.

    Ero da sola?

    O c’era qualcuno insieme a me?

    «Mel! Melinda!» bisbigliai, sperando di non farmi scoprire dai rapitori.

    Non mi rispose nessuno.

    Perché ci avevano preso?

    Che cosa volevano da noi?

    Mi mossi ancora cercando di alzarmi in piedi, ma anche quelli erano legati.

    Di bene in meglio.

    Respirai a fondo, cercando di mantenere la calma, ma il tremore non voleva proprio andarsene.

    Ero spaventata a morte.

    Le lacrime mi scivolarono sulle guance.

    Se mi avevano rapita per ricevere i soldi del riscatto, papà glieli avrebbe sicuramente dati.

    Non si sarebbe fatto nessun problema a sborsarli per salvarmi la vita. Lui mi voleva bene.

    Udii dei passi, mi immobilizzai smettendo anche di respirare.

    Qualcuno mi tolse il cappuccio dalla testa e la luce del sole mi ferì gli occhi.

    Ci misi un paio di secondi a mettere a fuoco la figura ferma davanti a me, forse perché era un po’ bizzarro che un bambino dalla pelle scura di circa sei anni, malnutrito e sdentato, stesse lì, fermo a fissarmi come se fossi stata una qualche creatura mitologica.

    Non aveva mai visto una ragazza?

    «Do-ve sono? Dov’è la mia amica?» Avevo la gola così secca che faticai a parlare.

    Il bambino fece qualche passo all’indietro urlando in una lingua sconosciuta.

    Piccolo stronzetto spione.

    Ne approfittai per guardarmi intorno, muri mezzi crollati e scrostati, sporcizia ovunque. Scommettevo che nell’ombra si nascondevano enormi scarafaggi e ratti strafatti di steroidi, ma erano l’ultimo dei miei problemi.

    Una cosa era sicura, quel posto non era Dubai o almeno non era la parte della città che io frequentavo di solito.

    Ero seduta per terra, tra la polvere e altro schifo indefinito, legata a una tubatura che fuoriusciva dal muro.

    Avrei dato zero stelle a quel posto nella recensione.

    Fanculo!

    Due uomini armati entrarono nel mio campo visivo. Uno di loro, un tipo grassoccio era a petto nudo e si batteva la pistola sulla coscia come a tenere il ritmo di una canzone che sentiva solo lui.

    Mi fissarono ridendo tra di loro. Il più giovane fece un passo verso di me e, dicendo una frase sicuramente a sfondo sessuale, si toccò in mezzo alle gambe, rendendomi chiaro il concetto.

    Impaurita da quello che avrebbero potuto farmi mi ritrassi contro il muro per quanto fosse possibile. Portai le gambe al petto, ma il vestito che avevo indossato la sera prima risalì lasciando la mia pelle ancora più esposta.

    Perché diavolo non mi ero messa un paio di pantaloni?

    Il ragazzo più giovane si accucciò accanto a me, una zaffata di puzza di sudore mi investì facendomi quasi rimettere.

    Con le sue dita sudaticce mi sfiorò i capelli e il collo, fermandosi sul seno. Rabbrividii di disgusto.

    L’uomo grassoccio lo richiamò all’ordine, spiegandogli qualcosa, ma proprio non riuscivo a comprendere una parola.

    Poi se ne andarono.

    Per ora l’avevo scampata.

    Non sapevo come fossi riuscita ad addormentarmi. Probabilmente perché ero stremata, avevo passato il resto della giornata a cercare di liberarmi, tra una crisi di panico e l’altra.

    I polsi e le caviglie mi dolevano da impazzire, la plastica dura delle fascette con cui mi avevano legata aveva scavato dei profondi solchi sanguinanti.

    Mi avrebbero lasciata in quella stanza a marcire? O mi avrebbero uccisa?

    Quando i rapitori mostravano il loro viso finiva sempre male per la vittima.

    Si chiama vittima, infatti… non sopravvissuta.

    Una goccia di sudore mi scivolò lungo la schiena. Dovevo provare a scappare.

    Mel, anche lei si trovava in quel magazzino?

    La mia pancia emise un sonoro brontolio, gemetti per la terribile sensazione di vuoto.

    Erano almeno un paio di giorni che non mangiavo o bevevo nulla.

    Quegli idioti mi avrebbero fatta morire per disidratazione.

    Un rumore attirò il mio sguardo all’angolo della stanza. Il bambino sdentato mi fissava seduto a gambe incrociate con una pistola in mano.

    Un ottimo giocattolo per un bimbo della sua età.

    Quindi era lui la mia guardia?

    «Ehi, capisci quello che dico?» lo chiamai. «Sai dov’è la mia amica, l’altra ragazza? Lei è bionda.»

    Tossicchiai per il dolore alla gola chiudendo gli occhi.

    Sdentato, decisi di chiamarlo così, sparì per qualche minuto. Quando me lo ritrovai di fronte mi stava porgendo un barattolo di latta ricolmo d’acqua.

    Il massimo dell’igiene…

    Inclinai la testa per bere. «Grazie,» mormorai. Lui accennò un sorrisino timido, prima di infilarmi in bocca un quadratino di cioccolato.

    Quindi, faceva finta di non capirmi, eh? Bravo.

    «Perché sei gentile con me?»

    Dischiuse le labbra per rispondermi, ma l’uomo grassoccio entrò nella stanza urlando contro di lui. Cercò di scappare, ma non ci riuscì, beccandosi un manrovescio sul coppino.

    «Layla Hamilton.» La mia testa scattò verso la voce che aveva pronunciato il mio nome in un inglese leggermente cadenzato. Non mi ero accorta che con Grassoccio aveva varcato la porta un altro uomo.

    Un uomo molto diverso da quelli che avevo visto fino a quel momento.

    Elegante, ben pettinato e pulito. Indossava vestiti dall’aria costosa. Portava un sacco di anelli alle mani e una catena d’oro al collo.

    Se non fossi stata così terrorizzata avrei potuto affermare che era un bell’uomo.

    Ecco il pezzo grosso.

    «Chi sei tu?» chiesi guardandolo in volto.

    Grassoccio mi colpì sul viso. «Chi ti ha dato il permesso di parlare, stupida puttana?»

    La guancia mi pulsò di dolore.

    «Sono Hassaan Fareed,» si presentò l’uomo con gli anelli, poi rimase in silenzio.

    Okay, ma doveva darmi qualche indizio in più, perché il suo nome non mi diceva proprio niente di niente, a dire il vero.

    Alzai leggermente le spalle scuotendo la testa.

    «Tuo padre mi deve un sacco di dollari.»

    Parlava del riscatto. «Papà ti darà qualsiasi cifra purché non mi facciate del male.»

    Hassaan scoppiò in una sonora risata priva di divertimento. «Spassose queste troie americane!» Di scatto mi prese il mento fra le dita. «Credi che tutto questo sia uno scherzo? Quel bastardo di tuo padre è scappato con i miei soldi senza consegnarmi le armi!»

    Sbattei le palpebre senza capire. Parlava della stessa persona che conoscevo io?

    Mio padre era un imprenditore e un filantropo.

    «Armi? Non capisco, c’è sicuramente un errore. Lui non fa queste cose e non è un ladro,» risposi attonita.

    «Se gliene frega qualcosa di te, mi deve pagare il doppio, adesso.»

    Mio padre, George Hamilton, produceva macchinari per gli Stati Uniti e anche per il Terzo Mondo, non era un trafficante d’armi.

    «Dimmi, dove cazzo è lui, ora?»

    Per me era rimasto a San Francisco con mamma, non era certo in giro chissà dove a fare il criminale. Di solito al pomeriggio se ne andava al club del golf o rimaneva per ore nel suo ufficio.

    «Non saprei, per quanto ne so è a casa.»

    Hassaan strinse la presa facendomi scricchiolare la mascella, fissandomi con occhi così neri da non riuscire a distinguere la pupilla dall’iride.

    «Ti conviene dirmi quello che sai, puttana. Non mentirmi. Sto perdendo la pazienza.»

    «Io non so proprio niente, signor Hassaan.» Marcai la parola signor come fosse un insulto.

    Mi passò il pollice sulla bocca, percepii il sapore salato del suo dito. Si avvicinò pericolosamente al mio viso, nel suo sguardo leggevo un’eccitazione perversa.

    «Se non fossi così impura saresti stata un bel trofeo da portarmi a palazzo,» finì disgustato.

    Non seppi dire se quel che feci fosse per coraggio o follia, o soltanto per puro istinto: gli sputai in faccia.

    Lo odiavo.

    Odiavo tutti quelli come lui.

    Lo schiaffo arrivò così forte che mi fece girare la testa da una parte e mi spaccò il labbro superiore. «Sei morta, puttana! Preparate l’occorrente per farla parlare,» ordinò Hassaan prima di uscire dalla stanza.

    Gemendo appoggiai la testa al muro.

    Cos’hai combinato, papà?

    2

    Chris


    La vita è come una scatola di cioccolatini…

    ma nel tuo caso è più simile a una scatola

    di granate innescate!

    Dalla serie I Griffin


    Australia, Victoria


    Il vento soffiava sibilando come un richiamo infernale, scompigliandomi i capelli bagnati.

    Era una giornata perfetta per surfare.

    L’unico piacere che mi concedevo da…

    Troncai quel pensiero sul nascere.

    A cavallo della mia vecchia tavola lanciai uno sguardo alla baia più isolata di tutto lo stato del Victoria.

    Il mio santuario di solitudine, in poche persone erano a conoscenza di quel posto.

    Un riflesso in cima al pendio mi annunciò l’arrivo di un ospite.

    Che palle…

    Chiunque fosse lo avrei fatto aspettare, anche se avevo già una mezza idea sulla sua identità.

    Rimasi in attesa dell’onda giusta, ne volevo una di quelle spietate che sfogavano tutta l’ira del mare su di te.

    Una di quelle che se non ballavi al suo ritmo ti faceva a pezzi.

    Ed eccola!

    Scattai e mi immersi assieme alla tavola. Pochi secondi dopo fui in piedi dentro l’onda, all’interno di un cilindro perfetto, con l’adrenalina che pompava nelle vene.

    Anche a lei piaceva la sensazione che poteva darti quello sport, diceva di poter volare sul mare.

    Cazzo!

    Mi lasciai andare facendomi travolgere dall’onda che mi spinse con violenza sul fondo.

    Rimasi lì, sospeso senza nuotare, in pace.

    Il mio corpo ebbe uno spasmo alla ricerca disperata di ossigeno. Poco dopo riemersi con i polmoni che chiedevano pietà. Acciuffai la tavola, arrivai a riva e iniziai a slacciarmi la muta estiva.

    Agguantai l’asciugamano, me lo misi sul collo e mi scolai la birra oramai calda che avevo lasciato lì quasi due ore prima.

    Quando arrivai al sentiero che portava

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