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I giorni del silenzio (eLit): eLit
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E-book322 pagine4 ore

I giorni del silenzio (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Dopo la misteriosa scomparsa di un’adolescente che ha scosso la cittadina in cui viveva, Kirsten Hammarstrom non è più tornata in quello sperduto angolo del Wisconsin.
Aveva solo nove anni all’epoca, ma i dettagli di quei drammatici giorni si sono impressi in modo indelebile nella sua memoria. Perché l’ultimo a vedere Stacy Lemke viva è stato il fidanzato, Johnny, astro nascente della squadra di lotta libera della scuola e fratello maggiore di Kirsten. Nessuno aveva saputo spiegarsi l’accaduto, nemmeno le persone più vicine a Johnny, ma la disgrazia aveva scardinato la comunità, e la famiglia di Kirsten aveva finito per soccombere sotto lo schiacciante peso del sospetto. Ora, molti anni dopo, un’altra tragedia costringe Kirsten e i suoi fratelli a tornare a casa e ad affrontare gli eventi devastanti che hanno cambiato il corso delle loro vite...
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788858989043
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    Anteprima del libro

    I giorni del silenzio (eLit) - Paula treick Deboard

    fatto.

    Prologo

    Ottobre 2011

    Appena fuori Milwaukee, vidi i lampeggiatori alle mie spalle – una pattuglia della Wisconsin Highway Patrol – e subito accostai.

    Ancor prima che il poliziotto mi picchiasse sul finestrino, stavo già frugando nella tracolla che mi trascinavo dietro da quella mattina, quand'ero partita da San Francisco. Ci avevo buttato dentro il cellulare, un rossetto, alcuni compiti da correggere e una copia malconcia di US Weekly.

    Mentre cercavo il pulsante elettrico per abbassare il finestrino, mi vidi riflessa nel vetro: abiti stazzonati, capelli un po' unti all'attaccatura e il mascara applicato dodici ore prima che adesso mi macchiava il contorno degli occhi.

    «Lo so, correvo» ammisi senza aspettare che il finestrino scendesse del tutto. Era una notte gelida. Sul serio era quasi inverno nel Midwest? Avevo vissuto in un mite alone di nebbia senza stagione e quel freddo mi penetrava attraverso la maglietta. Era come se avessi camminato per anni su una specie di tapis roulant e stessi saggiando il terreno soltanto adesso.

    «Patente e libretto» ribatté il poliziotto, in automatico. Gettai un'occhiata attraverso il finestrino, ma il suo viso era nascosto dall'oscurità e solo il distintivo mi scintillava di rimando mentre il colletto sollevato del giaccone sembrava come sull'attenti. Dalla cintola la radio gracchiava.

    «Ho appena noleggiato l'auto all'aeroporto» spiegai, tirando fuori la fodera di plastica della Hertz contenente dépliant patinati e un contratto che si apriva come un ventaglietto a rivelare sul fondo il mio scarabocchio. Avrebbe potuto essere la firma di chiunque, in realtà.

    Lui esaminò il contratto con la pila, più attentamente di quanto non lo avessi studiato io all'aeroporto, con una coda di venti persone che mi ondeggiava alle spalle. Di colpo mi preoccupai – come per la maggior parte delle cose della mia vita – di non essermi presa la briga di leggere le righe scritte in piccolo o di cercare eventuali insidie.

    «La patente?» tornò a chiedere lui.

    «Sì, ecco, la patente...» Rovistai nella borsa in cerca del portafoglio, dove uno spazio vuoto mi guardava da dietro un riquadro di plastica. Carte di credito, il mio pass della Berkeley, un buono di Starbucks con un credito di cinquantasette centesimi. Mi sentivo addosso gli occhi del poliziotto. Per velocizzare la ricerca, rovesciai la tracolla sul sedile del passeggero. Cinque o sei penne, il Kleenex appallottolato con cui mi ero asciugata le lacrime sull'aereo, una caramella mezza scartata... ma nessuna patente. Incominciai a farfugliare come una psicotica in libera uscita. «Mi spiace, agente. Di solito sono un'automobilista coscienziosa. Ma il volo è atterrato tardi ed ero ansiosa di mettermi in viaggio e non c'è praticamente nessuno per la strada...»

    Mentre passavo da una scusa all'altra, sfiorai con la mano sinistra il porta-badge che avevo ancora intorno al collo. «Oh, ecco dove l'avevo infilata!» Grazie al cielo. Ero stata sul punto di appellarmi al sistema giudiziario del Wisconsin, verso il quale non avevo mai nutrito particolare ammirazione. Al contrario allungai il documento che scadeva il giorno del mio compleanno. La fotografia col sorriso imbarazzato, i dati salienti che avevo ritoccato a mio favore, aggiungendomi un paio di centimetri d'altezza e togliendo cinque chili.

    «California, eh?» rispose il tipo. «Immagino che qui faccia un po' più freddo.»

    Risi con sollievo, stando al gioco. Ma certo, California era sinonimo di Los Angeles, in fondo. Dove tutti erano biondi, abbronzati e cavalcavano le onde su una tavola da surf.

    «Mi sa che andate anche più forte da quelle parti» continuò il poliziotto. «Lei superava il limite.»

    «Mi spiace» ripetei tormentando l'orlo della maglietta.

    Il poliziotto mi ignorò mentre digitava qualcosa sul tastierino della ricevente. Il numero di targa per verificare che l'autovettura non fosse stata rubata? Il mio nome per controllare eventuali mandati di cattura o comparizione? O qualche accusa per possesso di droga, prostituzione o rapina?

    Il mio nome. M'irrigidii, un riflesso condizionato per chi aveva sentito il proprio nome in tutti i notiziari, scandito a chiare lettere da qualche giornalista ben pettinata. Temetti per un attimo che il poliziotto potesse avvertire il mio nervosismo, un po' come un cane che fiuta la presenza di un gatto. In California il mio nome non contava. Non risvegliava vecchi ricordi come avrebbe potuto fare lì. L'agente era abbastanza vecchio da ricordare il caso, il nome Hammarstrom sulla copertina di ogni giornale del Wisconsin.

    Mi rese la documentazione della Hertz con sopra la mia patente. Mentre si sporgeva attraverso il finestrino, il suo viso diventò visibile. Pallido, coi baffi, vistosamente stempiato. «Quindi, dov'è diretta?»

    I miei occhi corsero alla strada. L'Highway 43 mi avrebbe condotta oltre Port Washington, Oostburg, Sheboygan. Prima di Manitowoc, mi sarei immessa sulla 151, affrontando le strade di campagna piene di curve che avrebbero finito per portarmi a Watankee, alla Rural Route 4, al vialetto sterrato e alla luce sopra il portico.

    Solo che adesso sarebbe stato tutto diverso perché non ci sarebbe stato lui a salutarmi.

    Di colpo sentii il richiamo del luogo, come la forza insistente di una calamita sepolta sotto strati d'asfalto. Era qualcosa che non sarei mai riuscita a spiegare del tutto ai miei studenti di Geografia Culturale, forse perché non potevo spiegarla nemmeno a me stessa. Il senso del luogo. Sorrisi al poliziotto, a quello sconosciuto che si stagliava nell'aria tersa della sera. Nel profondo del mio essere sentii il pugno invisibile dentro cui era racchiusa la mia infanzia allentarsi adagio. Rilassati, Kirsten. Rilassati.

    «A casa» dissi, deglutendo a fatica. In quel momento sembrava la sola verità, la più profonda di tutte. «Sto andando a casa.»

    1

    1994-1995

    Tutto ciò che c'era da sapere al mondo, diceva mio padre, si poteva imparare in una fattoria. Parlava di cose che la mia mente, modellata dalle parabole della Bibbia e dalle avventure di Dick e Jane, stentava a capire. Il valore del duro lavoro, l'autonomia, il ciclo vitale di tutte le cose. Ecco, il ciclo vitale... quello lo capivo anche. C'erano sempre creature che nascevano lì alla fattoria e altre che morivano. Su come venissero al mondo, non c'erano grossi misteri. «Si stanno accoppiando» spiegava papà quando mi preoccupavo per un toro che sembrava attaccare una giovenca indifesa. «È naturale» diceva ancora quando era il turno dei maiali o quando il gattone bianco della fattoria di Mel Wegner veniva in visita e ci ritrovavamo con intere cucciolate di candidi micetti.

    La natura non era solo lucciole e coccinelle, ma anche sudiciume e decomposizione, se non addirittura morte. Crescere in una fattoria voleva dire conoscere l'odore del letame, capire che i vitellini che mi succhiavano le dita mi sarebbero potuti finire un giorno nel piatto. Era assistere alla nascita di piccoli senza occhi od orecchie, come neonati malformati. Non si poteva guidare fino in città, senza incappare nelle carcasse sanguinolente di qualche animale – gatti, opossum e ogni tanto una moffetta – che aveva rischiato il tutto per tutto con un'ultima attraversata. Quando prendemmo Kennel, il nostro collie meticcio, avevamo già avuto tre labrador color miele, uno più fedele dell'altro, finché non erano scappati durante qualche temporale o non si erano fatti investire sulla Rural Route 4. Papà lo aveva adocchiato al canile municipale; aveva un orecchio mozzato, zoppicava ed era magro da far paura, a riprova di tanti, troppi abusi.

    Nemmeno gli esseri umani sfuggivano al loro destino. Sorbendo la limonata da un bicchiere di plastica dopo la messa della domenica mattina, m'infilavo nelle conversazioni degli adulti, captando piccoli brani. Si era rovesciato un trattore e il contadino era rimasto sotto. Le vacche scalciavano e i garzoni si facevano male. Le donne incinte, lontane chilometri e chilometri da qualsiasi ospedale, entravano prematuramente in travaglio. I macchinari davano sempre dei ritorni di fiamma, le maniche degli abiti da lavoro finivano negli ingranaggi. Per non parlare dei fulmini, delle strade ghiacciate e delle bufere di neve o delle alluvioni e delle ondate di calore. E di tutte le altre cose che potevano andare storte nell'organismo di un individuo.

    Perciò eravamo abituati alla morte col nostro stoicismo da campagnoli. Faceva parte dell'ordine naturale delle cose. Qualcosa nasceva, viveva e poi moriva. E a quel punto qualcos'altro lo sostituiva. Senza che me lo dicesse nessuno, sapevo che funzionava così anche per le persone.

    La mia famiglia, per esempio. Gli Hammarstrom. Il mio trisavolo aveva colonizzato la nostra terra, per poi passarla al figlio, che l'aveva passata al nonno, che l'aveva passata a papà, che l'avrebbe passata a Johnny. I miei si erano sposati e avevano avuto Johnny poco dopo il diploma di papà, mentre la mamma aveva finito il liceo molto più avanti, dopo che eravamo nate io ed Emilie. Avevo sempre pensato che fosse bellissimo che i nostri genitori fossero tanto più giovani rispetto ai genitori di tutti gli altri, finché Emilie non mi aveva chiarito che si era trattato di una specie di scandalo. In ogni caso, quando era nato Johnny, i nonni si erano trasferiti nel cottage accanto, dove si sarebbero sistemati un giorno anche papà e mamma quando fosse toccato a Johnny e a sua moglie ereditare la casa padronale. Quello era l'ordine naturale delle cose, com'era naturale che il granturco venisse seminato, diradato, irrigato, fertilizzato e quindi mietuto. Tutto ciò che nasceva sarebbe morto un giorno. Questo lo sapevo perché ero circondata dalla morte.

    C'era stata la nonna, tanto per fare un esempio. Ero troppo giovane per conservare ricordi precisi della sua morte, anche se avevo ricostruito i fatti da certe conversazioni sussurrate. Se ne stava in cucina, a pelare le mele per la crostata, quand'era successo. Un'embolia polmonare, di qualsiasi cosa si trattasse. Una brutta cosa. Non riuscivo a entrare nella cucina del nonno senza chiedermi: È successo qui? In questo punto? Ma la vita era andata avanti senza di lei. Ogni mattina il nonno si piazzava davanti a quello stesso lavello, a bere il caffè e a guardare fuori dalla finestra.

    Il primo funerale a cui ricordo di aver partecipato fu quello del nostro vicino, Karl Warczak, che era caduto nella concimaia, rimanendo asfissiato dai fumi. Un'ambulanza era sfrecciata lungo la Rural Route 4 e i miei si erano subito accodati. Mamma perché aveva appena finito gli studi da infermiera, e papà perché lui e Karl Warczak avevano lavorato insieme nel corso degli anni, aiutandosi a vicenda con gli animali, le coltivazioni, il raccolto, le riparazioni di macchinari ostinati. Quando si erano fermati dietro l'ambulanza, aveva riferito mio padre in seguito, era già stato troppo tardi. A volte in quei letamai si sprigionavano gas letali, aveva spiegato ancora.

    La sera prima del funerale, mia madre mi aveva steso sul letto gli abiti da indossare. Un maglione usato blu che mi pizzicava anche attraverso il dolcevita, calze spesse bianche e un paio di scarpe col cinturino che mi andavano grandi malgrado il cotone nelle punte. Era sempre stata certa che presto sarei cresciuta.

    Durante la messa mi ero incuneata tra la mamma ed Emilie, costringendomi a non guardare la bara. L'intera faccenda della polvere alla polvere mi faceva venire la nausea, se veramente ci pensavo, come anche il bisbiglio della mamma secondo cui le onoranze funebri avevano fatto un ottimo lavoro col signor Warczak. Era incredibile che fosse morto per davvero, che fosse stato lì un minuto e se ne fosse andato quello successivo, che non mi avrebbe dato mai più una carezza sulla testa con quelle sue manone incrostate di terra. Era stato tutto così strano e solenne. La musica d'organo e i mazzi di fiori, gli uomini in abito scuro e le donne in blu, con le fodere delle lunghe gonne che scivolavano sui collant color carne.

    «Non sta a noi giudicare il perfetto tempismo di nostro Signore» aveva intonato dal pulpito il pastore Ziegler. Ma ricordo di aver pensato che il tempismo non era stato poi così perfetto. Non per il signor Warczak, che aveva pensato di potere aggiustare la pompa della concimaia e rientrare in tempo per il pranzo, e non per il figlio Jerry, che stava per diplomarsi alla Lincoln High School per poi studiare da veterinario. Si diceva anche che il cancro della signora Warczak fosse tornato e che fosse inoperabile questa volta.

    «Quel ragazzo avrà bisogno del nostro aiuto» ci aveva detto papà mentre rientravamo in macchina, coi finestrini tirati giù. «Che tragedia.»

    «Perché è successo?» avevo chiesto io dall'alto dei vecchi elenchi telefonici che mi facevano da rialzo sul sedile. Anche così vedevo appena oltre il finestrino le immense distese di campi arati, seminati e recintati che avrei riconosciuto a occhi chiusi. «Perché è morto?»

    «È stato un incidente. Soltanto un terribile incidente» aveva risposto la mamma, tamponandosi gli occhi col fazzoletto.

    Era stata in piedi tutta la mattina, preparando con le altre donne della parrocchia quei panini al prosciutto e formaggio che sembravano aiutare a sopportare meglio il dolore. Quando avevamo parcheggiato, si era chinata a raccogliere una manciata di fazzoletti umidi e aveva chiuso la portiera alle sue spalle.

    «Oh, tesoro» aveva mormorato mio padre con un sospiro quando io ero rimasta a sedere, con le braccia incrociate contro il maglione blu, aspettando una risposta migliore. Aveva promesso di recarsi dai Warczak più tardi, per dare una mano a Jerry. «È così che vanno le cose. È così.» Si era allungato a stringermi una spalla con la sua ruvida praticità da contadino.

    Per una qualche ragione, malgrado gli anni, non ho mai dimenticato quella conversazione, il modo in cui gli occhi di papà si erano incrociati coi miei, la smorfia che aveva fatto coi baffi nel pronunciare quelle semplici parole.

    Non poteva immaginare le tragedie che anche allora stavano crescendo sulla nostra terra, preparandosi per essere raccolte.

    Tutto ciò che poteva fare era darmi coraggio, esortarmi a stare pronta perché, per come funzionava il mondo, non si poteva mai dire cosa avesse in serbo il destino.

    2

    Avrei ricordato sempre l'estate del 1994 come una sfilza ininterrotta di giornate umide e fiacche in cui l'aria si manteneva pesante e appiccicosa anche a sera inoltrata. Era l'estate del quinto Annual Watankee Softball Tournament e un'estate che non avrei scordato mai. Mia madre aveva letto l'annuncio sul bollettino della chiesa evangelico-luterana di St John una domenica mattina e, cercando un'attività che ci tenesse lontani dal televisore almeno per qualche ora, ci aveva iscritti tutti quella sera stessa.

    «Sarà divertente!» aveva esclamato, spronandoci all'azione. «Già mi vedo gli striscioni: Forza, Hammarstrom Hitters: andate e vincete

    Emilie alzò gli occhi al cielo. «Sempre che non sia: Forza, Hammarstrom Hitters: andate a nascondervi

    Ci esercitammo sul prato davanti a casa, usando i tronchi degli alberi come basi e inseguendo i fuoricampo di Johnny finché non scomparivano in mezzo al granturco. Era da tutta la primavera che Johnny spasimava per entrare in azione, sin da quando si era lussato il gomito durante le semifinali di lotta libera ed era stato costretto alla tribuna, col braccio sinistro fasciato dalla spalla al polso. A giugno il gomito era finalmente guarito e Johnny si sentiva pronto a rivestire i panni dell'eroe locale.

    Scendemmo dalla Caprice Classic di mamma un'ora prima della nostra partita d'inizio al Fireman's Field, con Johnny in avanscoperta e papà che lo seguiva da vicino, fischiettando e giocherellando con palla e guantone. Emilie gli arrancava dietro, con le mani nelle tasche dei jeans. «Chissà che noia» aveva brontolato per tutto il tragitto. «Peggio che stare a casa!»

    Mamma aspettò che scendessi dal mio trespolo in mezzo al sedile posteriore e si sporse a richiudere la portiera. Indicò il libro che tenevo sotto il braccio, Miti e mezze verità. «Lo porti con te?»

    Io ci pensai sopra. Ero troppo piccola per il softball, troppo piccola per tutto in realtà. Mi ci voleva una spinta verso l'alto per raggiungere la scala orizzontale al parco giochi e senza lo sgabello non arrivavo nemmeno a vedermi nello specchio del bagno. Non c'era bisogno di dire che non avrei mai saputo usare una mazza da sola e che sarebbe bastata una palla curva a mettermi fuori combattimento.

    «E se poi mi annoio?» replicai.

    Io e mamma ci avviammo verso il diamante dove Bud Hirsch, capitano degli Hirsch Haybalers, aspettava con la sua cartelletta. Spingendo in avanti la pancia imponente, mi gettò un'occhiata e disse: «Sei qui solo per guardare, vero, nanerottola?». Rise mentre sgattaiolavo via, offesa, dopodiché si mise a gridare ordini al resto della squadra. Johnny avrebbe cominciato come esterno sinistro mentre papà era in prima base.

    «Non fare caso a lui» sussurrò mamma. «Puoi dividere la posizione con me, se vuoi.»

    «No, grazie» risposi piccata. «Preferisco guardare.»

    Durante il riscaldamento, rimasi seduta in panchina con le gambe incrociate, appoggiandomi alla recinzione metallica. Il figlio di Bud Hirsch, Raymond, si stava allenando con Sandy Maertz, membro della nostra congregazione. Papà, Johnny e gli altri uomini del diamante si passavano la palla avanti e indietro, alternando alle palle curve quelle a terra. Mamma si era piazzata nella parte destra del campo esterno, aspettando goffamente di essere inclusa.

    Si stava esercitando anche l'altra squadra, i Loetze's Lions, ed entrambi i lati delle tribune incominciavano a riempirsi. Qualcuno aprì il botteghino, spalancò la porticina di legno e posizionò lo striscione del Watankee Elementary Academic Boosters Club. Il denaro raccolto quella sera avrebbe finanziato le nostre gite scolastiche al Wisconsin Maritime Museum di Manitowoc e le nostre spedizioni annuali – forse meno accademiche ma altrettanto godibili – al Lambeau Field di Green Bay.

    Individuai Emilie mentre saliva in cima alle tribune, coi lunghi capelli biondo miele che le ruscellavano sulle spalle. Il modo in cui si muoveva, la sicurezza che trasudava mi meravigliavano. L'anno prima era stata una goffa quattordicenne. Adesso si preparava a conquistare la Lincoln High School. «Voglio entrare nella banda del liceo» mi aveva detto una notte mentre eravamo sdraiate nei nostri lettini gemelli. Una lama di luna entrava dalle tende e le tagliava il corpo snello a metà. Le anche e le lunghe gambe da una parte, il seno appena sbocciato dall'altra.

    «Perché vuoi entrare nella banda?» avevo domandato io, pensando alle poche partite a cui avevo assistito in vita mia. La banda era formata da ragazzini tremanti che entravano in campo nell'intervallo dopo il numero delle cheerleader, praticamente quando la metà del pubblico decideva di farsi un hot dog o andare in bagno. «Non è certo il modo migliore di guardare la partita.»

    «Chi se ne frega della partita» aveva sbuffato Emilie con un sospiro teatrale. «Voglio che la gente guardi me

    Bud Hirsch riportò la mia attenzione sul gioco con due energiche fischiettate. «Bene! Cambio!» La nostra squadra trotterellò verso la panchina mentre entravano a riscaldarsi i Loetze's Lions.

    Uscendo dal diamante, papà mi diede un energico cinque... come se, stando in disparte, avessi fatto chissà cosa!

    Scivolai giù dalla panchina. «Posso avere un dollaro?»

    «Certo.» Papà si frugò in tasca e tirò fuori una manciata di spiccioli.

    «Non ti allontanare» raccomandò la mamma.

    Mi sentivo i suoi occhi addosso mentre giravo intorno al monte di lancio, sollevando mulinelli di polvere che andavano a posarsi sulle mie scarpe da ginnastica. Resistetti all'impulso di tirarmi su gli shorts che avevo ereditato da Emilie. A volte odiavo il modo in cui mi guardava mia madre, come se fossi stata un campione da laboratorio.

    Col dollaro mi comprai una lattina di Coca-Cola e tre Pixy Stix azzurri, il genere di schifezza dolce che a casa mi veniva invariabilmente negato. Stringendo la bibita con una mano e il libro con l'altra, osservai le tribune in cerca di un posto dove sedermi. Alcune persone della chiesa mi sorrisero con fare incoraggiante, ma io vidi Emilie al centro di un gruppetto di ex studenti della Watankee Elementary School e cambiai strada. Qualcuno dei miei futuri compagni sedeva accanto ai genitori, ma evitammo di guardarci con la tipica goffaggine estiva, come se fosse scontato che avremmo dovuto ignorarci fin dopo il Labor Day.

    Portai il mio Miti e mezze verità in un luogo riparato sotto le tribune e lo aprii in corrispondenza della pagina dedicata ad Atlantide. Incominciò la partita e il pubblico rumoreggiò.

    Ci trovavamo a neanche due chilometri dalla nostra fattoria ma sentire papà gridare: Spediscine uno a casa, Hammarstrom! quando toccò a Johnny lanciare era un po' come immaginare di essere finiti lontanissimo, tipo su un'isola del Sud Pacifico. Papà si trovava lì in realtà solo perché si era accordato con Jerry Warczak. Jerry, che non aveva interesse per il softball, avrebbe sostituito papà con la mungitura serale se papà e Johnny lo avessero aiutato sabato con le galline. Erano i tipici accordi che stringevano tra di loro. «È solo buon vicinato» mi aveva spiegato papà, ma a me era sembrato che fosse qualcosa di più quando aveva sorriso a Jerry, dandogli una pacca sulla spalla e dicendo: «Sei come un altro figlio per me».

    Quando il rumore della partita svanì finalmente in sottofondo, trascorsi gli inning successivi a leggere di Atlantide e a chiedermi come un'intera città fosse potuta – puf! – svanire così. Che cosa sarebbe successo se Watankee, Wisconsin, e tutte le persone che conoscevo fossero scomparse un giorno dalla faccia della terra? Uno schianto improvviso e poi un tuffo nel lago Michigan? Quanto tempo sarebbe passato prima che il resto del mondo avesse sentito la nostra mancanza?

    Mi allungai all'indietro e chiusi gli occhi, ascoltando i colpi della mazza, l'eco improvvisa di un applauso. Immaginai la palla sfrecciare attraverso il cielo azzurro che il tramonto stava incominciando a colorare di rosso. L'erba alta sotto le tribune mi pizzicava e pungeva le gambe e doveva avermi beccato una zanzara. Stavo grattandomi la caviglia quando un'ombra mi coprì.

    «Ciao, sei Kirsten Hammarstrom, vero?»

    Mi raddrizzai per guardarla. Per un attimo ebbi come l'impressione che mi stesse fissando un angelo, anche se la mia catechista, la signora Keithley, diceva sempre che non esisteva niente del genere, a meno di non essere cattolici, forse. La voce apparteneva a una ragazza che portava shorts di jeans e una camicetta a scacchi annodata intorno alla vita, che lasciava scoperta una strisciolina di pelle in corrispondenza dello stomaco. Mi resi conto che ciò che sembrava un'aureola intorno alla sua testa era in realtà soltanto la sua capigliatura rossa, resa più accesa dalle luci dello stadio.

    «Sì» risposi, «sono Kirsten Hammarstrom.» Di colpo mi sentii in colpa, come se fossi stata sorpresa a mangiare una fetta di torta prima di cena.

    «Tuo fratello è Johnny Hammarstrom, vero?» domandò lei chinandosi alla mia altezza. Da così vicino, era la persona più graziosa che avessi mai visto. Pelle bianca e cremosa con una spruzzata di lentiggini sul naso. Carina e sorridente com'era, sarebbe stata perfetta sulla copertina di qualche dépliant di vacanze.

    «Sì» tornai a dire, vergognandomi di colpo per le mie mani sporche e i denti appiccicosi di zucchero. «Perché?»

    Lei sorrise mentre tendeva la mano. «Sono Stacy Lemke.»

    Ci scambiammo una stretta. Non accadde niente di particolare, nessun rombo di tuono e nemmeno un fuoco d'artificio, tuttavia

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