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E-book255 pagine3 ore

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IL LIBRO CHE HA ISPIRATO IL FILM DI SPIELBERG CON LEONARDO DI CAPRIO E TOM HANKS. 

Imbroglione, impostore, falsario, millantatore. A neppure vent'anni Frank Abagnale – alias Frank Williams, Robert Conrad, Frank Adams... – è tutto questo, e molto di più.

Ha solo sedici anni quando, grazie a una carta d'identità e una licenza di volo abilmente sofisticate, riesce a spacciarsi per pilota della Pan Am e a dare il via a un vorticoso giro di truffe. È l'esordio di una travolgente carriera che lo trasforma nel più giovane ricercato sulla lista dei dieci criminali "Most Wanted" dell'FBI.

Una valanga di assegni falsi, per un valore di oltre due milioni e mezzo di dollari, ne fa il truffatore di maggior successo degli Stati Uniti.

Il suo nome – anzi, i suoi nomi – sono noti alla polizia di mezzo mondo. Ma acchiappare il "genio criminale" che è riuscito a spacciarsi per avvocato nella procura federale, professore di sociologia dell'università dello Utah, pilota di linea, agente segreto, esperto di borsa, e a lavorare come supervisore medico in un reparto di pediatria, non è cosa da poco.

Da New York al Messico, dalla Francia all'Italia, hanno fatto di tutto per incastrarlo. E alla fine ci sono riusciti, ma solo per scoprire che Frank Abagnale, come i gatti, ha nove vite. Una più straordinaria dell'altra.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2024
ISBN9788885783621
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    Anteprima del libro

    Prova a prendermi - Frank W. Abagnale

    1

    PRIMI PASSI

    L'alter ego di un uomo non è altro che l'immagine di sé che preferisce. Lo specchio della mia camera al Windsor Hotel di Parigi rifletteva quello che consideravo il mio aspetto migliore: un giovane pilota, bello, tenebroso, la pelle liscia, le spalle larghe e, senza ombra di dubbio, un ottimo partito. La modestia non è certo una delle mie virtù. E poi, a quei tempi, ero tutto tranne che virtuoso.

    Soddisfatto del mio aspetto, afferrai la borsa e lasciai la stanza. Un paio di minuti dopo, ero davanti alla reception.

    «Buongiorno, capitano.» L'impiegata mi accolse con cortesia. I gradi sull'uniforme mi qualificavano come primo ufficiale, un co-pilota, ma i francesi hanno la tendenza a sopravvalutare tutto, fatta eccezione per il loro vino, le loro donne e le loro opere d'arte.

    Firmai il conto dell'albergo e mi avviai verso l'uscita, quindi mi voltai ed estrassi un assegno dalla tasca interna della giacca. «Per favore, può cambiarmelo? Le notti parigine mi hanno prosciugato e non tornerò a casa prima di una settimana.» Sorrisi mestamente.

    La donna prese l'assegno emesso dalla Pan American World Airways e lesse l'importo. «Sono certa che non ci saranno problemi, capitano, ma devo chiedere al direttore l'autorizzazione.» Entrò nell'ufficio alle sue spalle, ma ne uscì subito, con un sorriso raggiante. Mi porse l'assegno perché lo girassi.

    «Presumo che voglia dollari americani.» Senza attendere la risposta, cominciò a contare 786,73 dollari. Le restituii due banconote da 50 dollari. «Le sarei grato se si occupasse lei di ringraziare il personale dell'albergo, dato che io sono stato tanto sbadato da dimenticarmene» dissi sorridendo.

    Si illuminò. «Certo, capitano. Lei è molto gentile. Le auguro un viaggio tranquillo e spero che torni a trovarci.»

    Presi un taxi fino all'aeroporto di Orly e chiesi al conducente di lasciarmi all'ingresso del terminal della TWA. Raggiunsi la biglietteria nell'atrio e mostrai la mia licenza di volo e il tesserino di riconoscimento della Pan Am all'impiegato, che controllò il registro. «Bene, primo ufficiale Frank Williams, trasferimento gratuito per Roma. Compili questo per favore.» Mi porse il modulo rosa per i passeggeri non paganti. Presi la borsa e mi diressi verso l'ingresso riservato all'equipaggio. Stavo appoggiando la borsa sul nastro per l'ispezione del bagaglio, quando l'agente, un uomo anziano, rinsecchito, con dei baffetti sottili, mi riconobbe e mi fece segno di passare.

    Mentre mi dirigevo verso l'aeroplano, notai un ragazzo che mi guardava con ammirazione, colpito dalla mia uniforme, dalle sue strisce dorate e dagli altri ornamenti.

    «Lei è il pilota?» riconobbi dall'accento che era inglese.

    «No, sono un passeggero come te. Volo per la Pan Am.»

    «Lei è un pilota di 707?»

    Scossi il capo. «Un tempo. Adesso piloto i DC-8.»

    Mi piacciono i ragazzini. Questo in particolare mi ricordava me stesso qualche anno prima.

    Un'hostess molto attraente mi accolse in cima alla scaletta e mi aiutò a sistemare il bagaglio nella zona riservata all'equipaggio. «L'aereo è pieno, signor Williams. Io mi occupo del servizio in cabina. Desidera qualcosa?»

    «Solo un po' di latte, grazie. Ma se è impegnata, faccia pure con comodo. Quando si chiede un passaggio non si deve pretendere nient'altro che il viaggio.»

    Entrai nella cabina di pilotaggio. Il pilota, il co-pilota e l'ingegnere di volo erano intenti a controllare la strumentazione prima delle operazioni di decollo, ma si voltarono e mi diedero il benvenuto.

    «Salve, sono Frank Williams, della Pan Am. Non voglio interrompervi.»

    «Gary Giles» si presentò il pilota, allungando la mano verso di me. Indicò col capo gli altri due uomini. «Bil Austin, il mio secondo, e Jim Wright. Benvenuto a bordo.» Strinsi la mano a tutti e tre e presi posto sullo strapuntino, lasciandoli al loro lavoro.

    Venti minuti dopo il decollo, Giles portò il 707 a 9.000 metri di altezza, controllò la strumentazione, comunicò con la torre di controllo di Orly, slacciò le cinture del suo sedile e si alzò. Mi osservò attentamente, quindi indicò il proprio posto. «Perché non piloti un po' questo uccellaccio, Frank? Io vado dietro a mescolarmi con gli altri passeggeri.»

    Era un gesto di cortesia. Appoggiai il cappello sul pavimento della cabina e presi posto sul sedile di pilotaggio. Austin, che aveva preso i comandi quando Giles aveva lasciato il suo posto, me li girò. «È nelle tue mani» mi disse con un sorriso.

    Inserii immediatamente il pilota automatico e sperai con tutto il cuore che quell'aggeggio funzionasse a dovere, perché io non sarei stato capace di pilotare nemmeno un aquilone.

    Non ero un pilota della Pan Am, né di nessun'altra compagnia. Non ero affatto un pilota. Ero un impostore, uno dei criminali più ricercati nei quattro continenti. In quel preciso momento stavo imbrogliando centocinquanta persone che si fidavano di me.

    Prima di aver compiuto ventun anni possedevo già più di due milioni e mezzo di dollari. Tutti rubati. Ne avevo già sperperati altrettanti in abiti firmati, cibi da gourmet, alberghi di prima categoria, macchine di lusso. Ho partecipato a feste in tutte le capitali d'Europa, me la sono spassata sulle spiagge più famose del Sud America, dei Mari del Sud, dell'estremo Oriente e di buona parte dell'Africa.

    Ma non ho certo condotto una vita rilassante. Sono stato parecchio tempo sul «chi vive». Molte volte me la sono cavata sgattaiolando da porte di servizio, scale antincendio, terrazze sui tetti. Ho cambiato più abiti io in cinque anni che la maggior parte degli uomini in tutta la vita.

    Stranamente non mi sono mai considerato un criminale.

    Anche se lo ero, senza dubbio. Sono stato descritto dalle autorità e dai giornali dell'epoca come uno dei più astuti «spacciatori» di assegni falsi di questo secolo, un artista della truffa e dell'inganno, un imbroglione da premio Oscar. La mia abilità era sorprendente. A volte mi sono stupito di me stesso per alcune interpretazioni e alcuni trucchi che sono riuscito a escogitare. Ma non mi sono mai preso in giro. Sono sempre stato consapevole della mia identità, del fatto di chiamarmi Frank W. Abagnale, e non mi sono mai fatto illusioni su quello che sarebbe successo se mi avessero catturato. Sarei finito in prigione.

    Non mi sbagliavo. In Francia sono stato sbattuto in una cella miserabile, ho sopportato il carcere svedese e ho pagato per i miei peccati commessi in America nel penitenziario federale di Petersburg, in Virginia. Durante la reclusione, mi sono volontariamente sottoposto a una perizia psicologica da parte di uno psichiatra criminale dell'Università della Virginia. Ha passato due anni fra test scritti e orali, sieri della verità e analisi grafologiche.

    Le conclusioni dello strizzacervelli diagnosticavano una disposizione a delinquere molto limitata. Ero riuscito a truffare pure lui.

    Alla lettura del referto, uno degli agenti della polizia di New York che aveva lavorato più assiduamente alla mia cattura commentò: «Frank, tu saresti capace di fregare perfino tuo padre».

    Lo avevo già fatto. Con mio padre avevo segnato il primo punto nella mia carriera. Papà possedeva la caratteristica fondamentale del perfetto «pollo»: una fiducia cieca. Lo derubai di 3.400 dollari. Avevo appena quindici anni.

    Sono nato a New York, nel Bronx, dove ho trascorso i primi sedici anni della mia vita. Ero il terzo di quattro figli e portavo lo stesso nome di mio padre. Se volessi trovare una giustificazione al mio comportamento, potrei dire che sono stato il prodotto di una famiglia sfasciata. Mia madre e mio padre si separarono quando avevo solo dodici anni. Ma farei un torto ai miei genitori.

    Chi patì di più per la separazione e il divorzio fu mio padre. Era davvero molto legato alla mamma. Si erano sposati durante la seconda guerra mondiale. A quell'epoca lei aveva solo quindici anni mentre papà ventotto e, sebbene la differenza di età non sembrò mai preoccuparli, ho sempre avuto la sensazione che in qualche modo abbia influito sulla rottura del matrimonio.

    Papà aveva un negozio di articoli per ufficio tra la Quarantesima e la Madison. Le cose gli andavano molto bene. Oltre a essere un uomo d'affari di successo, papà era molto attivo in politica, uno dei pezzi grossi del Partito Repubblicano nel distretto del Bronx. Era anche un patito della pesca sportiva. Spesso volava a Puerto Rico, a Kingstone, nel Belize o in qualche altra località caraibica per compiere le sue imprese sportive. Non portava mai con sé la mamma. Avrebbe dovuto farlo.

    Un giorno papà rientrò da una spedizione a caccia di squali e trovò la casa vuota. La mamma aveva fatto i bagagli e si era trasferita con me, i miei fratelli e mia sorella in un appartamento più piccolo. Papà rimase sconvolto, sorpreso, ferito. La pregò di tornare a casa, promettendole che sarebbe stato un marito e un padre migliore e che avrebbe messo fine alle sue escursioni in alto mare e ai suoi impegni politici.

    La mamma si iscrisse a una scuola di odontoiatria e cominciò a studiare per diventare odontotecnico.

    Papà non si arrese. Cercava in tutti i modi di riconquistarla, pregava, implorava, minacciava, adulava. Ovviamente quella situazione fece su di noi un certo effetto. In particolare su di me. Volevo bene a mio padre. Gli ero più vicino degli altri fratelli, e lui cominciò a chiedermi di aiutarlo a conquistare la mamma. «Parlale, figliolo» mi diceva. «Dille che sono innamorato ancora di lei e che saremmo più felici se vivessimo tutti insieme.»

    Ma mia madre non era tipo da farsi imbrogliare. E probabilmente papà ne ricavò più danno che beneficio, perché lei era infastidita dal fatto che lui si servisse di me come pedone nella sua partita a scacchi. Divorziarono quando avevo quattordici anni.

    Papà era distrutto. Io ero arrabbiato, perché desideravo che tornassero insieme. Nel 1974, quando mio padre morì, stava ancora cercando di rimettersi con la mamma.

    Dopo il divorzio, scelsi di vivere con mio padre, perché lui non sarebbe stato in grado di vivere da solo. Non mi sono mai pentito della scelta. Lui probabilmente sì.

    Passavo la maggior parte del tempo nei migliori bar di New York. Papà teneva gran parte delle sue riunioni d'affari e dei suoi incontri politici nelle vicinanze di un bar, e io ero sempre lì ad aspettarlo. Ero affascinato dai suoi amici e conoscenti, appartenevano a tutti gli strati sociali del Bronx: poliziotti, leader sindacali, uomini d'affari, camionisti, imprenditori, agenti di cambio, impiegati, tassisti, promoter. Dopo cinque mesi, avevo imparato la legge della strada ed ero diventato molto furbo. Anche se non disponevo certamente dell'educazione che mio padre aveva in mente per me.

    Papà era molto influente. Lo scoprii quando cominciai a marinare la scuola e a girare con certi bulli del mio quartiere. Non facevamo parte di una gang. Non commettevamo reati. Eravamo semplicemente dei ragazzini che avevano alle spalle una situazione familiare difficile e che cercavano di attirare l'attenzione. Probabilmente era questo il motivo per cui cominciai a bighellonare con loro. Volevo che i miei genitori tornassero a vivere insieme, e avevo l'impressione che se mi fossi comportato come un piccolo delinquente avrei potuto dare loro un motivo su cui fondare la riconciliazione.

    Come teppista non ero un granché. Per la maggior parte del tempo succhiavo caramelle e sonnecchiavo nei cinema. Ero molto più maturo dei miei compagni e fisicamente molto più sviluppato. A quindici anni avevo un corpo adulto, ero alto un metro e ottanta e pesavo ottantacinque chili. In molte situazioni ce la siamo cavata perché tutti pensavano che fossi un professore che portava in giro gli alunni o un fratello maggiore che si prendeva cura del fratellino e dei suoi amici. D'altronde, io stesso a volte ero infastidito dagli atteggiamenti infantili dei miei compagni.

    Quello che mi disturbava di più era la loro mancanza di stile. Avevo imparato che la classe è una dote universalmente ammirata, che riesce a far perdonare qualunque colpa. I miei amici non erano nemmeno in grado di rubare un'automobile. Quando lo fecero mi passarono a prendere a casa ma fummo subito fermati da una pattuglia della polizia. Quegli idioti avevano rubato una macchina posteggiata davanti a un passo carrabile e non si erano accorti che il proprietario stava annaffiando il prato davanti a casa. Finimmo tutti in riformatorio.

    Papà non solo mi tirò fuori, ma riuscì a far cancellare qualsiasi traccia del mio coinvolgimento penale da tutti i documenti. Quello scherzetto costò parecchie notti insonni a diversi poliziotti. Sarei rimasto un incensurato.

    Papà si dimostrò molto comprensivo: «Commettiamo tutti degli errori, figliolo» mi disse. «So cosa stavi cercando di fare, ma non è questo il modo giusto. Per la legge sei ancora un ragazzo, anche se hai l'aspetto di un uomo. Forse dovresti cominciare anche a pensare come un uomo.»

    Abbandonai le cattive compagnie, ricominciai ad andare a scuola regolarmente e trovai un lavoro per mezza giornata come magazziniere. Papà era contento, tanto che mi comprò una vecchia Ford, che io usai come una vera e propria trappola.

    Quell'automobile infranse la scarsa moralità che avevo in corpo. Mi introdusse al mondo delle ragazze, e non fui più responsabile delle mie azioni per i successivi sei anni. Furono anni favolosi.

    A quindici anni sapevo che le ragazze erano fatte diversamente dai ragazzi. Ma lo scoprii del tutto solo quando, uscendo dal meccanico, mi fermai a un semaforo rosso e vidi una ragazza che guardava me e la Ford. Non appena si accorse che la stavo osservando, mi lanciò uno sguardo ammiccante, dondolò la fronte e reclinò la testa all'indietro. Fu allora che mi persi nelle mie fantasie. Non ricordo come entrò in macchina, né dove andammo, ma non riesco a dimenticarmi che era morbida come la seta, soffice, calda e profumata. Avevo trovato quello che si sarebbe rivelato il mio passatempo preferito.

    Le donne divennero il mio unico vizio. Non riuscivo a pensare ad altro. Erano tutte incantevoli. Mi alzavo all'alba in cerca di ragazze. Uscivo di notte e le inseguivo con una lampada tascabile. Ero ossessionato dalle donne.

    Dopo i miei primi incontri ravvicinati, diventai un tipo affascinante. Ma anche se le ragazze non sono necessariamente costose, nessuna di loro si aspetta un hamburger e una Coca-Cola. E io non avevo denaro a sufficienza. Dovevo trovare un modo per incrementare le mie disponibilità finanziarie.

    Provai con papà, che non era del tutto ignaro di quali fossero i miei divertimenti. «Avrei bisogno di una carta di credito per la benzina. La mia paga mensile la uso per i pranzi a scuola, la sala giochi, le uscite con le ragazze, e spesso non ho il denaro per la benzina. Cercherò di pagare i conti da solo, e ti prometto che non abuserò della tua generosità.»

    Ero diventato loquace come un venditore di cavalli irlandese, e in quel momento ero sincero. Papà meditò sulla mia richiesta, poi annuì. «Va bene, Frank, mi fido di te» disse estraendo la sua carta della Mobil dal portafoglio. «Prendi questa carta. D'ora in avanti non addebiterò nessuna spesa alla Mobil. Sarà la tua carta, e per questo sarà tuo dovere pagare il conto ogni mese. Sono certo che non te ne approfitterai.»

    L'accordo funzionò alla perfezione per il primo mese. La Mobil spedì il conto e io mandai un ordine di pagamento. Ma così facendo rimasi di nuovo in bolletta e mi trovai ancora una volta ostacolato nella mia quotidiana caccia alle ragazze. Cominciai a sentirmi frustrato. Dopotutto la propria felicità è uno dei diritti inalienabili nella società americana. Mi sentivo defraudato di un diritto costituzionale.

    Per alcune persone il desiderio di primeggiare trascende la razionalità. Sono stimolati dal senso di sfida, come uno scalatore di fronte a una vetta. Cosa è giusto o sbagliato non ha alcuna rilevanza, e nemmeno le eventuali conseguenze. Il crimine viene considerato come un gioco, e quello che conta non è quanto ci si gioca, ma il successo dell'impresa. Quelle persone sono i giocatori di scacchi del mondo criminale.

    Fu proprio il desiderio di sfida che mi indusse a mettere in piedi la mia prima truffa. Avevo bisogno di denaro. Un giorno mi fermai a una stazione di servizio Mobil e vidi un cartellone davanti alla rastrelliera delle gomme: «Sostituisci le tue gomme usate - Utilizza la tua Mobil Card». Per la prima volta mi resi conto che la Mobil Card poteva essere usata per pagare non solo la benzina e l'olio. Non avevo bisogno di cambiare le gomme della macchina, quelle che avevo erano praticamente nuove, ma mentre osservavo il cartellone, fui folgorato da un'idea.

    Scesi dalla macchina e mi avvicinai al proprietario della stazione di servizio. Lo conoscevo, dato che mi ero fermato a far benzina alla sua pompa diverse volte.

    «Quanto mi costerebbe un treno di gomme nuove?»

    «Per questa macchina 160 dollari, ma le tue gomme sono a posto.» Mi guardò aspettando che aggiungessi qualcosa.

    «Infatti, non ho bisogno di cambiare le gomme» convenni. «Ma sono messo male con il contante. Vorrei comprare un treno di gomme e addebitarlo su questa carta. Solo che lei si terrà le gomme. Mi darà solo 100 dollari. Quando mio padre pagherà il conto alla Mobil, lei avrà indietro i soldi con gli interessi. Quando venderà le gomme si prenderà altri 160 dollari. Ci guadagnerà parecchio.»

    «Cosa dirà il tuo vecchio?» mi chiese dopo avermi studiato attentamente.

    Alzai le spalle. «Non controlla mai la mia macchina. Gli ho detto che dovevo cambiare le gomme e lui mi ha risposto di addebitare il costo su questa carta.»

    Era ancora dubbioso. «Fammi vedere la patente.»

    Gliela porsi. «Hai solo quindici anni? Ne dimostri dieci di più» mi disse l'uomo mentre mi restituiva il documento.

    Sorrisi. «Ho fatto tanta strada.»

    Annuì. «Devo chiamare la Mobil per avere una conferma. Se dicono che va bene, l'affare è concluso.»

    Uscii dalla stazione di servizio con cinque biglietti da venti nella tasca.

    Ero inebriato dalla gioia. Era une delle sensazioni più piacevoli che avessi mai sperimentato.

    E così il gioco mi prese la mano. Se aveva funzionato una volta, perché non avrebbe dovuto funzionare ancora? Nelle settimane successive usai lo stesso trucco tante di quelle volte che persi il conto. Non ricordo quanti treni di gomme, batterie e altri accessori per auto acquistai servendomi della carta di credito, per poi rivenderli a prezzo ridotto. Battei ogni stazione della Mobil in tutto il Bronx. Usai quella carta fino a consumarla.

    Tutti i soldi li sperperai con le ragazze. All'inizio pensavo quasi che fosse la Mobil a pagare. Perché dunque limitarsi? Poi i primi conti mensili cominciarono a riempire la cassetta delle lettere. D'un tratto realizzai che la Mobil avrebbe preteso da mio padre il saldo di quel debito. Non avevo pensato che la vittima del mio giochino sarebbe stato proprio papà.

    Buttai il conto nel cestino della carta straccia. Un secondo avviso, inviato due settimane dopo, fece la stessa fine. Pensai di affrontare papà e di confessare la mia colpa, ma non ne avevo il coraggio. Sapevo che presto o tardi lo avrebbe scoperto, ma decisi che avrebbe dovuto essere qualcun altro a dirglielo.

    Mentre attendevo che avvenisse l'incontro al vertice tra papà e la Mobil, continuai a servirmi della carta di credito, pur essendo consapevole della truffa ai danni di mio padre. Ma un erotomane non ha una coscienza.

    Alla fine un rappresentante della Mobil andò a trovare mio padre al negozio. Fu molto cortese.

    «Signor Abagnale, lei è titolare di una carta Mobil da quindici anni, apprezziamo la sua fedeltà. Le abbiamo accordato un credito illimitato per la sua puntualità nei pagamenti. Ci chiediamo come diavolo sia possibile spendere 3.400 dollari in benzina, olio, batterie e gomme in soli tre mesi per una Ford del 1952. Lei ha cambiato quattordici volte le gomme e ha

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