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Dopo di lei
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E-book369 pagine5 ore

Dopo di lei

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Info su questo ebook

È l'estate del 1979 a Marin, California. Rachel e la sorellina Patty esplorano indisturbate la montagna dietro casa, lasciate un po' a loro stesse da un padre detective di polizia, affascinante e molto impegnato, e da una madre triste e depressa, che si occupa di loro un po' da lontano. Possono sperimentare la libertà, i giochi di un'infanzia senza confini, inventarsi le giornate senza seguire alcuna regola in particolare. Finché un giorno delle giovani donne iniziano a essere uccise su quella montagna. Il padre di Rachel viene incaricato del caso, il più importante e difficile che gli sia mai stato affidato. Ma la sua grande occasione si trasforma presto in un fallimento, quando tarda a trovare il Killer de Tramonto. Per aiutarlo Rachel e Patty decidono allora di lanciarsi nel gioco più pericoloso che abbiano mai azzardato: iniziano a investigare, mettendo a rischio se stesse e compromettendo per sempre la carriera del padre.

Sono passati trent'anni da quell'estate, e Rachel, ora affermata scrittrice, non è ancora riuscita a dimenticarla ed è per liberarsene per sempre che decide di raccontarla.

LinguaItaliano
Data di uscita8 set 2015
ISBN9788858938690
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    Anteprima del libro

    Dopo di lei - Joyce Maynard

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    After Her

    Harpercollins Publishers LLC, New York, U.S.A.

    © 2013 Joyce Maynard

    Traduzione di Luigi Bertolini

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5893-869-0

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Prologo

    Poco più di trent’anni fa, in un giorno di giugno (era l’ora del tramonto e mi trovavo sola su una montagna della Contea di Marin in California) un uomo mi venne incontro tenendo tesa fra le mani una corda di pianoforte, con la chiara intenzione di mettere fine alla mia vita. Avevo quattordici anni, e molte altre persone erano già morte per mano sua. Non dimenticherò mai cosa vuol dire guardare un uomo negli occhi e pensare che quel volto è l’ultima cosa che vedrai.

    Devo ringraziare mia sorella se sono qui a raccontare quello che successe quel giorno. Per ben due volte è stata mia sorella a salvarmi, mentre io non sono stata capace di fare lo stesso per lei.

    Questa è la nostra storia.

    Non succedeva mai niente di speciale sulla montagna dove vivevamo, e in casa non avevamo la televisione via cavo. Speravamo sempre in qualcosa di un po’ emozionante, e così mia sorella e io ci inventavamo delle situazioni. L’unica cosa di cui disponevamo era il tempo.

    Un giorno decidemmo di capire che cosa si provi a essere morti.

    «Se una persona è morta non sente niente» disse Patty. Mia sorella era così, tanto perché lo sappiate.

    Indossavo una felpa, una di quelle con la chiusura lampo, il cappuccio e due tasche per metterci la gomma da masticare. La stesi sull’erba lungo il pendio dietro casa, con le maniche allargate, come se fosse una persona investita da un camion, e il cappuccio piegato leggermente di lato, in modo che si vedesse il più possibile la fodera rossa, come una pozza di sangue.

    «Sdraiati» dissi a mia sorella, indicandole un punto al centro, sopra la lampo.

    Patty poteva non essere d’accordo, ma faceva quasi sempre quello che le dicevo, e se aveva delle domande, le teneva per sé.

    Mi sdraiai di fianco a lei. Abbastanza vicino perché si vedesse quanto più rosso possibile intorno ai nostri corpi.

    E adesso?

    «Sta’ ferma. Fai in modo che il torace non si muova quando respiri.»

    Chiunque altro avrebbe chiesto una spiegazione, ma Patty no. Lasciare che ci arrivasse da sola era parte del mio piano, e lei l’aveva capito.

    Per un bel po’ non successe nulla. Faceva caldo quel giorno, ma noi rimanemmo lì immobili.

    «Mi prude il naso.»

    «Non ci pensare» le risposi. «Pensa a qualcos’altro, qualcosa d’interessante.»

    Per me, a quel tempo, qualcosa d’interessante voleva dire il cantante Peter Frampton, o i jeans che avevo visto al centro commerciale un paio di settimane prima, perfetti sotto tutti i punti di vista, tranne il prezzo. O i quaderni in cui scrivevo le storie che inventavo e che poi leggevo a mia sorella; lei sosteneva che fossero meglio dei romanzi di Nancy Drew.

    Per Patty, invece, voleva dire Larry Bird che andava a canestro eseguendo un tiro a uncino. O un cane che le piaceva. Cioè tutti.

    «Hai visto quella nuvola?» disse. «Ha la forma di un bassotto.»

    Silenzio.

    Chissà quanto tempo passò. Dieci minuti? Un’ora? Poi lo vidi: un avvoltoio che volteggiava sopra le nostre teste. Prima uno, poi altri due. Volavano alti, ma era chiaro dalla loro posizione che il bersaglio eravamo noi.

    «E adesso?» chiese Patty.

    «Zitta. Sta’ ferma.»

    Altri due uccelli si unirono ai primi, i cerchi si facevano sempre più stretti, come se ci stessero puntando; si stavano anche abbassando, sempre più vicini ai nostri corpi.

    «E se cercano di beccarci gli occhi?»

    Nessuna risposta da parte mia. Fare in modo che gli avvoltoi ci individuassero era proprio quello che volevo, mia sorella l’aveva sicuramente capito.

    Gli avvoltoi puntavano decisamente verso il basso, scendevano in picchiata facendo quel terribile verso stridulo. Si stavano facendo sotto, urlando non tanto a Patty e a me, vista la natura di quegli strilli, ma l’uno all’altro. Probabilmente lottavano per essere ciascuno il primo a mangiarsi i nostri occhi.

    Poi si udì un strillo finale, non dagli avvoltoi più vicini, ma da uno che fino a quel momento non avevamo notato, uno un po’ più lontano degli altri che stava scendendo in picchiata. Piombò su di noi come una freccia, con il becco e gli artigli puntati sui nostri volti.

    Non ci fu bisogno di dire a mia sorella cosa fare. Saltammo in piedi urlando e ci precipitammo di corsa giù dal pendio verso casa. Nemmeno il tempo di recuperare la felpa, anche se poi, spariti gli avvoltoi, tornammo a riprendercela ansimando, tenendoci per mano e urlando. In montagna si può urlare quanto si vuole, e a noi dava un senso di benessere; cercavamo sempre una buona scusa per urlare.

    Più tardi, ripreso fiato, restammo sdraiate nel nostro giardino ripensando a tutto questo.

    «Ho sentito le loro piume sfregarmi il braccio» dissi.

    «Ho sentito sulla faccia il vento prodotto dalle loro ali che battevano» rispose lei. «Come un fiato caldo.»

    «Adesso sai cosa si prova a essere morti» conclusi.

    O meglio, non proprio morti, ma sul punto di morire.

    Io me lo ricordo così, forse sbaglio. Da giovane avevo una grande immaginazione, ero brava a inventare storie, e le mie storie erano così belle che a volte io stessa credevo fossero vere.

    Ed ero perennemente in cerca di emozioni, finché non ne arrivarono in abbondanza.

    PARTE I

    My little pretty one, pretty one

    1

    La cittadina in cui io e mia sorella siamo cresciute si stende all’ombra del monte Tamalpais, poco a nord di San Francisco. Il complesso non più modernissimo in cui abitavamo, all’interno di Morning Glory Court, era situato vicino all’uscita dell’Highway 101, una dozzina di chilometri a nord del Golden Gate. C’erano diversi bus che portavano a San Francisco: il ponte segnava l’ingresso in quel mondo speciale, anche se qualcuno lo usava solo per saltarci giù. Ai nostri occhi, comunque, San Francisco era come la luna.

    Nostro padre era cresciuto lì: North Beach, patria della vera salsa al pomodoro, diceva sempre. Era lì che erano venuti gli hippie per l’estate dell’amore, era nelle vie di The Haight che Janis Joplin era comparsa un bel giorno, era a San Francisco che sfrecciavano i tram e che si snodava Lombard Street con le sue belle case vittoriane in colori pastello. Ed era lì che un’altra Patty (Hearst), qualche anno prima, era entrata nell’Hibernia Bank con una carabina automatica in nome dell’esercito di Liberazione Simbionese.

    Negli anni successivi diverse rock star cominciarono a comprare case al di là della highway, ma a quell’epoca non era ancora un posto alla moda. Nessuno allora si sognava di circondare la sua proprietà con muri e cartelĺi per avvertire gli eventuali ladri che era in funzione un sistema d’allarme, quelli erano ancora tempi dominati dalla fiducia. Il prato intorno a casa scorreva in quello dei vicini libero da siepi o recinzioni, tanto che io e mia sorella potevamo correre da un estremo all’altro della via senza invadere mai il marciapiede a fianco. La gente girava tranquilla e sicura, quasi nessuno chiudeva la porta a chiave.

    Casa nostra, al numero 17, era la più piccola di tutta la via: due esigue camere da letto buie, un soggiorno con il soffitto basso e una cucina che i precedenti proprietari avevano riempito di formica verde e che, per fare le cose bene, aveva elettrodomestici color verde avocado, nessuno dei quali dava mai garanzie di funzionare a dovere. Il soggiorno era decorato con pannelli di legno, nel tentativo di dare alla stanza un aspetto accogliente, tentativo per altro completamente fallito.

    I nostri genitori avevano acquistato quella casa – il massimo possibile con lo stipendio di un poliziotto – nel 1968, quando io avevo due anni e mia sorella era nata da poco. Mia madre diceva che la Contea di Marin era un buon posto dove far crescere dei figli, anche se nostro padre a quel tempo lavorava in città, intendo dire a San Francisco. Era un poliziotto di pattuglia, non era ancora diventato ispettore, e conoscendolo capisco che gli andasse bene lavorare lontano da casa, oltre quel ponte che adorava. Per uno come lui era la situazione ideale, starsene fuori tutto il giorno a salvare la gente mentre noi eravamo al sicuro nella nostra casetta.

    In quei giorni a nessuno sarebbe venuto in mente di costruire alloggi popolari in un luogo come quello dove stavamo noi. Quei terreni dove crescemmo erano destinati a ville di cinquecento metri quadrati con piscina e grandi prati, cucina all’aperto e costosi mobili da giardino. Nonché garage a tre posti per automobili di fabbricazione europea.

    Ma allora (negli anni Quaranta, dopo la guerra), quando venne edificato il Morning Glory Court con le strade adiacenti (Bluebell, Honeysuckle, Daffodil e la mia preferita Muriel Lane, chiamata probabilmente così in omaggio alla moglie di uno dei costruttori), godere di una bella vista e affacciarsi sull’aperta campagna non era considerato un privilegio. Allora era possibile non avere tanti soldi, come noi, e vivere a contatto con la natura. Così la montagna dietro casa divenne il nostro campo di giochi, mio e di mia sorella.

    Nei suoi primi cinque anni di vita Patty parlò pochissimo, lasciandosi andare solo con me. Non che avesse degli impedimenti, disponeva di un buon vocabolario e non aveva difficoltà di linguaggio; aveva anche una sua opinione su tutto – non solo sui cani e la pallacanestro – ma anche (per parlare delle cose che non le piacevano) sugli alimenti di colore rosso, a parte il sugo alla marinara, e sui vestiti, in particolare quelli con l’etichetta che le graffiava il collo. Fin da piccola aveva sviluppato un forte senso dell’umorismo, soprattutto riguardo al corpo e alle cose che si fanno in bagno. I rutti la facevano sempre ridere e le puzze, soprattutto se di una donna elegante o di un uomo in giacca e cravatta, la facevano proprio sganasciare.

    Ma se qualcuno le faceva una domanda – non solo io, anche i suoi compagni, la maestra dell’asilo, i nostri genitori – rimaneva zitta, a meno che io non fossi presente, nel qual caso mi sussurrava la risposta all’orecchio, perché fossi io a diffonderla e a farla conoscere al mondo, quel mondo che stava oltre la cellula composta da noi due insieme. Giovane com’ero, non sapevo ancora che altre bambine di cinque anni avevano tante cose da dire. Né sapevo che le cose potevano andare molto diversamente con una sorella minore.

    Quando andavamo in banca con nostra madre e l’impiegato allo sportello le chiedeva quale fosse il suo lecca lecca preferito, Patty mi sussurrava la risposta nell’orecchio e io la dicevo al suo posto. Quello verde. Faceva finta di niente quando gli altri bambini la chiamavano coniglietto per via dei suoi denti, e se giocando per strada un ragazzo voleva un suo giocattolo lei glielo dava senza protestare. Se però uno di quei ragazzi mi prendeva in giro (per i miei vestiti diventati troppo stretti o per la mia goffaggine nel tirare la palla) lei affrontava (in silenzio) chi mi aveva offeso con una delle mosse di jujitsu che avevamo appreso da nostro papà. Una volta, a uno spettacolo di marionette dove eravamo andate con nostra madre, un ragazzo si era seduto nel posto che lei aveva tenuto per me: senza pensarci due volte, gli aveva tirato una gomitata nello stomaco e, tanto per non sbagliare, anche un calcio negli stinchi. Poi, con un ampio gesto mi aveva indicato il posto libero di fianco a lei. Il tutto senza dire una parola.

    Chiunque avrebbe potuto pensare che fosse timida, ma quando ci ritrovavamo nella nostra stanza veniva fuori la vera natura di Patty, un segreto noto a me sola. In quei momenti si abbandonava ai suoi balletti in mutande, o all’imitazione della sua maestra, Mrs. Eggert, quando preparò i suoi scolari all’ispezione del sedere da parte dell’infermiera scolastica, in occasione di un’epidemia di tigna; o ancora al suo divertimento preferito: fingere di essere un cagnolino mettendosi a quattro zampe con la lingua fuori e dimenando le chiappe come se avesse la coda.

    Mia sorella sapeva essere davvero sfrenata: una volta per esempio si buttò dal letto a castello su una pila di cuscini, insufficiente ad attutire la caduta; ricordo ancora la sua faccia quando colpì il pavimento. Sapevo che si era fatta male, ma lei non fece una piega perché era anche orgogliosa.

    A volte parlare al posto suo significava soltanto chiedere di mettere un po’ di senape nel panino o dire quale gusto di gelato voleva. Mi comunicava tutto con voce incredibilmente fioca, così bassa che solo io riuscivo a sentirla. Ero poi io a dare voce alle sue parole.

    «A Patty non interessano le bambole» dissi a nostra madre quando aprì il suo regalo di Natale, una bambola che piangeva dotata di un ricco corredino. «Dice che è molto carina, e pensa che a me probabilmente piacerebbe. Però lei preferirebbe un cesto da pallacanestro o un maialino.»

    Quello che voleva davvero, ovviamente, era un cane. Ma nostra madre l’aveva già escluso fin da principio.

    In tutto questo c’era una cosa interessante: per quanto parlasse pochissimo a quell’epoca, e pur rimanendo un tipo silenzioso anche più tardi, aveva una voce stentorea: non acuta o stridula, come certe ragazzine, ma sorprendentemente bassa e profonda. La si udiva da lontano, e talvolta, mentre noi eravamo fuori in bicicletta impegnate in una delle nostre discussioni, la mamma capiva che Patty stava tornando cinque minuti prima che arrivasse a casa. Secondo i nostri genitori era famosa per questo fin da piccolissima.

    «Rachel ha una normale voce da bambina» diceva nostro padre riferendosi a me. «Ma quando Patty caccia un urlo, probabilmente la sentono fino a Eureka, è un miracolo che io abbia i timpani ancora a posto.»

    Non esiste un’immagine della mia infanzia in cui Patty non sia presente (sto parlando della mia memoria, non degli album di foto che mia madre non è mai riuscita a collezionare). Quando mi viene alla mente un’immagine di noi due, siamo quasi sempre abbracciate, oppure lei ha la testa posata sulla mia spalla (o viceversa, perché Patty ha cominciato a crescere e a diventare più alta di me molto presto). Se fosse una foto scattata dopo aver compiuto sei o sette anni, Patty avrebbe la bocca rigorosamente chiusa, c’è da scommetterci. Io di sicuro avrei un’espressione preoccupata, ma lei un’aria sorridente.

    A quel tempo non si usava spesso la parola depressione, ma io credo che percepissimo entrambe fin da piccole che nostra madre fosse una donna fragile: era come se avesse spazio ed energia solo per quello che aveva già nel piatto. In quel periodo nostro padre si era iscritto alla scuola serale, voleva prendere il diploma necessario per poter diventare ispettore. Fin dall’inizio, appena entrato nelle forze di polizia, aveva desiderato lavorare nella Sezione Omicidi, non gli importava nulla delle multe per divieto di sosta, degli scippi o dei furti in appartamenti. Forse aveva visto certi famosi ispettori del cinema – William Holden, Humphrey Bogart, Robert Mitchum – e ne era rimasto affascinato.

    Così, a quel tempo, lavorava il doppio (di giorno poliziotto a San Francisco, di sera a scuola), mentre nostra madre stava a casa con Patty e me. Non c’è dubbio che fosse piuttosto duro e faticoso, ma doveva anche essere entusiasmante studiare psicologia e tecniche di indagine scientifica, mentre sua moglie rimaneva a casa con le bambine. Conoscendo mio padre, non credo nemmeno che si precipitasse a casa appena finite le lezioni, probabilmente c’erano anche delle studentesse che frequentavano l’accademia di polizia, e di sicuro c’erano delle cameriere nei locali che frequentava dopo i corsi.

    «A vostro padre è sempre piaciuto rendere felici le donne» mi confessò la mamma una volta. Lo disse senza alcun rancore, nella sua voce si coglieva solo una stanca rassegnazione, era un dato di fatto che io, peraltro, conoscevo già. Forse in quel suo strano modo di fare vedevo il perseguimento di una missione, come se si sentisse in dovere di spargere felicità intorno a sé, nei confronti di molte donne, da rendere molto felici (cosa questa che gli riuscì perfettamente, almeno per un certo periodo).

    Il problema dei nostri genitori era che, probabilmente, di tutte quelle donne mia madre era stata l’unica apparentemente insensibile alle sue strategie amorose, e per un uomo abituato ad affascinare la popolazione femminile dell’intera Bay Area di San Francisco questo doveva essere stato un bello scacco. Nostra madre era la più in gamba di tutte, tanto per cominciare. Sapeva resistere con disinvoltura all’adulazione; apprezzava l’onestà; lusinghe e manfrine erano inefficaci con lei se ti eri macchiato della colpa di tradirla: bastava mentirle una volta perché lei ti segnasse per sempre.

    Mi torna spesso alla mente una scena di quando eravamo ancora piccole: mio padre entra in casa di ritorno dal lavoro, gira intorno alla mamma per tutta la cucina slacciandole il grembiule, infilandole le mani sui fianchi e cercando di baciarla sulla bocca.

    «Che buon profumo» dice lei, allontanandolo. «È nuovo?»

    Non lo guardò nemmeno! Si riallacciò il grembiule con quell’espressione di sfinimento che sembrava dire: Non sprecare il tuo tempo qui, ora, con me...

    Cosa che lui fece, dopo un po’.

    2

    Nostro padre si era guadagnato qualche medaglia come agente di polizia, ma era fare l’ispettore la cosa che più gli piaceva. Era tutta una questione di psicologia, ci diceva. Intuire il carattere di una persona, esattamente quello che aveva fatto suo padre, barbiere a North Beach, che per tutta la vita aveva ascoltato le storie dei suoi clienti. Papà non faceva niente di molto diverso quando si chiudeva con un criminale nella stanza per gli interrogatori e cercava di farlo confessare.

    Prima di tutto devi capire il meccanismo mentale di una persona, e a quel punto ti inserisci come un orologiaio nel meccanismo di un orologio.

    Agli ispettori della Sezione Omicidi della Contea di Marin (e più ancora, dell’intera Bay Area di San Francisco, e forse oltre ancora) era noto che nessuno sapeva far cantare un indagato come Anthony Torricelli. «Se sua madre avesse un segreto da portarsi nella tomba» mi disse una volta il suo amico Sal, «puoi star sicura che dopo dieci minuti con Tony in quella stanza confesserebbe tutto piangendo, persino di aver fatto sesso con il lattaio. Tony è davvero speciale.»

    Non solo speciale, era il migliore.

    Una delle qualità richieste a una persona, uomo o donna che sia, per diventare un ispettore di prim’ordine (uomo o donna che sia, disse proprio così, tipico di papà) è di essere sempre vigili e attenti. Devi sapere che domande fare e come interpretare le risposte, devi capire se l’interrogato ti sta dando un’informazione, e intuire al tempo stesso tutto quello che non ti sta dicendo.

    Ma soprattutto, devi cogliere ciò che sta intorno alle parole che pronuncia (anche in questo caso uomo o donna che sia, perché dopotutto anche le donne possono commettere dei crimini e non essere solo oggetto di venerazione).

    Devi capire il linguaggio del corpo dell’indagato. Ti guardano negli occhi quando dicono dove si trovavano la notte scorsa? Cosa significa se tengono le mani sui fianchi, o se continuano a incrociare le gambe? Si tirano un po’ su le maniche quando affermano di non aver mai conosciuto un tizio di nome Joe Palooka, che spacciava crack nel quartiere di Hunters Point? Perché hanno le unghie mangiate fino alla radice? La vedova Jones può anche vestirsi di nero, ma perché tre giorni dopo il funerale aveva il segno di un succhiotto sul collo?

    Quest’ultima osservazione nostro padre in verità non l’ha mai condivisa con me e mia sorella, l’ho sentita ascoltando di nascosto un giorno mentre stava tagliando i capelli a Sal e gli spiegava come avesse risolto il caso della moglie di un banchiere, la quale aveva convinto l’amante a uccidere il marito per intascare i soldi dell’assicurazione. A volte nostro padre sembrava non ricordare che almeno una delle sue figlie aveva ereditato le qualità di un bravo ispettore. La mela non cade lontano dall’albero, e infatti anch’io sono sempre stata molto attenta.

    Mio padre non smetteva di fare attenzione a ogni dettaglio, anche quando non era in servizio, se mai smontava veramente dal servizio, cosa di cui dubito. Più che altro, prestava attenzione alle donne, ma non come fanno molti uomini abbassando lo sguardo sulle tette, o valutando il sedere con un sorrisetto scemo stampato in faccia. Lui ascoltava tutto quello che una donna aveva da dirgli con l’aria di prenderla molto sul serio. Desiderava certo vederla nuda, ma avrebbe anche voluto massaggiarle i piedi, o accarezzarle la pelle sui polsi. Magari le chiedeva dei suoi figli, se lei ne aveva, anche se a questo proposito era sempre molto chiaro: una donna non è mai soltanto una mamma. Poteva avere di fronte un’ottantenne, riusciva sempre a tirare fuori la ragazza dentro di lei. Non credo che abbia mai incontrato una donna senza cercare d’immaginarsi come sarebbe stato andare a letto con lei.

    Una volta eravamo in un piccolo supermarket per comprare delle sigarette, le sue solite Lucky Strike.

    «Non si muova» disse alla donna dietro il bancone, con una determinazione da farle credere che si trattasse di una rapina.

    Si allungò sopra il bancone verso il suo volto e per un attimo la sua mano scomparve nei capelli di quella donna. Quando ne riemerse, teneva fra le dita un orecchino. Così piccolo che c’era da chiedersi come avesse fatto a notarlo.

    «Dev’essersi aperta la clip» disse. «Non volevo che lo perdesse.»

    La donna rimase immobile con la piccola croce d’oro in una mano, mentre con l’altra si toccava il lobo dell’orecchio.

    «Non aspettarti di incontrare un tipo così quando comincerai a uscire con degli uomini» mi avvertì la cameriera una sera che ci aveva portato da Marin Joe’s, una tradizione di famiglia. «Perché non ce ne sono molti come lui in giro.»

    Nostra madre avrebbe commentato che era una buona notizia.

    Aveva un tocco speciale con i capelli, ereditato da suo padre, e gli piaceva da morire spazzolare i nostri. Li tagliava anche come un parrucchiere di professione, usando le forbici che erano state di suo padre.

    «A volte penso che avrei dovuto fare il parrucchiere» diceva, anche se poi non si sarebbe mai adattato a quel mestiere. «Un uomo può fare di peggio che passare le sue giornate infilando le mani nei capelli delle signore. Sempre meglio che inseguire una banda di spregevoli bastardi.»

    Cominciava lavandoci i capelli nel lavandino. Controllava l’acqua con il polso prima di versarcela sulla testa, e quando ci insaponava sembrava più un massaggio. Usava uno shampoo particolare, alla menta, che faceva pizzicare il cuoio capelluto. Ho sempre sperato di ritrovarlo.

    Metteva su un disco. Dino, probabilmente, ma poteva anche essere Tony Bennett o Frank Sinatra. A volte cantava pure lui, ma mai al momento del taglio perché aveva bisogno della massima concentrazione, oltre che di una mano ferma.

    Metteva una sedia in giardino. Quando eravamo piccole, portava fuori la prescelta con un asciugamano sulle spalle; poi la studiava da una certa distanza, come se fosse un artista e noi fossimo la sua opera d’arte, e solo a quel punto cominciava a tagliare.

    Cantava come Dean Martin, almeno ai miei orecchi, e sapeva le parole di tutte le canzoni, anche di quelle italiane.

    Faceva per noi una cosa, uno strano gioco di destrezza, che nessun altro è mai stato in grado di ripetere, una cosa così strana e sorprendente che è difficile descriverla.

    Tu eri seduta sul divano di fianco a lui, potevo essere io o mia sorella. Forse l’aveva fatto anche con nostra madre, una volta, ma tantissimo tempo fa.

    A quel punto ti strappava un capello dalla testa, così rapidamente che non te ne accorgevi nemmeno. Fin da bambine io e mia sorella avevamo i capelli lunghi, per cui non gli mancava il materiale. Ed erano neri come i suoi.

    Ti prendeva sempre alla sprovvista. Stavi lì seduta al suo fianco a guardare la televisione, o a leggere, e all’improvviso sentivi quello strappo deciso, come una puntura di spillo. Allora ti voltavi a guardarlo e vedevi che si rigirava quel capello fra le dita, ma così in fretta che era difficile capire come ci riuscisse. Dopo qualche minuto ti prendeva un braccio e sulla tua pelle, olivastra come la sua, posava l’oggetto che aveva appena creato: un ragno che pareva quasi vero, fatto con un tuo capello.

    Ma non potevi mai chiedergli di farlo. Potevano passare dei mesi senza che ne facesse uno, e poi, all’improvviso, eccolo lì. Erano così piccini e delicati che era impossibile tenerli stretti fra le dita, bastava un respiro perché volassero via, o il fumo della sua sigaretta.

    La prima volta che me ne fece uno e io lo persi, mi misi a piangere. «Non ti preoccupare, bambina mia» disse. «Ne vedo ancora tanti nel tuo futuro.» Per un periodo di tempo sorprendentemente lungo ho pensato che la mia vita sarebbe stata tutta così: uomini che compivano delle magie per me; e per un periodo ancora più lungo ho pensato che avrebbe dovuto essere così, anche se la realtà era ben diversa.

    Anni dopo, ormai ventenne, conobbi un uomo che, per un attimo, pensai di sposare, e gli chiesi se sapeva costruire un ragno.

    «Un ragno?» rispose. Non aveva la minima idea di cosa stessi parlando.

    «Ma sì, con un capello.» A lungo ho creduto che fosse una cosa normale, una cosa che tutti gli uomini facevano per le donne che amavano: per le loro figlie, per le loro fidanzate, per le loro mogli.

    Invece solo mio padre ne era capace, probabilmente l’unica persona nella storia dell’umanità.

    Patty e io adoravamo nostro padre, tutto qui. Per quanto giovani fossimo all’epoca, ci insegnò a batterci e ci fece imparare alcune mosse di difesa personale perché potessimo proteggerci dagli approcci indesiderati dei fidanzati che, diceva, ci avrebbero perseguitato ininterrottamente per tutta la vita. Ma ci preparava anche il bagno con la schiuma e accendeva le candele quando entravamo nella vasca. Oppure, metteva un disco di Frank Sinatra e ci insegnava i balli lenti, con i nostri piedi appoggiati sulle sue lucide scarpe nere.

    Con il giusto compagno di ballo, diceva, una donna deve poter chiudere gli occhi e lasciare che lui la conduca dove vuole. Ma attenzione agli uomini con la mano molle. Una donna vuole sentire una certa pressione sulla schiena, e vuole sentire la sua mano stretta con vigore da quella del partner che la guida. E va bene se ti annusa i capelli, vogliamo un uomo sensuale, dopotutto, ma non se ti mette una mano sul fondoschiena. E se non ti riaccompagna al tavolo finito il ballo, quella è l’ultima volta che balla con

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