Il Senzapalle
Di Alberto Gais
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Anteprima del libro
Il Senzapalle - Alberto Gais
segnata.
Fine aprile, anno 2005
1.
Fu allora che la trovai. Il giorno preciso non posso ricordarlo.
Cane, come al solito, era qualche metro davanti a me.
«Non ti allontanare, vieni qui.» gli dicevo.
Lui se ne fregava, ma a me andava bene così, se lui mi precedeva io correvo meno rischi d’inciampare in qualche piccolo serpente e di schiacciarlo, perché lui me lo avrebbe puntualmente segnalato.
Mi sarebbe dispiaciuto, non per altro. Si sarebbe trattato al massimo di qualche biscia, piccola, forse appena nata, non certo di vipere o altri serpenti pericolosi.
Nel dubbio mantenevo un’andatura da passeggio, muovendo sterpi e foglie dal terreno, con un bastone di legno, per fare altro rumore oltre a quello dei passi. Me lo ero fatto lavorando di coltello un ramo trovato proprio lì, nel bosco che tutte le mattine, quando non pioveva, esploravo passeggiando.
Insieme a Cane, appunto.
Ancora non mi serviva per appoggiarmi, quel bastone. Ero ancora abbastanza agile e non avevo ancora i tipici acciacchi dell’età.
Avevo compiuto da poco cinquantasette anni.
Cane non era mai accanto a me, faceva delle piccole corse in avanti, mi distanziava di qualche metro e poi si fermava, quindi si girava, guardandomi con quei suoi occhi freddi, come a volermi dire:
«Allora, te la dai una mossa?»
«Aspetta.» gli dicevo io, certo che lui mi capisse «Tu hai quattro zampe e poi sei giovane, accidenti a te.»
Poi, senza alcuna fretta, lo raggiungevo. E lui riprendeva le sue corse.
Gli avevo dato quel nome, Cane, appena trovato, cucciolo e quasi morente, proprio mentre facevo una delle mie prime passeggiate. Sapevo che non era affatto un’idea originale.
Maurizia, la mia povera moglie, se fosse stata ancora viva mi avrebbe senz’altro criticato.
«Ammazza, che fantasia.» avrebbe detto, senza esclamativo, quasi sovrappensiero.
Io, come al solito, non avrei replicato, nossignore, a che sarebbe servito? Un minuto dopo lei avrebbe già pensato ad altro.
Cane, mio grande amore.
Fu il primo animale che soccorsi. E in quei giorni non avevo un briciolo di fantasia: non sapevo come si sarebbe svolta la mia vita nella nuova casa, lì ai margini del bosco.
Non sapevo di essere capace di fare certe cose. In più ero molto impressionabile, e quindi mi sorpresi di me stesso quando presi quella decisione: lo raccolsi e lo portai a casa senza neppure sapere che cosa volessi farne, di quella bestiola.
Non era ferito, ma era talmente piccolo e indebolito che pensai che non ce l’avrebbe fatta a vivere per qualche altra ora. Tremante di freddo e paura, lanciava senza tregua grida d’ aiuto impossibili da sopportare, per uno come me.
Chiunque, al posto mio, lo avrebbe portato via da lì. Correggo: chiunque avesse avuto un minimo di sensibilità, e io di quella ne avevo fin troppa. Troppa, sì, perché la sensibilità non ti caratterizza affatto, se non fai seguire alla commozione fatti e azioni concrete.
Avevo qualche dubbio, ma poi ebbi la conferma che in effetti quel nome comune, Cane, se mancava certo di originalità e soprattutto di appropriatezza, aveva una sua insospettabile e sorprendente motivazione.
Sì, perché quando insperatamente riuscii, senza l’aiuto di nessuno, a guarirlo, pensai solo per qualche mese che fosse un cane, poi capii che quella bella bestia, che intanto cresceva sana e robusta, non era un cane: era un lupo.
Un vero lupo marsicano. Maschio.
Il primo animale che ci fanno temere quando siamo bambini. Il progenitore dei nostri amici fedeli amici a quattro zampe.
Chi sa perché sempre il lupo, a proposito di poca fantasia: mai il leone, o la tigre, o una iena: il lupo. In bocca al lupo, crepi. Nella tana del lupo, il lupo perde il pelo, e altre menate.
A parte i luoghi comuni e i modi di dire, un lupo è pur sempre un animale selvatico, quindi imprevedibile. Chiamarlo in quel modo, era come abituarmi all’idea che fosse davvero un buon cane, e che avrei potuto fidarmi di lui, sempre.
Strano che la mamma, dalle alte cime dell’Abruzzo, dove c’erano foreste di montagna, fosse finita in Molise, dove tutto era per lo più macchia e boschi. Rispetto a quando ci andavo da piccolo, la mano dell’uomo aveva disboscato mezzo mondo, lì.
Ma qualcosa, forse più per decenza che per qualche stupida legge, l’avevano lasciata.
Chi sa poi che fine aveva fatto, quella lupa.
«Che stupido che sei.»
La voce di Maurizia, che in verità non usava mai parole più pesanti, con me, come stronzo, o coglione, mi capitava di sentirla in molte delle azioni che facevo, anche le più quotidiane, come cercare le posate in un cassetto invece che in un altro, oppure aprire il frigo e restare qualche secondo senza sapere cosa prendere.
«Allora, hai deciso che cosa ti serve lì dentro?» mi diceva.
«Quella lupa, scemo incosciente che non sei altro, poteva essere nei pressi, e allora? Che avresti fatto? Ti saresti difeso con quel ridicolo bastone?»
Aveva ragione, povera Maurizia. Ma la mamma per fortuna non era lì, e io avevo comunque fatto una cosa senza riflettere.
Oppure chi sa, quel cucciolo lo aveva preso qualcuno e poi abbandonato, che importava? Non lo avrei mai saputo.
Quello che sapevo, come fatto certo quella mattina ancora fredda nonostante fossimo quasi a maggio, è che il mio nome non era John Thornton e che lui, il lupo, non era Buck, e sembrava non sentire affatto il richiamo della foresta.
Voleva solo stare sempre con me: proprio come un cane.
Insomma né io né lui eravamo nel romanzo di Jack London: non ero andato a vivere nel freddo Klondike, in cerca di oro; avevo lasciato la mia casa romana per andarmene a concludere la mia esistenza in una contrada di un piccolo paese del Molise, in Italia.
Come diavolo potevo immaginare di trovare nel bosco una donna in quelle condizioni? E, a proposito, Biancaneve dei sette nani, in quale regione del mondo abitava?
Io, da bambino, non avevo mai letto una fiaba, né i miei genitori, montanari maledetti, me ne avevano mai raccontata una. Poi la mia fantasia, diventato ragazzino, si era alimentata solo di avventure di uomini veri, per quanto creati dalla penna di qualche autore dalla fervida fantasia; racconti che leggevo ma che in verità neppure mi esaltavano tanto.
C’erano i fumetti, ma mio padre mi proibiva di leggerli: robaccia, diceva.
I miei compagni alle elementari parlavano di personaggi che mi scatenavano una vera e propria libidine. Avevo sentito qualche nome, come Blek Macigno, Capitan Miki, Nembo Kid, e più tardi Diabolik, Satanik, Kriminal, anche loro, però, che fantasia!
Non potevo comprarli, né farmeli prestare, perché mio padre me li avrebbe distrutti. Vedevo solo le copertine, in edicola o solo perché qualcuno dei miei compagni li portava in classe, quei fumetti.
«Leggi cose serie!» diceva mio padre.
«Adesso non esagerare.» interveniva debolmente mia madre «È un bambino, che cose serie deve leggere?»
Ricordo che quella fu l’unica volta in cui mia madre prese per così dire le mie difese.
Mio padre però era più cocciuto di un mulo.
«Salgari, per esempio. Ma che puoi capire tu?» così la liquidò, quell’altra sciagurata di mia madre.
Lui invece sì, lui aveva studiato, il gran colto! Montanaro presuntuoso! Citava anche altri nomi, e menomale che mi risparmiò De Amicis.
Mi ero sempre chiesto, sin da bambino, appunto, quanto contasse nella vita di un uomo, l’influenza dei genitori.
Più tardi, quando ragazzino non lo fui più, pensai che un termine solo non bastasse: ingerenza, ignoranza, inconsapevolezza, e poi frustrazione: da mancata realizzazione che veniva scaricata sui figli.
L’educazione era un’altra cosa.
Pensai che non sarei mai stato padre, che idiota! E solo perché non volevo essere come lui.
Oggi, da adulto ormai anziano, credo che i genitori contribuiscano non poco a formare il carattere dei loro figli, che poi evidentemente si plasma addosso a un’indole innata, e questa, a sua volta, da chi può dipendere se non da loro stessi? Sempre loro. Dannati egoisti genitori.
Indole e carattere dovrebbero dar vita alla personalità. In qualche caso il parto non ha buon fine: abortisce.
Io, per esempio, sono stato un uomo completamente privo di personalità: consapevolezza acquisita solo adesso, troppo tardi. Ma sarebbe servito a qualcosa saperlo prima?
Credo di essere stato, come tutti gli esseri umani, di carne, ossa, cartilagini e acqua. Poi, solo adesso, ho capito che nella sostanza fisica non ero diverso da tutti gli esseri umani; nei fatti, però, sono stato per tutta la vita un tram, qualcosa di metallico e meccanico che corre, peraltro piano, su binari costruiti da altre persone, direzione ignota, ma destinazione certa e ineluttabile.
Sono stato qualcosa, mai qualcuno.
Pensieri e ricordi si coordinavano malamente. Tutta colpa di Cane, e di quella donna nel bosco. Vederla e restare immobile, come pietrificato, non mi consentiva di fare altro. I pensieri, che a raccontarli sembrano occupare un tempo lunghissimo, in realtà duravano secondi, al massimo qualche minuto.
Avevo Cane sempre sotto controllo, e questo mi consentiva di pensare ai fatti miei, ai ricordi, belli o brutti che fossero, in ordine sparso. Mi veniva in mente di tutto, da quelli lontani nel tempo a quelli più recenti e dolorosi. Ma era assurdo che lo facessi in quel momento, mentre lui guardava continuamente me e la donna, aspettando che mi decidessi a fare qualcosa.
Avevo scelto di trasferirmi in Molise.
Lì erano nati i miei genitori, ma questo non c’entrava niente con la mia scelta. Avevo deciso così solo perché quella terra la conoscevo, non cercavo un luogo estraneo. Estranea lo era stata per una vita intera Roma, dove per paradosso ero nato e cresciuto.
I miei si trasferirono lì subito dopo il matrimonio. Mio padre sperava di trovare un lavoro meno faticoso: magari una portineria. Era quello il suo sogno: una portineria.
Forse sono troppo severo: faceva il muratore, mia madre era casalinga. Ai tempi lui veniva pagato a giornata, che voleva dire la giornata in cui si poteva lavorare, quando cioè non pioveva.
Se Giove pluvio disponeva, lui restava a casa e non guadagnava un centesimo.
A Roma il sogno di papà restò tale per un certo tempo. Fu assunto in un’impresa edile che lo mise in regola. Salario settimanale fisso, indipendentemente dalle giornate in cui si poteva lavorare o meno.
Ma sempre il muratore faceva. E mia madre rimase casalinga.
Io fui concepito solo un paio di anni dopo.
Ma lui, mio padre, aveva carattere e personalità, era un volitivo. S’iscrisse ai corsi serali e conseguì prima la licenza media e poi il diploma di ragioniere, tutto senza l’aiuto di nessuno, ma a costo di nottate passate sui libri, che inevitabilmente si riflettevano sul suo nervosismo, che poi scaricava su noi.
«Ho buttato il sangue!» diceva spesso, quando mi parlava dello studio, in cui peraltro io brillavo, mostrando con orgoglio il diploma che aveva incorniciato e appeso a una delle pareti della stanza da pranzo.
Così da muratore passò impiegato, nella stessa impresa. Vice contabile, poi contabile titolare.
Le nostre vacanze le passavamo al paese. Io morivo di noia, ma non mi ribellavo. Solo una volta, da adolescente, mi unii a un gruppo di ragazzi motorizzati, e in sella alla Vespa di uno di loro riuscii a vedere il mare, a Termoli.
Pagai quella meravigliosa giornata con un bel fracco di legnate da parte di mio padre.
«Non solo te ne vai al mare e non sai nuotare, ma ci vai pure in motocicletta! Hai rischiato di morire, figlio ingrato!»
Mia madre ci aggiunse il suo:
«E non hai pensato al dolore che ci avresti dato?»
Mi tenni le botte e i rimorsi e non dissi nulla. Il mare lo rividi solo da sposato, quando ormai, a proposito di carattere, i giochi erano già stati fatti.
Portando Cane a spasso con me, naturalmente senza guinzaglio, ero consapevole di essere un incosciente: vero che in quei sentieri non avevo mai incontrato anima viva, ma se fosse accaduto chi sa come avrebbe reagito un povero cercatore di funghi a trovarselo di fronte all’improvviso.
Ci pensavo, non ci pensavo? Non saprei.
In quel bosco solo quelle persone potevano addentrarsi, anche se non ne avevo mai incontrata nemmeno una.
Poteva però passare un pastore col suo gregge, per tagliare una strada per il pascolo, e per fortuna neanche quello vidi mai.
In fondo non sapevo niente di chi frequentasse quel posto. Un lupo, con quegli occhi piccoli e cattivi, mette paura a chiunque. Al cercatore di funghi poteva capitare di morire d’infarto alla sola vista; al ruvido pastore magari no, ma il suo cane si sarebbe fatto uccidere per difendere il gregge.
Non oso neanche pensare a chi avrebbe avuto la meglio. Anche certi cani da gregge non scherzano.
Ero incosciente, sì.
E quel che era peggio è che avevo le mie granitiche certezze. Sapevo che solo pronunciando il suo nome, con tono fermo e deciso, senza neanche bisogno di alzare la voce, Cane si sarebbe fermato di fronte a qualsiasi cosa e tornato di corsa