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Le tre fenici
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E-book312 pagine4 ore

Le tre fenici

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Info su questo ebook

La brillante, impavida, profondamente imperfetta Nora Watts è in cerca della verità su suo padre. E i rischi sono letali.

Nora Watts è una donna sfuggente che di lavoro rintraccia persone scomparse, ma questa volta la sua indagine riguarda il proprio, antico dolore per l'oscura morte del padre. La sua ricerca la porta da Vancouver a Detroit, dove Sam Watts è cresciuto, lì i tasselli che hanno composto la vita dell'uomo si uniscono, dando origine a un disegno inaspettatamente inquietante. Mentre Nora è immersa nel ripercorrere l'esistenza del genitore, nella città canadese, il detective Jon Brazuca, durante l'indagine su uno spietato giro di droga, scopre una sorprendente connessione con Nora, vorrebbe avvertirla e proteggerla, ma non sa dove trovarla. Concentrata sui misteriosi eventi del passato e sull'assemblare indizi che rimetterebbero insieme la sua identità fratturata, Nora non è in grado di vedere il pericolo fino a quando è troppo tardi. Ma ciò che mette a rischio la sua vita non proviene da un tempo lontano, ma da un presente fin troppo vicino...
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2020
ISBN9788830500556
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    Anteprima del libro

    Le tre fenici - Sheena Kamal

    madre

    UNO

    1

    Quando hanno montato le prime tende per curare i tossici che vagavano per Vancouver come zombi, mi sono detta: Okay.

    Quando i giornali hanno iniziato a pubblicare un articolo dopo l'altro sulla dipendenza da oppiacei che dilagava in città, ho pensato più a qualcosa tipo: Certo che non vi sfugge proprio niente, ragazzi!

    Ma quando anche i centri per la salute mentale hanno cominciato a occuparsi soltanto dei drogati, mi sono sentita in diritto di protestare.

    Le mie lamentele però non interessavano a nessuno.

    Con tutta questa gente vittime dalla dipendenza, a chi dovrebbero rivolgersi gli umili assassini della città per avere sostegno psichiatrico? Ditemelo voi. Durante i nostri incontri settimanali, ormai ci siamo ridotti a lamentarci di questo. Non che ci siano gruppi di supporto per assassini a Vancouver, non voglio che vi facciate un'idea sbagliata.

    Per quanto triste sia, chi si è macchiato di omicidio non ha una valvola di sfogo alternativa, da queste parti. Gli psicologi privati costano un occhio della testa, e di certo non esistono gruppi di discussione sull'argomento. L'unico che ho trovato è un gruppo per gente affetta da disturbi alimentari, ma non mi aspetto che chi ha commesso terribili peccati di gola possa capire come mi sento dopo aver ucciso una o due persone l'anno scorso. Per autodifesa, certo, ma sempre di omicidio si tratta.

    Quando intervengo, durante gli incontri, mi limito a raccontare ai miei compagni di sventura che mi sento perseguitata dai miei demoni, e loro annuiscono comprensivi. Siamo estranei che si confessano i segreti più intimi, stretti nel sacro cerchio di una sala riunioni che puzza di urina, a Downtown Eastside. Dopo avermi ascoltata sollevano le braccia anemiche in un applauso educato e poi ognuno se ne va per la sua strada. Grazie a Dio, torniamo a essere dei perfetti estranei.

    La sensazione di essere osservata mi segue dal quartiere degradato di Eastside Vancouver fino all'elegante villetta a schiera in cui abito, a Kitsilano. Guido con i finestrini chiusi perché l'aria è appesantita dagli incendi che stanno devastando la costa settentrionale di Vancouver. Una cappa di fumo acre spinta dal vento grava sulla città. Per giunta, anche se è ottobre fa un caldo insopportabile, non sembra nemmeno di essere in autunno.

    Mentre guido, sono tormentata dal pensiero che un'altra persona morirà. Non è ancora successo, ma accadrà.

    Presto.

    2

    Quando arrivo a casa, Sebastian Crow, il mio ex capo e attuale coinquilino, dorme sul divano.

    Allungo una mano per sfiorargli una tempia, ma la ritraggo subito. Non voglio svegliarlo. Voglio che dorma così per sempre. Sereno. In pace. In un luogo dove la malattia non può raggiungerlo. Di giorno in giorno sembra farsi un po' più piccolo, e la sua energia cresce di pari passo, quasi per compensare il progressivo ridursi dello spazio che occupa il suo corpo. È malato, e non c'è nulla che io possa fare, perché è terminale. Io e Fruscio, il mio cane, ci siamo trasferiti da lui per fargli compagnia e per assicurarci che non cada dalle scale sotto i nostri occhi, ma a parte questo non c'è speranza. Sembra che un fuoco lo stia consumando. Il corpo gli si è rivoltato contro, ma la mente non vuole arrendersi.

    Almeno finché il libro non sarà terminato.

    Quando mi ha chiesto di dargli una mano a organizzare il materiale e a verificare le informazioni, non ho potuto dire di no. Non a Sebastian Crow, il famoso giornalista che sta dedicando gli ultimi giorni della sua vita a scrivere le sue memorie. Una lettera d'amore per la madre che non c'è più, una di scuse per il figlio che gli hanno tolto. E una spiegazione per l'amante che ha abbandonato. Le parti che ho letto sono bellissime, ma questo significa che sta trascorrendo nel passato il poco tempo che gli resta.

    Perché non esiste più un futuro, non per lui.

    Fruscio mi dà un colpetto sulla mano con il muso. È irrequieta, nervosa. Anche lei prova le mie stesse emozioni.

    Le metto il guinzaglio, perché è inaffidabile quando è in questo stato d'animo, e ci incamminiamo verso il parco dall'altra parte della strada. C'è un tizio che cerca sempre di accarezzarla, ma gli stiamo alla larga in un impeto di generosità nei confronti delle sue braccia. Nel parco c'è un sentiero che si snoda lungo la costa. Anche qui aleggia il fumo di fuochi invisibili, che nemmeno la brezza marina riesce a disperdere. Continuiamo a camminare, entrambe inquiete, poi torniamo al parco. Mi siedo su una panchina, tenendo Fruscio ben stretta al guinzaglio.

    L'uomo che mi sta seguendo da un po' ci passa accanto.

    «Serata ideale per lo stalking, eh?» dico.

    L'uomo si ferma e mi guarda. Poi apre la bocca, forse per accampare delle scuse, ma la richiude subito. Alle mie spalle un lampione rischiara questo lato del parco. Io e Fruscio siamo solo delle sagome scure per lui, che invece è completamente illuminato. Ha il cappotto slacciato, e all'altezza del collo ha una lunga striscia rossa che corre dalla mascella fino alla clavicola. È come se in quel punto avesse cercato di formarsi uno strato di pelle nuova, ma poi si fosse arresa a metà dell'opera, lasciandosi dietro un senso d'incompiutezza. È un uomo anziano, ma è difficile attribuirgli un'età precisa. Di certo negli anni ha imparato come vestirsi bene. Giacca elegante. Belle scarpe. Però i conti non tornano. Un uomo dall'aspetto curato che passa le sue serate seduto in un parco a seguire le signore che portano a passeggio il cane.

    Rimaniamo in attesa, in un silenzio carico di tensione, tutti e tre. Fruscio sbadiglia e si passa la lingua sui canini affilati per accelerare le tempistiche, e lui la prende per una minaccia.

    «È stata tua sorella a dirmi dove potevo trovarti» dice infine.

    Se pensa di tranquillizzarmi con questa notizia, è fuori di testa. Lorelei non mi parla dall'anno scorso, da quando ho rubato l'auto di suo marito e sono finita fuori strada e poi in un fosso.

    Decido comunque di stare al gioco. «Che cosa vuoi?»

    «Non lo so nemmeno io» risponde con un sorriso triste. «Passare la vecchiaia a rivangare il passato, immagino.»

    «E io cosa c'entro?»

    «Conoscevo tuo padre.» Per fortuna parla a voce bassa, perché se l'avesse detto in un tono più alto sarei finita gambe all'aria per la sorpresa. Se fossi stata in piedi, ovviamente. «Posso sedermi?» Indica la panchina. C'è qualcosa di strano nel suo modo di parlare. È troppo pacato per essere qualcuno che si trova di fronte a un animale imprevedibile. Chissà se la cicatrice sul collo ha qualcosa a che fare con il suo comportamento disinvolto. Forse è uno di quegli uomini talmente abituati al pericolo da non esserne più turbati.

    «No. Dove avresti conosciuto mio padre?»

    Lui si blocca e guarda i denti scoperti di Fruscio. «Libano. Era di stanza laggiù con i marines, lo sapevi, vero?»

    Non lo sapevo, ma di certo non sono affari suoi. «Questo non spiega come mai mi stavi seguendo.»

    L'uomo si passa una mano sul collo, indugiando sulla cicatrice con la punta delle dita. Si accorge che i miei occhi guizzano verso la ferita. «È successo in Libano. Un'esplosione.» Sceglie con cura le parole prima di proseguire. «Gli ho promesso che avrei vegliato su di voi, se gli fosse successo qualcosa.»

    Scoppio a ridere. «Sei in ritardo di qualche decennio.»

    «Non sono un granché come amico. Ascolta, sono in pensione adesso, e ne ho approfittato per fare un viaggio in Canada. Ho pensato di venire a cercarvi. Quando ho saputo che era morto, molti anni fa, sono venuto a cercarvi, ma eravate con vostra zia e tutto sembrava filare liscio. Un paio di giorni fa sono riuscito a rintracciare tua sorella. Non è stata molto collaborativa quando le ho chiesto di te...»

    «Non mi stupisce.» Io e Lorelei non siamo rimaste in buoni rapporti. Quando si è sposata, però, ha mantenuto il suo cognome da ragazza, e il suo profilo online è pieno di informazioni. Non è una persona difficile da trovare, se ci si mette a cercarla.

    «Le ho detto che eravamo vecchi amici. Ci ho messo un po' a convincerla, ma alla fine mi ha risposto che ti avrei trovata tramite Sebastian Crow. Ed eccomi qua.»

    «Ma perché?»

    Si agita, pesca una sigaretta solitaria dalla giacca e l'accende. I suoi occhi indugiano sulla fiamma sottile dell'accendino. «Hai mai fatto una promessa che non hai mantenuto? Ho commesso molti errori nella mia vita, ma la fine che ha fatto tuo padre... ho sempre pensato che quello che gli è successo fosse un'ingiustizia. Sapevo che non se la passava bene dopo i guai avuti in Libano ma... accidenti che spreco.»

    Abbassa lo sguardo sulla mia mano, che stringe il guinzaglio di Fruscio talmente forte che mi si sono conficcate le unghie nel palmo, lasciando dei segni a forma di mezzaluna.

    «Non so cosa ci faccio qui» dice, impotente. Non ha fatto nemmeno un tiro dalla sigaretta, e sembra non avere intenzione di fumarla.

    L'anno scorso sono quasi annegata. Non ricordo granché dell'accaduto, ma a un certo punto devo essere svenuta. Qualsiasi apneista o sommozzatore vi dirà che nella fase finale della narcosi da azoto il cervello va in ipossia. Possono insorgere disturbi neurologici. Il ragionamento e la capacità di giudizio spesso sono compromessi, almeno momentaneamente. Ma questa carenza di ossigeno può anche rivelarsi piacevole. Si prova un senso di calore, persino di sicurezza.

    A volte si hanno le allucinazioni.

    Forse sono vittima di una ricaduta e sto avvertendo gli effetti a lungo termine del mio quasi annegamento. In passato ero in grado di capire, quasi senza margine di errore, se una persona stava mentendo. Ma adesso non ne sono sicura. Dopo quello che è successo l'anno scorso, quando mia figlia, la bambina che avevo dato in adozione senza pensarci due volte, è scomparsa, ho cominciato a guardare la gente in modo diverso. Forse è il mio debole senso materno che inizia a manifestarsi, confondendomi le idee. O magari ho perso il mio talento. Perché quando quest'uomo ha detto che non sa cosa ci fa qui, io gli ho creduto. Tutti, a volte, facciamo cose che non hanno senso... nemmeno per noi stessi.

    O forse sono solo allucinazioni.

    Sono così confusa che non dico niente. Il veterano sembra disorientato quanto me. Lo fisso con durezza finché non si allontana verso l'oceano e scompare nella notte scura. Mi strofino le mani per riacquistare un po' di sensibilità. Nella testa ho un groviglio di pensieri, ma a poco a poco uno emerge con chiarezza.

    Quello che mi stupisce non è tanto il fatto che qualcuno sia venuto a cercarmi dopo tutti questi anni, e nemmeno che abbia sentito il bisogno di seguirmi nel buio per assicurarsi che stessi bene. C'è sotto qualcosa, qualcosa che riguarda mio padre e che io non so. Devono esserci stati dei problemi in Libano. Con mio padre.

    A mio padre è successo qualcosa in Libano, e poi, qualche anno dopo, si è fatto saltare il cervello.

    3

    Nello spazio profondo, una stella chiamata KIC 8462852 emette insolite fluttuazioni luminose, mentre più giù, sulla Terra, un ex poliziotto, ex agente di vigilanza, ex marito ed ex giocatore di bowling dilettante distorce il viso in una smorfia. Sta bevendo del succo di spinaci, nella speranza che i suoi organi interni apprezzino lo sforzo che sta compiendo per il loro bene.

    Questa particolare stella ha sconcertato gli scienziati di tutto il mondo con i suoi sbalzi di luminosità, Jon Brazuca invece sconcerta soltanto se stesso con questo nuovo proposito di prendersi cura di sé. Ha ereditato una scarsa autostima da una madre senza carattere e da un padre debole, che non hanno fatto altro che scusarsi per tutta la vita, fino alla pensione.

    Ma Brazuca ne ha abbastanza. Questo umiliante ciclo di mi dispiace e di chiedo perdono finirà con lui.

    Degli altri, non gliene importa più un cavolo. Vuole solo frullarlo e farci uno smoothie.

    Il sole sta tramontando, e Brazuca si sente pieno di gioia e di clorofilla. È sempre stato più sveglio la sera, più vivo, e ora si è dato all'astronomia per colmare le sue lacune.

    Non è un uomo di scienza, anche se gli sarebbe piaciuto esserlo. Una volta, da bambino, sua madre lo portò in Spagna, sulle scogliere di Famara, e insieme guardarono la luce delle stelle riflessa nelle pozze d'acqua del lungomare sottostante.

    Sull'onda di questo ricordo, Brazuca prova una pungente nostalgia per quel tempo in cui tutto era più semplice, quando le donne che soddisfaceva non lo drogavano e non lo legavano a un letto, lasciando che a trovarlo in quello stato fosse un'attonita cameriera. Proprio come è successo un anno fa. Nora Watts – la donna con cui frequentava gli incontri degli alcolisti anonimi, la donna che aveva perso una figlia che non desiderava nemmeno, la donna di cui si sentiva responsabile senza alcun motivo logico – l'aveva piantato in asso, ma non a bocca asciutta. Gli aveva fatto ingoiare un cocktail a base di alcol e sedativi che l'aveva addormentato, dando al suo corpo l'incentivo che aspettava da tempo.

    Gli ci sono voluti mesi per smettere nuovamente di bere.

    Brazuca è sul balcone del suo appartamento a East Vancouver e strizza gli occhi verso il cielo, in direzione della stella brillante di cui ha letto in una rivista. Per un attimo si sente in sintonia con l'universo. Trangugia il resto del succo e rutta soddisfatto.

    Il suo amico Bernard Lam gli ha chiesto di passare da lui. Per la prima volta in vita sua, si sente come se avesse un appuntamento galante con un miliardario.

    «Brazuca» dice Lam affacciandosi alla porta della sua gigantesca villa a Point Grey. La crisi del settore immobiliare di Vancouver probabilmente è dovuta alla quantità di spazio occupato soltanto da questo immobile. È composto da un'ala est e da un'ala ovest, e una ventina di camere nel mezzo. Ci sono campi all'aperto per ogni sport, ce n'è persino uno per il minigolf. Se ci si stanca della piscina ad acqua salata, ce n'è una ad acqua dolce dall'altro lato della proprietà.

    Bernard Lam, il playboy figlio di un ricco filantropo e uomo d'affari, fa cenno a Brazuca di seguirlo all'interno della casa. Il suo famoso fascino sembra svanito nel nulla. I suoi modi sono seri e incerti mentre lo conduce per un lungo corridoio pieno di fotografie di famiglia appese alle pareti, e ritratti di Lam con la sua ultima moglie. Finalmente arrivano al suo studio. «Cos'è successo?» chiede Brazuca non appena sente la porta chiudersi alle loro spalle.

    «Aspetta un attimo.» Lam si avvicina al computer portatile sulla sua scrivania. Accanto a lui, una bottiglia di scotch, e nessuna fotografia di cui parlare. È una stanza in cui la famiglia non ha accesso. Lam gira lo schermo verso Brazuca.

    «È bellissima» dice Brazuca, gettando un'occhiata alla donna nel computer di Lam. La foto la ritrae in prendisole su uno yacht, mentre ride all'obbiettivo. È alta e sensuale, con lunghi capelli scuri, e due occhi brillanti.

    «Si chiamava Clementine. Era l'amore della mia vita.»

    Nemmeno un ettolitro di succo di spinaci può fermare il mal di testa che inizia a martellare le tempie di Brazuca quando si accorge che Lam usa i verbi al passato. La donna della fotografia non è la stessa che compare sulle pareti della casa. Quindi l'amore della sua vita non è sua moglie. «Quando?»

    «L'hanno trovata nel suo appartamento, la scorsa settimana. Pare si sia trattato di overdose. Lei è... era incinta di quattro mesi.»

    «Era tuo?» domanda Brazuca, attento a mantenere un tono di voce neutro.

    Lam solleva un sopracciglio, come se la risposta fosse del tutto scontata.

    Brazuca decide di non insistere. «Allora, di cosa hai bisogno?»

    «Lavori ancora per quella piccola agenzia di investigazioni private? Ti concedono qualche momento di pausa?»

    «Prendo in carico le missioni in base alle esigenze. Sono flessibili.» I suoi nuovi datori di lavoro lo lasciano libero di scegliere i casi che vuole seguire. Vogliono soltanto sentirsi meno oberati di lavoro. Gli hanno perfino offerto di diventare socio con un accordo ufficiale, ma Brazuca ha rifiutato. Non ama le formalità.

    «Bene» dice Lam. «Molto bene. Ho bisogno che tu scopra chi era il suo spacciatore.»

    «Bernard...»

    «Verrai generosamente ricompensato.»

    «Non è una questione di soldi.»

    «Allora consideralo un favore a un amico. Fallo per me. La mia ragazza e mio figlio sono morti. Voglio sapere chi è il responsabile.»

    Brazuca si chiede se Lam si sia accorto che, usando il termine ragazza, ha dipinto entrambi con un alone di idealizzata innocenza. «Non ti piacerà quello che ne verrà fuori» dice piano. «Non ti restituirà la pace.» La morte per overdose è una questione spinosa da affrontare. Non è facile trovare un colpevole.

    «Chi ti dice che io cerchi la pace?» Lam si riempie un bicchierino di scotch e lo svuota d'un fiato. «Ti darò tutta la documentazione e i suoi contatti. Nel suo cellulare non hanno trovato niente. La droga che ha preso...» Distoglie lo sguardo per raccogliere i pensieri. «Si tratta di cocaina tagliata con un nuovo oppiaceo sintetico che sta circolando per le strade. Un derivato del fentanyl più potente di qualsiasi sostanza mai vista prima, addirittura più forte del fentanyl stesso. Lo chiamano YLD Ten.»

    «Vuoi dire Wild Ten? Ne ho sentito parlare. Non molto, in verità. Ma so che sta girando.» Non potevano dargli un nome più stupido. Però è facile da ricordare, se devi fare un ordine allo spacciatore di quartiere.

    «Allora sai quanto è pericoloso. Aveva soltanto venticinque anni. Aveva tutta la vita davanti, Jon, e la doveva vivere con me. Ho bisogno di sapere. Per favore.»

    «Okay» risponde Brazuca dopo un minuto. Non è certo il genere d'uomo che non accorre a un grido d'aiuto. Alla fine, il cavolo che voleva frullare gli si è rivoltato contro. «Mi occuperò del caso. Hai le chiavi del suo appartamento?»

    Lam annuisce. «Ovviamente. È di mia proprietà.»

    «Ovviamente» mormora Brazuca. «Mi metto subito al lavoro.»

    Non c'è bisogno che aggiunga signore, perché è sottinteso. Ma Bernard Lam, l'uomo a cui ha salvato la vita qualche anno fa, non coglie la frecciatina.

    4

    Eccomi di nuovo a casa di mia sorella, a East Vancouver. È sabato, e soltanto guardando l'orologio si può dire che è pomeriggio. La foschia non è densa come ieri, ma è ancora qui, a oscurare la luce del giorno, opaca come i polmoni di un fumatore. I salutisti di questa città non smetteranno di fare escursioni o pedalate, ma di certo si lamenteranno del fumo. Ho sentito che c'è un'altra foresta in fiamme nella Sunshine Coast, e che il vento sta soffiando in questa direzione.

    Vancouver non sta andando a fuoco, ma l'impressione è proprio quella.

    Prima di avvicinarmi al cancello stretto che porta sul retro, ho aspettato che l'auto di Lorelei uscisse dal vialetto. Suo marito, David, è seduto in veranda e sta contemplando il suo giardino del cazzo. Alcune piante aromatiche cercano di darsi un contegno, ma non possono competere con la menta, che cresce come un'erbaccia infestante perfino in quest'atmosfera post apocalittica. Sembra che David stia provando a essere ottimista, ma senza riuscirci. Mi fanno pena gli uomini come lui, alacri lavoratori rispettabili. Per quanto si sforzino, vengono sempre sopraffatti dalle cose più semplici. Non è nemmeno in grado di convincere il suo giardino a produrre qualcosa di commestibile.

    Sta bevendo una birra analcolica e non si prende la briga di alzarsi quando mi vede girare l'angolo. L'ultima volta che ci siamo incontrati, mi ha lanciato degli spicci addosso dicendomi di stare alla larga da Lorelei. Non sembra sorpreso che io abbia infranto il nostro accordo. Poi vede Fruscio, e un sorriso compiaciuto gli illumina il volto. Uno dei motivi per cui l'ho portata con me è che gli amanti dei cani sono davvero facili da manipolare. Fruscio è talmente consapevole del suo ruolo che trotterella verso di lui per salutare i suoi genitali con il muso. Bam. Felice di vederti.

    «Chi è la cagnetta più bella del mondo?» David sorride, allungando una mano per darle una grattatina dietro le orecchie. «Chi è la cagnetta più bella del mondo?»

    Poi si volta verso di me, e il sorriso scompare. Cerco di non offendermi. Le belle cagnette sono sopravvalutate di questi tempi.

    «La scatola gialla» dico. Non c'è motivo di tergiversare.

    Ci pensa su un momento, poi prende una decisione. «Al piano di sopra. Nell'armadio della stanza degli ospiti. Ultimo ripiano.»

    Gli passo davanti ed entro in casa. Le visite a mia sorella di solito sono clandestine, quindi adesso non so come comportarmi. Dovrei muovermi in maniera diversa ora che ho avuto il permesso?

    La casa somiglia molto a Lorelei. Sobria, ordinata e anonima in un modo quasi nauseante. Non è un posto che riserva sorprese questo. La scatola è esattamente dove mi ha detto David. Quando torno fuori con la scatola gialla sotto il braccio, la situazione si è volta al meglio per Fruscio, che si sta godendo le carezze di un uomo. Si è sdraiata sulla schiena, e gli sta offrendo l'addome per un'accurata strofinatina. La solita ninfomane.

    «Grazie» dico, quando David mi guarda.

    Lui annuisce.

    «Le dirai che sono stata qui?»

    «Soltanto quando si accorgerà che la scatola non c'è più. Ma non la apre da anni, quindi non mi preoccuperei se fossi in te.»

    Annuisco anch'io. Adesso ci unisce un patto. Un segreto. Io e il marito di mia sorella siamo d'accordo che Lorelei non debba sapere che sono stata qui e che le ho preso una cosa. Io di certo non glielo dirò, perché non mi parla più. Il silenzio di David probabilmente è dettato dal suo senso di colpa per il nostro rapporto difficile. Anche se i problemi che ho con mia sorella non hanno niente a che fare con lui. Ma David è un brav'uomo, e non mi negherebbe mai di prendere gli unici ricordi rimasti di mio padre, tutti per mia fortuna racchiusi in una pratica scatola che conteneva un paio di scarpe con il tacco numero quaranta.

    Stringo le gambe. La pressione cresce troppo lentamente per i miei gusti. Meno in fretta di quanto io sia abituata. E poi, vari strazianti attimi dopo rispetto al solito, è tutto finito. Non provo vergogna, il che per certi

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