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La parte scura dei pesci
La parte scura dei pesci
La parte scura dei pesci
E-book433 pagine5 ore

La parte scura dei pesci

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Info su questo ebook

Nei suoi racconti Cezrey descrive alcuni tra gli episodi più salienti della propria vita. Lo fa in modo asciutto e diretto come se stesse parlando a un suo amico. Come quando parla degli ultimi giorni di lavoro nella multinazionale americana dopo che la moglie lo aveva lasciato per uno più giovane di lui. “E così fu per tutti i giorni che seguirono, anzi anche peggio, perché, quando ricordavo di andare in ufficio, combinavo solo disastri. Dopo circa un mese di quell’andazzo anche il lavoro svanì in una manciata di minuti nell’ufficio del personale. Proprio come era successo con mia moglie, bastarono pochi minuti per distruggere anni di vita. E intanto lo show doveva continuare. Continuare come per tutti quegli automi che all’improvviso si vedono trasformati in artisti. Gente che perde il lavoro e non ha più nulla di certo e solido e costante e ripetitivo, ma solo la propria vita da affrontare ogni giorno come una nuova sfida, una nuova scoperta. Oggi, che ho oltre cinquant’anni, che vivo alla giornata e che in qualche modo riesco a campare con quel poco che so fare, mi conosco molto meglio di una volta e una cosa so per certo sul mio conto: l’urlo mi viene bene, ma ho molti problemi con il sorriso”.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788855128650
La parte scura dei pesci

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    Anteprima del libro

    La parte scura dei pesci - Federico Cezrey

    Federico Cezrey

    La parte scura dei pesci

    Copyright© 2020 Edizioni del Faro

    Gruppo Editoriale Tangram Srl

    Via dei Casai, 6 – 38123 Trento

    www.edizionidelfaro.it

    info@edizionidelfaro.it

    Prima edizione digitale: maggio 2020

    ISBN 978-88-5512-066-1 (Print)

    ISBN 978-88-5512-865-0 (ePub)

    ISBN 978-88-5512-866-7 (mobi)

    In copertina: Foto di joakant – Pixabay

    http://www.edizionidelfaro.it/

    https://www.facebook.com/edizionidelfaro

    https://twitter.com/EdizionidelFaro

    http://www.linkedin.com/company/edizioni-del-faro

    Il libro

    Nei suoi racconti Cezrey descrive alcuni tra gli episodi più salienti della propria vita. Lo fa in modo asciutto e diretto come se stesse parlando a un suo amico. Come quando parla degli ultimi giorni di lavoro nella multinazionale americana dopo che la moglie lo aveva lasciato per uno più giovane di lui. E così fu per tutti i giorni che seguirono, anzi anche peggio, perché, quando ricordavo di andare in ufficio, combinavo solo disastri. Dopo circa un mese di quell’andazzo anche il lavoro svanì in una manciata di minuti nell’ufficio del personale. Proprio come era successo con mia moglie, bastarono pochi minuti per distruggere anni di vita. E intanto lo show doveva continuare. Continuare come per tutti quegli automi che all’improvviso si vedono trasformati in artisti. Gente che perde il lavoro e non ha più nulla di certo e solido e costante e ripetitivo, ma solo la propria vita da affrontare ogni giorno come una nuova sfida, una nuova scoperta. Oggi, che ho oltre cinquant’anni, che vivo alla giornata e che in qualche modo riesco a campare con quel poco che so fare, mi conosco molto meglio di una volta e una cosa so per certo sul mio conto: l’urlo mi viene bene, ma ho molti problemi con il sorriso.

    a Samantha,

    che non è la mia gatta…

    La parte scura dei pesci

    Scrivo racconti per vivere

    Era il 1974 e la Volkswagen aveva appena lanciato un nuovo modello sul mercato: la Golf.

    Mio zio fu il terzo a comprarla in tutta Roma.

    Mio nonno gli disse: «Sei un pazzo ad aver scelto questa macchina, non vale nulla, non rimarrà molto sul mercato!»

    Circa cinque anni dopo, mio nonno, durante uno dei nostri pranzi di famiglia, affermò con sicurezza: «Spegnete quella TV! La televisione in questo paese non ha futuro!»

    Quando un giorno mi prese da parte e mi disse quello che pensava sul mio conto: «Ragazzo, meglio che impari alla svelta un mestiere. È da un po’ che ti seguo, lascia gli studi, tu non farai mai carriera!» esultai come se avessi vinto il primo premio della lotteria nazionale, ero sicuro che sarei diventato un grande manager, in una grande azienda, un dirigente di fama internazionale in una multinazionale.

    Alla fine sono veramente diventato manager di una grande azienda americana.

    Adesso, ultracinquantenne, ho lasciato quel lavoro.

    Ho molto tempo per me e scrivo racconti.

    Guadagno poco, mi arrangio con poco, mi accontento di poco.

    Non ho rimpianti.

    Mi va bene così.

    Bill Have a deal

    Mancavano solo tre ore all’incontro.

    Questo tempo volerà via veloce pensò.

    Bill si sentiva impaziente.

    Ne aveva chiusi di accordi, forse era per questo che lo chiamavano Bill Have a deal, ma questa volta sentiva che qualcosa sarebbe andato storto.

    Che non avrebbe più saputo governare la situazione.

    Cercò qualcosa da fare ma non aveva testa.

    Negli ultimi tempi aveva sperperato molto denaro e, anche se non era mai stato un problema trovarne, adesso girava proprio a secco.

    Iniziava a sentire il corpo pulsare per tutti i vizi che non poteva più permettersi.

    «Non farlo, sei già stato in gattabuia per questo. Che fai, ci godi davvero a farti ripassare là dentro, a diventare di nuovo la donna di tutti?» irruppe John ridendo forte.

    «Non t’immischiare e fa solo quello che ti ho detto. Tu hai davvero meno cervello di un criceto.»

    «Non credo tu sia all’altezza, ti cagherai nelle braghe amico. Hai testa tu, ma senza un grammo di fegato. Cazzo ci fai con l’intelligenza quando sono le palle che contano?!»

    «Devi tacere! Chiudi il becco! Non voglio più sentire la tua voce! Che parassita sei, inutile e fastidioso come una pulce!»

    Ma John non mollava.

    «Conosco un buon rimedio per la tua dannata paura – contrattaccò John – Si chiama PRENDIMI IL CAZZO E SUCCHIAMELO!»

    E scoppiò a ridere di nuovo, stavolta talmente forte da sentirsi male.

    Bill capiva che i toni si stavano alzando e John presto sarebbe stato pronto a picchiarlo come era già successo in passato.

    Doveva fare qualcosa, doveva agire e subito, anche se in effetti sapeva bene che di forza fisica ne aveva poca e questa, pensava, era l’unica cosa che gli serviva ora per contrastare l’altro.

    E forse era anche vero che adesso la testa c’entrava poco, però aveva letto centinaia di libri e visto molti film.

    Spesso quelli senza muscoli diventavano i più folli, i peggiori, quelli che godevano di maggiore rispetto.

    Bastava un’arma, anche un oggetto pesante.

    Ma poi come farne uso?

    Ci voleva coraggio e cattiveria per sferrare un colpo deciso e senza compromessi.

    Un colpo per far male ed educare una volta per tutte!

    Sapeva che doveva essere il primo. Il primo a picchiare e lo doveva fare in maniera risolutiva.

    Si fece forza e, avvicinandosi a John, mentre fingeva di usare la calma nel tentativo di convincerlo che il dialogo risolve sempre tutto, afferrò di nascosto un pesante posacenere di marmo.

    Quando gli fu vicino allargò il braccio a compasso e dopo mezzo giro di spinta lasciò che il posacenere finisse la sua corsa contro la tempia sinistra di John.

    In un attimo la scena cambiò completamente.

    Non aveva mai visto tanto sangue mischiato a pezzi di cervello dentro frammenti di osso cranico.

    «Caro John, così non commenterai più le mie paure, anzi non commenterai proprio più nulla! Ora fatti un bel sonno, te lo sei meritato.»

    E rise.

    Fu condannato per direttissima e non uscì mai più dal carcere.

    Nessuno abusò più di lui.

    A San Quintino non si ricorda nessuno più rispettato e temuto di Bill Have a deal!.

    Aveva appena smesso di piangere

    Aveva appena smesso di piangere.

    Lacrime pesanti ed era ancora disperato per quello che aveva fatto.

    «Mamma, scusa, non volevo rompere quel vaso. Sono inciampato e ci sono finito addosso.»

    «Tesoro, non è successo nulla. Vieni qui!»

    Lo abbracciò forte e qualche lacrima scese anche a lei pensando a che vita difficile avrebbe avuto quel suo bambino, con quella sensibilità eccessiva, fuori dal comune.

    Aveva solo nove anni ma quanto era diverso dai bambini della sua età, così pieno di attenzione per tutti, di altruismo e allegria anche quando gli altri cercavano di sopraffarlo.

    «Ora asciugati quei lacrimoni e vai a giocare un po’ in giardino, prima che sia pronto per pranzo. Papà sarà qui tra poco, mica vorrai farti trovare così, con quegli occhi rossi?!»

    «Poi vediamo un cartone animato insieme, mamma?!»

    «Certo, vai ora.»

    Così ora era di nuovo sereno, però pensava e ripensava a come avrebbe potuto evitare di inciampare oppure come avrebbe potuto evitare quella caduta sul vaso.

    Dove aveva sbagliato?

    Ripercorse tutti i suoi passi, tutto quello che aveva fatto, perfino quello che stava pensando in quel momento per capire se qualcosa l’avesse distratto.

    Ma niente, non riusciva e questo lo infastidiva.

    Tutto per lui doveva avere una spiegazione e se qualcosa non poteva essere spiegato, come gli aveva insegnato il suo papà, allora era solo perché la sua mente non era ancora pronta, non sufficientemente allenata, oppure doveva solo maturare.

    Si domandò quanto tempo ancora sarebbe trascorso prima di riuscire a essere forte come il papà e spiegare sempre ogni cosa.

    Quanto avrebbe dovuto allenarsi con lo studio e con la lettura?

    Spesso la sera si sentiva davvero sfinito, quando i suoi pensieri diventavano così numerosi e pesanti, e si addormentava ovunque.

    Ma che importava ora?!

    La cosa più importante adesso era che tra poco avrebbe rivisto e abbracciato suo padre.

    Iniziava a odiare quei suoi viaggi di lavoro, soprattutto quando impegnavano anche il fine settimana e oggi, che era una domenica piena di luce, sarebbe voluto andare in bici con lui e la mamma sin dalle prime ore del mattino.

    Chissà che sorpresa avrebbe ricevuto questa volta.

    A ogni viaggio il padre era solito riportargli un piccolo regalo.

    All’inizio erano dei modellini di auto o di aeroplano, ma poi negli ultimi mesi erano diventati dei libri turistici, con tante magnifiche illustrazioni e relative spiegazioni del posto visitato.

    Così ogni volta era curioso di sapere dove fosse stato il padre.

    Cosa ci fosse di interessante lì e come vivesse la gente.

    Fantasticava vite incredibili così lontane eppure così vive nella sua mente.

    Finalmente lo vide parcheggiare, gli andò incontro correndo e lo abbracciò raccontandogli tutte le cose che aveva imparato quella settimana, tutti i progressi fatti.

    Il pranzo e le ore che seguirono scivolarono via così leggere e veloci che quando si fece sera, parve a tutti e tre che il tempo li avesse ingannati, sottraendo loro ore di vita da spendere insieme.

    Oggi ripenso a quel bambino, chissà in quale parte di me è andato a finire.

    Mio padre non c’è più e mia madre non ne parla quasi mai.

    Nel tempo ho perso tutta quella sensibilità che allora imbrigliava i miei comportamenti e con gli anni mi sono scoperto non così altruista e per niente disponibile ad accogliere il prossimo.

    Anzi oggi più sto da solo e più mi sento in pace con il mondo.

    È rimasto il ricordo di quell’infanzia felice.

    È rimasto il regalo ricevuto dal destino per la famiglia in cui sono cresciuto.

    È passato il tempo che riesce a consumare tutto.

    Consuma ogni cosa, bella o brutta che sia.

    Ha consumato anche questo volo da Amsterdam a Roma e io non ho nessun bambino che mi aspetta a casa, nessun bambino che aspetta il libro del mio viaggio.

    Non ho mai capito la Quantità di Moto

    Hai presente quando affermi qualcosa di autentico e ti urlano contro: «Che schifo! Che indecenza! Non osare più! Dovrebbero cancellarti, estrometterti, annientarti!»

    Secondo costoro tutti dovrebbero dire solo cose sicure, cose che un morto dice a un altro morto.

    Così inizia questa storia di quando presi la parola invitato a parlare a giovani universitari da un mio amico docente di Meccanica applicata alle Macchine, presso la facoltà di Ingegneria Chimica a Roma.

    Presi il microfono e senza presentarmi esordii con una storia.

    «Un tale seguì la propria nonna ottantenne. La vide avvicinarsi a una chiesa e quando la donna vi entrò per pregare, entrò anche lui e si sedette in fondo, nell’angolo più nascosto. Quando la vecchia rimase sufficientemente da sola, quel tale le si avvicinò e la picchiò senza risparmiare un colpo.»

    Pausa. Silenzio.

    Ci fu un brusio incalzante, volò anche qualche parola grossa nei miei confronti.

    Ripresi a parlare.

    «Una donna ottantenne uscì di casa non sapendo se andare prima in chiesa a pregare oppure al mercato per fare un po’ di spesa. Decise per la chiesa. Arrivò e vi entrò. Dopo un po’ di tempo che si trovava lì, fu aggredita e picchiata.»

    Pausa. Silenzio.

    Anche questa volta brusio. Nessun insulto, qualche accenno di risata. Vidi volti in cui si leggevano domande.

    Ripresi a parlare.

    «Roma, giovedì 1 agosto ore 12:00. Una donna ottantenne è stata aggredita in chiesa mentre pregava. Al momento sembra non ci sia alcun movente per tale atto. Gli inquirenti stanno indagando in diverse direzioni.»

    Pausa. Silenzio. Nessuna reazione dalla sala.

    Solo tanto silenzio.

    Questa volta tutti aspettavano il seguito.

    Mi stavo godendo quei visi sorpresi, incuriositi.

    Rimasi diversi minuti in silenzio e silenzio fitto c’era intorno a me.

    Giravo la testa prima a destra, poi a sinistra.

    Il mio sguardo andava su e giù.

    Poi mi soffermai su un ragazzo in seconda fila.

    «Tu, proprio tu – dissi – là in seconda fila, con gli occhiali e la camicia bianca. Ti faccio questa domanda, ascolta bene: la quantità di moto, secondo te, ha un’anima?»

    Quello mi guardò tra lo stupito e il divertito e, quasi sorridendo, rispose: «Signore lei intende quella quantità di moto data dal prodotto della massa per la velocità?»

    «Esattamente!» risposi io.

    «Sapevo che lei era un giovane preparato. Ora però la prego, risponda alla mia domanda.»

    Il ragazzo, facendosi serio, riprese a parlare: «Certamente no signore, la quantità di moto non ha un’anima!»

    «Grazie!» dissi io.

    «Ora mi dica un’altra cosa, perché al primo racconto lei ha reagito in modo scomposto, con un commento irripetibile nei confronti del tizio che aveva seguito la nonna ottantenne, picchiandola poi in chiesa?»

    «Quel tizio mi ha scosso i nervi. Ho pensato a mia nonna. Per una frazione di secondo ho immaginato quel tizio commettere quello scempio e ho provato un profondo sentimento di odio nei suoi confronti! Poi ho capito che i seguenti due racconti parlavano della medesima storia ma con intensità diversa. Mi sono pentito della mia prima reazione. Lei ha un po’ giocato con i nostri sentimenti. Poi sono rimasto sorpreso delle sensazioni provate. In qualche modo la reazione mi ha fatto sentire parte di qualche cosa.»

    A quel punto sorrisi io.

    «Si tratta di emozioni! Solo emozioni! Non esiste niente di più puro ed entusiasmante a questo mondo delle nostre emozioni! A un certo punto della mia vita ho capito che non riuscivo più a provare emozioni nel mio lavoro. Non riuscivo più a convivere con formule e concetti senza anima. In fondo non sono mai stato pronto per questo. Sono stato un infelice per tutta la mia vita. Invece avrei potuto raccontare, emozionare, stupire, scrivere. Oggi io vi prego, vi scongiuro con le lacrime agli occhi: riflettete, riflettete e riflettete ancora! Siete giovani, tutta la vita davanti a voi. Fermatevi, fate una pausa dalle vostre corse, aprite il vostro cuore e la vostra mente domandandovi in modo serio e responsabile chi siete e che cosa volete dalla vostra vita. Non fate di voi altri infelici che parlano a infelici, morti che parlano ad altri morti!»

    Spensi il microfono, lo posai sulla cattedra e uscii.

    Il viale ero lo stesso percorso tante volte da studente, solo il mio passo era diventato più incerto e non c’era più mia madre ad aspettarmi per pranzo.

    Cento più

    Ancora un po’ intorpidita dal sonno, distesa sul letto con i capelli lunghi e sciolti come a sfidare le miserie della vita.

    Le lenzuola ancora calde di marito e lei ora già umida per l’attesa dell’amante che tra pochi minuti l’avrebbe raggiunta a casa.

    Ma tanto chi se ne frega – pensò – questa è la mia vita, ne faccio quello che voglio!

    Sì, il marito era sempre stato attento e premuroso con lei.

    Come uno di quei minuscoli cagnolini che si portano al parco, docili tanto basta da non far mai tendere il guinzaglio.

    Ma lei aveva bisogno di un uomo, della forza, di qualcuno che la facesse vibrare d’intenso, che le regalasse l’emozione di sentirsi donna e puttana.

    Sì, di sentirsi così, stronza, senza quei principi che aveva giurato quel giorno sull’altare.

    Quanto godeva nel ripassare a memoria tutte le posizioni proibite alle quali il suo amante l’avrebbe costretta, mentre si sistemava i capelli davanti allo specchio con il marito accanto che si annodava la cravatta.

    Erano da poco passate le 9:00 e il sole penetrava prepotente attraverso i vetri della cucina, mentre lei, seminuda, sorseggiava la sua tisana.

    Certo che il duro raggio dei sensi l’avrebbe presa tra poco e allora iniziò a provare un piacere strisciante che dalle gambe saliva su verso il centro del suo universo.

    Rise un po’, si trattenne anche se avrebbe voluto esplodere in un fragore di gioia, quasi volesse nascondere quella voglia infinita e maledetta di oltrepassare i confini della borghesia.

    Ma chissà quali pensieri scorrevano ora negli occhi di Marco.

    Marco, diciassette anni, già maledetto e già trasformato nello strumento della trasgressione e di quel senso vacuo che si dà alle cose quando si perde la ragione.

    Un uomo, questo voleva lei e invece un ragazzo acerbo, figlio della sua più cara amica.

    Questo aveva!

    Ma importava davvero?

    Quel ragazzo sapeva, come il più esperto degli uomini, trasformare il piacere nel liquido che inonda i corpi; dentro e fuori.

    Oddio – pensò Marco – ora entro e che cosa le dico? Forse qualcosa di brillante, forse qualcosa da bambino? Infondo le piaccio perché sono così giovane.

    «Ciao, come stai?»

    E la voce si blocca.

    Gli occhi grandi e scuri a fissarlo fino all’imbarazzo.

    «Sì, sto bene. Bello vederti e… Mi fai anche entrare?»

    «Scemo! Entra dai, stavo solo vedendo come si veste un ragazzo alla prima volta a casa dell’amica di sua madre.»

    «Beh, almeno io sono vestito. Tu invece apri sempre la porta seminuda?»

    Così mentre entrava osservò il sorriso di lei compiaciuta con sé stessa per non aver sbagliato quella scelta: sì, lei lo voleva davvero!

    Quelle tre ore scarse che seguirono, tra orgasmi ripetuti e volgarità proferite senza pudore, ormai non hanno più valore per entrambi.

    Solo un pensiero sfocato e incerto alla fine attraversò tutta la giornata di Marco.

    Perché una donna tanto bella non aveva deciso di regalarsi a un uomo solo, l’uomo della sua vita, e di renderlo così unico e felice (e lei sì che avrebbe potuto e saputo far impazzire di felicità un uomo per questo!), invece di buttarsi via così, per giunta con un bambino di diciassette anni?

    Ma la vita poi gli avrebbe dato la risposta anche a questa domanda.

    Fai un altro giro

    Dalla mia finestra ti vedo attraversare il cortile del nostro condominio.

    Sono giorni, settimane, mesi che lo faccio.

    Ho deciso di dirtelo.

    Mi piaci, mi piace come cammini, mi piace come ti vesti, mi piace che non ti ho mai visto con un uomo accanto.

    Vorrei conoscerti, ti lascio il mio numero di telefono: 597 287 3943.

    Baci

    Ilaria

    Giada, rientrando a casa, l’ennesima giornata piena di delusioni e frustrazioni, trovò un biglietto piegato e infilato sotto il portoncino d’ingresso.

    Aveva imparato a diffidare di tutti, pensò a l’ennesimo scherzo. Tutto quello che la circondava la ripugnava, aveva anche pensato di farla finita.

    Perché in questa città era così difficile?

    Perché nessuno capiva e accettava che a lei piacevano solo le donne?

    Si tolse la giacca, via le scarpe e si gettò sul divano.

    Come ogni sera, pur non volendolo, rivedeva tutti gli sguardi dei suoi colleghi, degli uomini incrociati per strada, di quelli che aveva salutato in mensa, al bar, in un negozio.

    Tutti a sbirciarle nella scollatura della camicetta, tutti a ignorare il suo sguardo ma fissi solo sulle tette, e poi sentiva gli occhi di coloro che una volta oltrepassati le foravano il culo.

    Li odiava tutti.

    «Per far carriera qualcuno dovrai pur fartelo» insisteva la sua collega che ignorava quanto Giada fosse diversa da lei.

    Iniziò a toccarsi il lobo dell’orecchio destro, come faceva da bambina.

    Con il tempo quella era diventata la parte più sensibile del suo corpo e i suoi migliori orgasmi, da sola, li aveva avuti proprio in quel modo dopo un paio di drink.

    Anzi ormai non sapeva più godere se non toccandosi quel lobo, per lei era l’unico modo di scacciare tutti i pensieri negativi.

    Durante le sue fantasie erotiche, immaginava la sua compagna, non tanto alta, con un seno splendido, pieno almeno come il suo, i capelli corti e biondi, gambe sottili ma tonda dietro e magra sui fianchi.

    Si sognava nuda, seduta dietro la sua compagna su un semplice sgabello, sfiorarle il clitoride, dolcemente come faceva con il suo lobo.

    Infondo stando in quella posizione, far godere la sua donna significava far godere entrambe, poiché ogni movimento si rifletteva su tutti e due i corpi.

    Poi si vedeva sdraiata, una di fronte all’altra, le gambe incrociate sui corpi una dell’altra, i clitoridi sfregarsi reciprocamente in movimenti lenti, poi veloci, poi ritmati, poi senza regola.

    Sapeva bene che sarebbe stato bello farlo con una donna che di organismi ne può avere anche diversi in pochi minuti, senza quel limite di un maschio che dopo esser venuto la prima volta deve aspettare che passi il treno seguente.

    Si addormentò.

    Quando si svegliò, qualche ora più tardi, in piena notte, vide un altro biglietto nella stessa posizione del precedente:

    Stasera eri bellissima, ma triste.

    Hai salutato con sospetto il tuo vicino e non sai tenere un dolore solo per te, ti si legge negli occhi.

    Chiamami.

    Ilaria

    Poteva davvero essere uno scherzo?

    Ora aveva un dubbio e forse Ilaria era vera, la curiosità iniziava a divampare.

    Ma decise, l’avrebbe chiamata solo al prossimo biglietto e solo se quest’ultimo fosse stato convincente e romantico.

    Così si spogliò e andò a letto.

    La mattina seguente, quando uscì di casa, camminando molto lentamente, cercò di fissare ogni finestra di quel cortile nel tentativo di vedere un volto femminile a osservarla, ma niente.

    La giornata non passava mai.

    Non vedeva l’ora di tornare a casa per scoprire se le avessero lasciato un altro biglietto.

    Tutto il giorno distratta sul lavoro, non notò neanche le solite avances dei colleghi, cancellò riunioni e appena poté uscì dall’ufficio salutando tutti distrattamente.

    Corse veloce con la sua auto verso casa e corse veloce a piedi dopo aver parcheggiato.

    Aprì e il biglietto era lì.

    Oggi non sono andata a lavorare, volevo solo stare con te, speravo provassi anche tu la stessa cosa. Io non resisto più e questa sera verrò a bussarti. Voglio stare un po’ con te, porterò del vino e se non mi vuoi vedere, non rispondermi, non aprirmi e io capirò.

    Ti lascerò in pace per sempre e tu non saprai mai chi sono.

    Ilaria

    Alle 21:00 circa sentì bussare, aveva il cuore in gola.

    Per un momento pensò di non aprire. Ma ormai era tutto pronto, tutto fatto, tutto predestinato.

    «Ciao, sono Ilaria.»

    Rimase senza parole, era incredibile, pazzesco, una favola forse. Ilaria era esattamente come lei aveva sempre immaginato fosse la sua donna.

    «Ciao, sono Giada. Entra, ero impaziente di incontrarti.»

    «Che bella casa hai, non l’avrei mai immaginata così minimalista. Adoro questo stile anche se non credo riuscirei mai a realizzare una cosa del genere, mi mancherebbero troppo tutte le mie cose inutili di cui sono solita circondarmi. Vorrà dire che terremo i due appartamenti, giusto?»

    E rise di cuore anche per mettere a proprio agio la sua amica.

    «Certo, mi piace l’idea di poter vivere in case molto diverse tra loro. E tu invece sei proprio come ti avevo immaginato, anzi sognato.»

    «Dove posso mettere queste due bottiglie?»

    «Vieni, qui sul tavolo. Ne apro subito una, va bene?»

    «Certamente, rompiamo gli indugi. Senza un po’ di alcol una serata non ingrana. E poi ti vedo un po’ tesa Giada, non è così? Non dirmi che è la tua prima volta con una donna? O forse è la prima volta in assoluto? Non ti ho mai vista né con un uomo né con una donna?»

    «Hai quasi indovinato. Sono arrivata a ventisei anni e sono stata solo una volta con un uomo, anzi un ragazzo, a diciassette anni. Era il mio ragazzo all’epoca. Tutte le mie amiche mi invidiavano, mi dicevano che ero stata così fortunata che il ragazzo più bello della scuola si fosse preso una cotta per me. Chissà, forse perché ero così diversa dalle altre e avevo un po’ di cervello a differenza delle mie compagne. Poi una sera, a casa sua, quando i suoi non c’erano, l’abbiamo fatto. Io non ero convinta, lui ha insistito e quasi per non dargli un dispiacere ho permesso che mi toccasse e che poi facesse tutto quello che voleva. Ero solo un pezzo di carne rigida, immobile, paralizzata, senza emozione, senza eccitazione, non ho collaborato. Ha fatto tutto lui, è durata solo pochi istanti. Mi è venuto tra le cosce e non ho capito bene cosa provasse. Ho visto la sua faccia contorcersi prima, aprirsi poi ma non è riuscito neanche a penetrarmi. Figurati un po’! E tu invece? Hai l’aria di quella che la sa lunga, vuoi eleggerti a mia guida?»

    «Beh ecco, io forse ne avute troppe di esperienze, forse questo potrebbe essere un altro motivo per cui potrei perdere la testa per una come te. Prima di arrivare a capire che mi piacevano le donne, ci ho messo un po’. Solo uomini fino ai ventidue anni, tanti, diversi, poi mi sono sposata. Divorziata dopo due anni di noia. C’erano sempre tante cose che non mi piacevano. Spesso mi sono domandata se abbia iniziato a interessarmi alle donne solo perché non ho mai trovato l’uomo giusto.»

    «E sentiamo cosa non ti piace degli uomini?» riprese Giada, mentre si sentiva già brilla dopo un paio di bicchieri.

    «Guarda potrei farti una lista lunghissima, ma mi limiterò a dirti che sono eterni bambini, dai loro un televisore, una partita di calcio e un biberon di birra e stanno lì buoni buoni. Fanno quello che vuoi se gliela dai con la frequenza giusta. Poi quando li vuoi punire e riportare nei ranghi basta negar loro il piacere per qualche tempo e tornano a scodinzolarti vicino, docili e vogliosi. Sono sempre in lotta con altri uomini per questioni di banale orgoglio e sempre per lo stesso orgoglio non concepiscono che una donna ne possa sapere più di loro. Per farli contenti e salvare il rapporto spesso una donna deve reprimere sé stessa. Poi con il sesso sono un disastro, egoisti, inesperti, impotenti a farti godere, appena gli viene duro cercano solo di venire, non si curano di te, se sei pronta oppure no, non si chiedono se vorresti qualcosa in più, non pensano che noi abbiamo bisogno quasi più dei preliminari che dell’atto in se e una volta che sono venuti la faccenda è chiusa e buonanotte al secchio, ti fanno ciaone e si piazzano davanti alla TV.»

    Si misero a ridere come scolarette e passarono così diverse ore a parlare, raccontarsi le loro esperienze, a confrontarsi e, quando il vino aveva fatto per bene il proprio dovere, si spogliarono sul tappeto da dove non riuscivano più ad alzarsi.

    Giada era confusa, ebbra, trasportata dal piacere e quella sera ebbe i primi sei orgasmi con una donna.

    La mattina si svegliò da sola, con il sorriso stampato sul viso, sullo stesso tappeto, con una coperta a riscaldare il corpo nudo.

    Ilaria l’aveva coperta prima di andar via.

    Prese il primo biglietto che l’amica le aveva scritto e ne copiò il numero di telefono sull’agenda del suo cellulare.

    Poi si alzò sempre avvolgendosi con la coperta e aprì la finestra per far entrare un po’ di aria fresca e la luce del giorno nuovo.

    Vide Ilaria proprio nel palazzo di fronte affacciata, poggiata sui gomiti, la testa sorretta dalle mani.

    Si sorrisero.

    Giada le indicò il cellulare che aveva in mano e iniziò a scriverle un messaggio: Per favore non farmi aspettare oltre, fa’ un altro giro con me stasera!

    Countdown

    …Ten, Nine, Eight, Seven, Six,…

    Stava per succedere ma si sentiva interessato come può esserlo un pesce di un triciclo.

    Non riusciva a capire quello che gli stava accadendo.

    Una vita spesa nel sacrificio, nell’attesa di questo momento e ora non provava più nulla.

    Quel satellite in orbita avrebbe potuto salvare centinaia di vite, ma ormai anche questo gli sembrava senza senso.

    Anzi temeva che forse avrebbe solo allungato l’agonia di poveri disgraziati.

    In un attimo gli venne in mente di tutte le ore trascorse da bambino, seduto per terra, con quel suo giocattolo.

    Lo faceva girare e girare e girare ancora.

    E la piccola trottola magicamente volteggiava davanti ai suoi occhi estasiati, fino a che non la immaginava sollevarsi da terra per andare a ballare nelle altre stanze, in altre case, dentro altre vite.

    Ora si trovava così lontano da quella casa dove ormai era rimasta solo sua madre.

    Ora gli sembrava come vivesse in un mondo artificiale, fatto solo di numeri, di calcoli, elaborazioni, previsioni e tentativi.

    Lasciare tutto per inseguire un sogno non era poi così strano, anzi si sentiva fortunato; singolare era il fatto che in quei pochi secondi che lo separavano dalla meta non sentisse più quel sogno come il proprio.

    E quando ormai tutti si abbracciavano emozionati e commossi per il successo dell’operazione, lui aveva già superato la postazione militare situata all’entrata del centro ricerche.

    Pochi giorni prima aveva trascorso una strana serata

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