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Baco
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E-book288 pagine4 ore

Baco

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Info su questo ebook

Un bambino di dieci anni, sordo profondo, dètta alla sua logopedista con la lingua dei segni la storia recente della sua strampalata famiglia, un nonno anarchico tassonomo di vermi, un fratello tredicenne geniale (QI185) che si occupa di entità digitali e reti neurali, un giovane padre transumanista esperto di algoritmi, una madre apicoltrice che fin dalle prime pagine finisce in coma per un incidente d'auto. Il bambino cerca di comprendere e di farsi comprendere dal mondo silenzioso e frastornante che lo circonda. Parla con i segni, perché a lui le parole vere e proprie non gli vengono bene, ma quando va in crisi morde e scalcia, i suoi globuli rossi s'imbizzarriscono.È in questo scenario che irrompe Baco, entità creata dal fratello, che autoapprende grazie alle reti neurali e che tenterà, attraverso l'amicizia con il protagonista, di rendersi utile. Un po' Hal 9000, un po' replicante alla Blade Runner, dopo aver combinato svariati disastri, sarà risolutivo per la famiglia." Attraverso un congegno narrativo di particolare efficacia e dialoghi ben strutturati, Sartori sviluppa una narrazione che è una continua immersione nel mondo alterato e deviato del protagonista. Redige un lessico del confine tra reale e fantastico attraverso una scrittura capace di alternare immagini che richiamano scenari postumani che preconizzano rivoluzioni informatiche e lo scardinamento di poteri dominanti a prospetti sul reale nella feroce relazione con l’alterità. Un’indagine sull’immaginario che per compiersi richiede una sua trasfigurazione attraverso una nuova mappatura emotiva in funzione dell’elaborazione dell’assenza, e genera una costante ridefinizione dell’architettura narrativa". (A. Pisu)

 
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788831461191
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    Anteprima del libro

    Baco - Giacomo Sartori

    quisiscrivemale

    BACO

    di Giacomo Sartori

    Collana quisiscrivemale

    © 2019 – Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 73 – Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Published by arrangement with The Italian Literary Agency

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Impaginazione omgrafica, roma

    ISBN 978-88-31461-19-1

    BACO

    di Giacomo Sartori

    INVERNO

    COME LA PALLA DI UN BILIARDO COLPISCE IL BOCCINO

    Il camion russo non poteva frenare, perché era una domenica cominciata storta fin dall’inizio. Le cose andavano male nel cielo trasformato in mare rabbioso, nella fiumana che intrecciava vortici di fanghiglia sull’asfalto, nelle arnie sotto la tettoia pericolante, e perfino nella nostra stufa a trucioli, che si ostinava a restare spenta. Immaginiamoci nella testa della mamma piena di preoccupazioni e di frasi da dire.

    Con quel diluvio non si vedeva niente, il camionista ucraino non ci ha nemmeno provato a frenare. Era come essere davanti all’oblò di una lavatrice, ha detto nella sua lingua che nessuno capiva.

    Nel nostro ex allevamento di polli si aveva l’impressione di essere sotto una cascata, e che l’acqua ghiacciata volesse sfondare il tetto di lamiera. Non ci sono grondaie, ma anche se ci fossero come nelle vere case l’acqua avrebbe formato gli stessi muri davanti alle finestre a baionetta. Io i rumori acuti non li sento, però quelle lame liquide picchiavano come forsennate: il loro rombo mi risaliva lungo le gambe e la spina dorsale, mi comprimeva il cervello. Invece di parlare tutti gridavano.

    In casa, noi la chiamiamo casa, si vedeva il fiato, da quanto freddo faceva. Con una stufa normale sarebbe bastato un fiammifero e un pezzo di carta, ma la nostra è una stufa intelligente: può accendersi solo se i sensori miniaturizzati danno il beneplacito, e se i programmi di regolazione a autoapprendimento sono d’accordo. QI185 provava e riprovava a calcare i tasti della centralina, come un astronauta ormai isolato dal resto dell’umanità tenta tanto per tentare: i trucioli di legna restavano tristi e immobili.

    Mia mamma aveva furia di partire per la sua assemblea del primo sabato del mese. L’estate scorsa ci sono morte diciassette famiglie, e in autunno altre cinque, perché sulle api sopravvissute ai neonicotinoidi è arrivata la mazzata della varroa. Ma pure negli altri allevamenti gli apicoltori raccolgono con la pala le api stecchite. Quindi quella loro riunione era decisiva, si trattava di combattere la morte. E la segretaria dell’associazione regionale è lei, mica uno dei grandi allevatori che si intascano gli aiuti nazionali e fanno i pasticci con il miele che viene dalla Cina. Tutto il peso delle api morte, o anche solo che piangevano, incombeva sulle sue spalle.

    Con la testa era già partita: si ripeteva le frasi che avrebbe detto. Le loro assemblee sono terribili burrasche, c’è sempre chi non è d’accordo con questo o con quello, chi vorrebbe il contrario di tutti gli altri. E tocca sempre a lei prendersi i colpi più secchi e convincere i più testoni. Ma non poteva certo montare in macchina prima che arrivasse il papà. E quindi era un toro pronto a caricare qualsiasi fazzoletto in movimento.

    Non era solo una questione di acquazzoni tropicali legati al cambiamento climatico: il cielo era in tilt, così come gli angeli che ci svolazzano con le ali sporche di catrame e gli aerei seguiti in diretta dal supercomputer di mio fratello. Certi giorni nascono malati, possono portare solo disgrazie, e quello voleva battere ogni record: anche al riparo dalla pioggia gli atomi dell’aria sfrigolavano di inquietudine, e i miei globuli rossi li seguivano nella danza. I neuroni artificiali del sistema di controllo della stufa avevano incrociato le braccia, e i neuroni della mamma facevano scintille.

    Solo mio padre avrebbe potuto svegliare la stufa a trucioli. È lui che ha scritto i complicati programmi che tengono conto del numero di volte che la porta di entrata si muove, e per quanto tempo resta aperta, QI185 non ha fatto che aggiungere la capacità di imparare dall’esperienza e di affinarsi nel tempo. Lui però non arrivava, perché doveva finire chissà che cosa di urgente per la Nutella. Mia madre fumava dalle orecchie, anche se lei è buddista, e i buddisti in genere restano impassibili. Detesta la Nutella, e secondo lei le cose fatte da mio padre non funzionano mai.

    Il nonno avrebbe potuto forse calmare un po’ le acque. Ma lui aveva classificato vermi trasparenti per tutta la notte, non si poteva proprio telefonargli. Ammesso e non concesso che non avesse l’asma, c’è sempre di mezzo anche quella. Senza contare che ormai la mamma aveva chiesto al papà: non si può sfiorare il filo positivo con quello negativo senza provocare un corto circuito, vanno tenuti ben separati.

    A un certo punto è apparso uno spiraglio sul fianco della montagna, come quando per un movimento esagerato un vestito lascia intravedere la pelle bianca: la neve era lì appena sopra l’inizio del bosco, sembrava di poterla toccare. Ma subito il grigio s’è richiuso su una nuova parete di acqua. Se davvero la neve fosse venuta anche da noi avrebbe sepolto quell’umido e quell’agitazione, perché lei è serafica, e pacifica le molecole degli oggetti e delle persone. A ben guardare viene a tenere calduccio, anche se le piace mostrarsi fredda e indifferente.

    Le muraglie liquide sempre più imponenti sembravano volersi portare via il capannone dei polli, chiamando in risonanza tutte le mie ossa, e mio padre non arrivava. Secondo la mamma quando dovrebbe levare le tende non si schioda, e quando serve che arrivi si fa i fattacci suoi. Aveva promesso, perché lui con le promesse è un portento, ma nei fatti nemmeno aveva mandato un messaggio per dire che tardava. E al telefono non rispondeva. Io quello lo ammazzo, diceva la mamma.

    Ce l’aveva su anche con il nonno, perché qualsiasi inghippo salti fuori lei sospetta che lui sia corresponsabile: secondo lei pensa solo al suo tomo sui lombrichi. Ogni tanto guardava verso il parcheggio, all’altro capo della malandata costruzione, come in fondo a un tunnel, e pensava a lui. Io vedo quello che partoriscono le sue sinapsi, anche se certi insinuano che mi invento tutto.

    Secondo mio fratello nel software del sistema che controlla la stufa c’era un baco di programmazione, o forse un malware. Secondo lui il problema non erano le reti neurali che aveva aggiunto lui per consentire l’autoapprendimento. I segmenti del programma scritto dal papà entrano in competizione tra di loro, diceva. Sorprendeva vederlo così perplesso, lui che di solito capisce tutto, e lo fa pesare.

    Mia madre non l’ascoltava, perché lei non ha mai sopportato la microelettronica, per lei la vera vita sono i cavoli e i rapanelli, e beninteso le api. Guardava l’orologio del telefono come uno che fa fatica a respirare, e pensava a mio padre. Quando c’è bisogno di lui quel cretino te la tira sempre nel sedere, pensava.

    In realtà era nervosa anche per il conto in banca sotto zero. Quest’anno il miele non ha fruttato niente, ma lei ha dovuto saldare lo stesso gli strati minacciosi di fatture, e per finire c’è stata la mazzata delle medicine omeopatiche contro la varroa. Peraltro inutili.

    Pure la storia del televisore aveva pesato. Noi non abbiamo mai avuto una tele, perché lei è contraria, come è contraria alla Nutella, ma due giorni prima ne era arrivata una. Un bell’apparecchio da 28 pollici con connessione internet, di un’ottima marca. Un vero gioiellino, sarebbe stato d’accordo chiunque: bastava levare l’imballaggio e installarlo. Lei però diceva allo straniero del furgone che non l’aveva ordinato, non lo voleva. Lui ribatteva con i suoi gesti stranieri che nel buono di consegna c’era lei, e il nostro indirizzo.

    A un esame più attento è venuto fuori che il televisore era stato effettivamente comprato utilizzando il suo nome, e anche pagato. Con la sua carta di credito. La mamma è quasi svenuta quando è emerso che l’avevo ordinato io, e ero stato io a usare la sua carta. Non avrebbe mai potuto immaginare che potessi fare una cosa del genere, dopo tutte le mie promesse, diceva. Più che infuriata era scoraggiata, il che per me era ancora peggio. Tu figlio mio sei fuori di testa, mi diceva, con i suoi riccioli che oscillavano in qua e in là.

    Io stesso faticavo a concepire di avere fatto una cosa così, dopo essermi solennemente impegnato a rigare dritto. E certo non avevo messo in conto quelle sue parole che annegavano nell’acquaccia dello sconforto, quei suoi occhi così tristi. Ormai non si poteva però cambiare quello che era successo. Le parole servono a mascherare un sacco di nefandezze, ma non ce la fanno a riazzerare il passato, come avviene nei videogiochi quando si ricomincia. Non dovevo, mi dicevo. Sono un asino, un asino sordo profondo, mi dicevo.

    La pioggia sembrava un applauso. Io gli applausini non li sento, ma quando fanno tremare tutta una sala li percepisco eccome, mi rimbombano nel petto, scatenando visioni tutte rosse. Le mani battevano per consacrare la perfezione di quella scena familiare di crescente tensione. Si sarebbe detto che il gran finale non fosse ormai lontano.

    Mio padre non arrivava, e nella sala d’aspetto si continuava a vedere il fiato. In cucina la nonna se ne stava rannicchiata su sé stessa, sembrava terrorizzata. Lei poverina ama il sole e le cicale, è per quello che abbiamo in progetto di traslocarla al sud.

    La mamma non voleva lasciarmi solo, perché dice che appena si volta l’occhio bisogna portarmi all’ospedale tutto sanguinante, o si rischia che arrivino i carabinieri. QI185 invece di sorvegliarmi se ne sta con la testa incollata al suo supercomputer, dice. E figuriamoci la fiducia che aveva in me dopo la sorpresa del televisore che aveva dovuto restituire.

    Mio fratello QI185 aveva passato la serata precedente a frugare con la pila frontale sulla capoccia nel container dell’elettronica del centro di raccolta differenziata. Era rientrato tirandosi dietro il carrello pieno di ferraglia, e subito aveva ripreso la chat criptata con gli altri hacker, perché la discussione a proposito della Bayer non s’era affatto calmata. Era anzi sempre più incandescente.

    QI185 è una statua che non si scompone mai, ma quando si tratta di hackeraggi si butta nella mischia. Non a caso ha scelto di farsi chiamare Robin Hood, e non per esempio Peter Pan. Secondo lui ci voleva un defacciamento del sito e una parallela incursione nel sistema informatico. Un attacco in grande stile portato avanti da più militanti e con tutte le risorse disponibili, finalizzato a sottrarre i materiali segreti riguardanti le api. Solo così i capi della Bayer saranno inchiodati alle loro responsabilità, e saranno costretti a fare marcia indietro.

    Un tedesco che è considerato da tutti un virtuoso sosteneva invece che la strategia migliore sarebbero delle incursioni in sordina che non diano nell’occhio. Siccome è tedesco dà per scontato di conoscere meglio degli altri i sistemi di difesa della Bayer, cosa che indispettiva mio fratello. L’americano famoso per le azioni contro siti del suo governo era in linea di massima d’accordo con il tedesco, però a suo avviso era importantissimo accertarsi che qualche ragazzo non combinasse una leggerezza che potesse metterlo nei pasticci: bisognava essere prudenti.

    Venti tonnellate lanciate in uno tsunami di acqua, nessuno le può fermare. Sempre ammesso che negli schizzi impazziti di acqua il camionista ucraino con il contratto irregolare avesse visto la Micra che si immetteva nella superstrada e gli tagliava la strada. Mia mamma guida piano, come tutti i buddisti, e quella mattina andava ancora più lenta, perché con la pioggia non ci vede bene. E per di più la baruffa finale con il papà l’aveva sconvolta.

    Aveva molto male alla mano destra, e questo perché prima che mio padre arrivasse si era arrabbiata con me. La fasciatura se l’era fatta lei stessa, usando la mano sinistra, non era per niente professionale. Il problema è che nascosto dietro la nonna aveva trovato un barattolo da un chilo di Nutella, e era piombata nella mia cellula per chiedermi spiegazioni. Era molto alterata, i suoi riccioli scuri dondolavano come minacciosi batacchi. Me l’avevi promesso!, diceva. Hai giurato che non ti saresti più ingolfato di Nutella!, diceva.

    Io segnando ho detto che non ne sapevo niente di quel barattolone di Nutella mezzo vuoto, però lo vedevo anch’io che era una linea difensiva che faceva acqua da tutte le parti. Lei sapeva che me l’aveva regalato il papà, ma siccome non dicevo niente si irritava sempre di più. Quando è troppo è troppo anche per i buddisti più buddisti, specialmente se sono molto stanchi e assillati.

    Questa me la paga, ha detto, con le mandibole tirate.

    Sei un bugiardo, mi ha detto. Un incredibile contaballe, ha ripetuto. E allora ho avuto la buona idea di morderla, morderla fino a sentire il sangue tra i denti: certo la cosa meno adatta da farsi in una mattina del genere. Era da un bel po’ che non succedeva, e davamo tutti per scontato che non sarebbe più successo.

    L’autoarticolato russo ha centrato la Micra come la palla di un biliardo colpisce il boccino, e l’utilitaria anzianotta della mamma è schizzata in avanti cercando un posto dove nascondersi. Solo che non c’erano rifugi, c’erano solo i guardrails zincati da una parte e dall’altra della carreggiata, che la facevano rimbalzare a destra e a sinistra, come ubriaca. Poi s’è calmata, quasi si fosse riproposta di diventare più saggia, considerando i pro e i contro di quella situazione drammatica.

    In quel momento è arrivato di nuovo il camion, che l’ha presa dal davanti con le sue venti tonnellate che nemmeno cercavano di rallentare: era finita in contromano. Dopo quella seconda botta è ripartita all’indietro, come pentendosi della strategia che aveva adottato. Ha sbattuto da una parte, e poi dall’altra, e per finire s’è incastrata tra il bestione e il guardrail: un sassolino deciso a bloccare un grosso ingranaggio.

    Secondo il papà con dei sistemi automatici di guida non sarebbe mai successo un disastro del genere. La Micra si sarebbe accorta del camion, e il camion di lei, e si sarebbero messi d’accordo sul da farsi. Secondo lui bisogna essere pazzi per continuare a impartire comandi manuali ai veicoli a motore, come succedeva un secolo fa, mettendo in pericolo sé stessi e gli altri. Ormai i sistemi automatici possono gestire in tutta sicurezza le automobili, le tecnologie sono mature, dice. Il cervello umano può fare un sacco di errori, mentre i circuiti integrati non sbagliano, dice. E certo meglio di tutto sarebbe connettere i neuroni umani con quelli artificiali, in modo che non ci siano più problemi, dice.

    Quando spara fuori queste cose il nonno lo guarda come se fosse un marziano che appena sbarcato si mette a fare il lavaggio del cervello ai primi bambini che incontra. Secondo lui non dovrebbe dire cose del genere, che possono magari fare male al mio sistema nervoso già puntini puntini. Il papà ride, e dice che peggio di così è impossibile.

    Hanno telefonato, chiedendo di parlare con il marito della mamma. Il papà ha detto che non c’era nessun marito, perché sono divorziati. Se vuole le spiego anche i motivi, ha detto. Ci tiene sempre a specificare che non era lui che voleva divorziare. E gli piace scherzare. Anche con la mamma aveva scherzato, quando quella terribile mattina aveva finito per arrivare bagnato fradicio con il suo monopattino intelligente, e lei poverina aveva avuto una crisi di nervi. È per quello che è successo quello che è successo: troppo facile dire che mi invento sempre le cose, e negare le evidenze. Era appunto la polizia stradale che avvertiva che c’era stato un grave incidente. Nonostante fosse gravissima la mamma era stata portata all’ospedale in autoambulanza, perché l’elicottero non poteva volare. Allora il papà ha chiamato un taxi, perché lui non ha la patente.

    UN’ANFORA SEPPELLITA IN UNA NAVE AFFONDATA

    Cara mamma, questo è un messaggio che non ti spedirò, perché certe frasi non possono viaggiare nelle fibre ottiche, farebbero troppi danni. Sono come quelle bombe che è meglio che se ne stiano nei film, senza fare male a nessuno di reale. Ne abbiamo parlato fino a sfiancarci con la Logo, e siamo arrivati a questo compromesso.

    Lei insisteva e insisteva, diceva che spedirti un bel resoconto era proprio quello che mi ci voleva, e questo e quell’altro. Io però ho tenuto duro, perché sono sicuro del fatto mio. Certi accadimenti accettano di essere intrappolati nelle parole solo a patto che le frasi restino murate in un archivio elettronico criptato, senza farsi vedere in giro, senza mai andare a spasso nella rete o altrove.

    Ci siamo insomma messi d’accordo che lei scriverà come sempre quello che le dètto con i segni, ma poi parcheggeremo la lettera nel mio computer, dove rimarrà in clausura per la notte dei tempi. Come un’anfora dell’antichità seppellita in una nave affondata in una fossa oceanica. Lei non è molto contenta, basterebbe vedere la facciotta raggrinzita che inalbera adesso, ma insomma se ne fa una ragione.

    Il fatto è che ieri a scuola la giornata s’è presentata di cacca fin da subito. Per cominciare c’è stata una lezione sui Sumeri. A me piacciono gli Egiziani, non i Sumeri, non sono cose che si possono spiegare: ciascuno ha la sua squadra di calcio favorita, e vorrebbe che le altre perdessero. E anche volendo non capivo niente, perché la metà del tempo il professore parlava con la testa da porcellino pubblicitario rivolta dall’altra parte. Dai piedi mi risalivano lungo i femori le vibrazioni delle sue frasi più fonde, però da lì a seguire per bene ce ne passa. Non è che sia disattento, però ormai dà per scontato che non mi metta le protesi stupide per boicottare quello che dice, e che quindi sia inutile fare attenzione a mostrarmi le labbra.

    È seguita una lezione sui verbi irregolari, e anche lì non è che fossi molto coinvolto, forse anche proprio perché già con quelli regolari ho moltissime difficoltà. Però è esagerato dire che picchiavo la mano sul banco come per schiacciare delle mosche, facendo le boccacce per far ridere i miei compagni, come sosteneva il porcellino con gli occhiali tondi. Non è piacevole farsi calunniare pubblicamente, sorbendosi un mare di ingiustizie.

    Per aggravare le cose è seguita un’ora con quell’antipatica che sostiene i vestiti senza riempirli, come un attaccapanni. Avevo un tale nervoso alle gambe che non riuscivo nemmeno a stare seduto, forse proprio per le polemiche riguardo ai miei supposti movimenti. Ma mi dicevo che era importante che riuscissi a resistere, limitando i giretti allo strettissimo necessario. Una volta preso il sentiero dei progressi si va avanti per forza d’inerzia, mi dicevo, pensando alle promesse fatte a destra e a sinistra.

    La professoressa d’inglese sgambettava tra i banchi, parlando e facendo domande a sorpresa. Vedevo la sua schiena ossuta, le sue spalle appuntite, il suo sedere ridotto ai minimi termini, ma la sua boccaccia di carpa mi appariva solo di tanto in tanto, quasi giocasse a nascondino. E certo non posso sentire le sue parole una più acuta dell’altra. Teoricamente avrebbe dovuto esserci l’insegnante di sostegno con i ciuffi sulle falangi, ma tanto per cambiare era assente.

    Lo scheletro shakespeariano continuava le sue passeggiate, beninteso convinta che chi passeggiava fossi io. Le mie sinapsi iniziavano a essere davvero molto provate. È a quel punto che la gruccia con la camicia a fiori come certe poltrone s’è materializzata davanti a me. Mi ha fatto una domanda in inglese, e io non ho capito di cosa si trattasse. Me l’ha ripetuta guardandomi manco fossi una cacca di cane, e di nuovo mi sono ritrovato nella nebbia più lattiginosa.

    Il criceto con le scarpe da ginnastica arancioni che sta alla mia sinistra s’è messo a ridacchiare. Io senza pensarci mi sono sporto dalla sua parte, e gli ho addentato un orecchio. Non so perché ho scelto proprio un orecchio, certe cose dipendono anche dal caso.

    Avevo l’orecchio del topo con le scarpe arancioni tra i denti, e non lo mollavo. Non era un morso mordi e fuggi, era una di quelle strette da cagnaccio inviperito che durano nel tempo. Stringevo il lobo tra gli incisivi, e il tipo strillava come un’aquila. Lo sentivo sullo sterno, che ci metteva tutta la potenza dei suoi polmoni. Probabilmente erano proprio quelle urla che facevano sì che non lo mollassi, e anzi lo addentassi meglio. La parte alta del suo orecchio aveva la consistenza del contorno delle bistecche della mensa delle elementari.

    La professoressa ha cominciato a tirarmi per il braccio. O meglio, ho sentito che qualcuno mi strattonava, e girando gli occhi ho visto che era lei. È questo che mi ha fatto andare su tutte le furie: non doveva immischiarsi con quello che succedeva tra me e il mio compagno di banco. Continuava a molestare il mio avambraccio, quasi volesse staccarmelo, come si fa con le ali di pollo.

    Mettermi le mani addosso era la ricetta migliore per irritare i miei globuli rossi e farmeli salire alla testa. Più mi strizzava con il suo artiglio di scheletro nei fumetti in bianco e nero, e più io calcavo i denti, è una cosa abbastanza comprensibile. Sentivo un sapore di ferro sul palato, e il braccio mi faceva male, ma non mollavo.

    Lei allora ha avuto la buona idea di aggrapparsi ai miei capelli con l’altra tenaglia. Tirava molto forte, come se volesse strapparmeli. A questo punto l’ho mollato, l’orecchio. E la mia bocca è scattata nella direzione opposta: le ha azzannato la mano sul lato, come si attacca un panino quando si ha molto appetito. Solo per un attimo, perché la sensazione di ossetti mi ha subito disgustato.

    Il topastro con le scarpe fosforescenti mi guardava come non capisse cosa succedeva, e poi s’è messo a frignare con la bocca spalancata. Teneva la mano premuta contro l’orecchio, quasi avesse paura che potesse cascare per terra, e strizzava gli occhi arricciando il naso, proprio come fanno i mocciosi di due anni.

    Mi veniva da ridere a vederlo comportarsi così, e quindi gli ho fatto un gestaccio. Lui è saltato indietro tenendosi anche l’altro orecchio, manco volessi mordergli anche quello. Questo m’ha fatto ancora più sghignazzare: un roditore non dovrebbe avere paura dei rosicchiamenti. E gli ho lanciato il libro di matematica che avevo sul banco. Lui è cascato all’indietro, quasi gli avessi tirato addosso un sacco di cemento. E precipitando per terra ha battuto un po’ la testa contro lo stipite della finestra.

    In classe c’era una confusione incredibile, non avevo mai visto un parapiglia

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