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Il valore delle piccole cose
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E-book356 pagine5 ore

Il valore delle piccole cose

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Info su questo ebook

Lorenzo, in un solo giorno, perde il lavoro, scopre il tradimento della moglie perfetta e riceve la telefonata che gli cambierà la vita: suo padre, che non vedeva ormai da anni, è morto. Disorientato dagli eventi, è costretto a far ritorno al piccolo paese natio, dove il vecchio Antonio, amico inseparabile del padre, lo aiuterà a rimettere in sesto la modesta casa ereditata. Attraverso i ricordi di Antonio, Lorenzo rivivrà i giorni terribili dell’occupazione tedesca durante i tentativi alleati di sfondare la munitissima Linea Gustav; farà conoscenza del sergente delle SS Sturmann, esaltato e capace di nefandezze indicibili nei confronti dei civili, e del mite soldato Hans, costretto suo malgrado a obbedire agli ordini ma sempre bendisposto ad aiutare il piccolo Antonio donandogli sacchetti di sale, bene preziosissimo all’epoca, uno dei quali l’anziano ha conservato sul camino della propria casa. Così, mentre Lorenzo sarà impegnato a rimettere in piedi la sua vita e Antonio a combattere le sue antiche angosce; un evento straordinario stravolgerà, ancora una volta, l’esistenza di entrambi. I resti di un soldato tedesco verranno ritrovati da un cercatore di funghi e, quel soldato, si rivelerà trattarsi proprio di Hans. Nel tentativo dei due uomini di emendare il proprio passato, ogni esistenza si andrà a legare a quella di altri personaggi e fino a fondere le due epoche.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2017
ISBN9788863937817
Il valore delle piccole cose

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    Anteprima del libro

    Il valore delle piccole cose - Marco Vozzolo

    SÀTURA

    Marco Vozzolo

    Il valore delle piccole cose

    ISBN 978-88-6393-781-7

    © 2017 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    A mio padre e mia madre.

    CAPITOLO PRIMO

    Castelforte, 24 aprile 2016

    Come a volerlo artigliare, afferrò il sacchetto sul camino.

    Lo strinse forte ma poi aprì la mano lentamente. Vi posò lo sguardo anche se oltre gli occhi c’era la propria mano che stringeva quella di una donna.

    «Mammà… mammà, iammo, sosete. Dobbiamo scappare non c’è più tempo.» La voce vibrò non tanto per la concitazione quanto per l’esplosione che per poco non li coinvolgeva.

    Si udirono subito dopo i tonfi sordi dei sassi, delle schegge, rami e pezzi di fango che cadevano tutt’intorno.

    Un’altra cannonata fece saltare un bunker in cui i tedeschi avevano piazzato una mitragliatrice, facendo schizzare pericolosamente cemento e ferraglia.

    Riarsa dell’acre fumo che saturava l’aria, la gola gli doleva e poteva sentire il cuore martellargli nelle tempie. Un fischio persistente gli penetrava nel cervello dalle orecchie.

    Ma la sua piccola mano non aveva lasciato quella di sua madre e, recuperando tutta la forza di cui disponeva, prese a tirare forte.

    Scalciando nel disperato tentativo di rialzarsi, la povera donna creò dei solchi nella poltiglia dove perse una scarpa. «Antò, fuitenne… fuitenne lassame ’ca. Salvati almeno tu.»

    «No mammà, dai» le disse con la disperazione che gli torceva lo stomaco. Si sforzò al limite fino a riuscire a farla rialzare.

    Neppure il tempo di voltarsi che la voce di Pepparieglio, il barbiere, lo rinfrancò. «Forza, donna Gina, fatevi coraggio che abbiamo ancora molto da camminare. Che qua, tra le cannonate degli Alleati e i rastrellamenti dei tedeschi, finiamo per farci ammazzare stanotte.» Le sue forti braccia la sorressero nonostante incespicasse tra le pietre viscide del ruscello.

    Un sibilo e ancora un boato assordante.

    Gli occhi si riaprirono con difficoltà. Pareva provasse dolore dappertutto eppure riusciva ancora a muoversi. Il sapore disgustoso della terra gli fece capire che ne aveva la bocca piena e la sputò. Ma, puntellandosi sui gomiti cercando di riacquistare contezza di sé, si accorse che ne era ricoperto.

    Il freddo, le grida e gli indefiniti fragori che echeggiavano in quell’alienante momento di terrore, gli avevano sconvolto le membra.

    I traccianti marcavano il tiro delle mitragliatrici che incrociava sulla sua testa. Non vi era angolo, in tutta la vallata, in cui non riecheggiassero le deflagrazioni delle cannonate e i suoni secchi e cadenzati delle contraeree o delle MG 42.

    «Italienisch weil Sie laufen wie die Hasen weg?» gridò una voce da dietro la trincea.

    Senza curarsene, il bambino allungò la piccola mano affondando le dita nella terra umida e gelida. Erano saltati su una mina, anche se lui nemmeno sapeva cosa fosse una mina. Con gli occhi spauriti cercò sua madre e quando la trovò la vide smembrata, afflosciata in una posa indecente. Cercò di chiamarla ma la voce gli si strozzò in gola.

    Era l’aiuto di Pepparieglio che avrebbe voluto chiedere ma lo vide più a valle, fuggire tra i corpi esanimi dei paesani, dilaniati anch’essi dalle mine e dalle raffiche delle mitragliatrici dei Panzergrenadier.

    «Mammà» Si rialzò infermo sulle gambe. Fece qualche passo verso la donna di cui vedeva bene il capo chino, il fazzoletto sulla testa non tratteneva più i capelli neri come la notte. Come quella notte così terrificante.

    Ancora raffiche di MG 42 e colpi di mortaio. Esplosioni, case che crollavano, colonne di fuoco che si alzavano verso il cielo plumbeo.

    Ma, nonostante tutto ciò, la piccola mano si protese verso la mamma

    Il sacchetto era ancora lì. Ne sciolse il laccio che lo teneva chiuso svelando il gruzzolo di sale grosso che vi era contenuto.

    Trascorse un lungo istante prima che decidesse di richiuderlo. La mano ossuta, provata dal tempo e da sessanta anni di lavoro, lo ripose proprio nel punto in cui lo aveva raccolto.

    Dove era poggiato dal 1944.

    «È pronto a tavola, papà.»

    Una voce dissolse in un attimo tutti quei ricordi. «Eh?»

    «Papà, la cena.»

    Era sua figlia, con quel tono così pacato che gli piaceva più di ogni altra cosa. «Hai cucinato tu?»

    «No, di là in cucina c’è il vincitore di Masterchef…»

    «Non essere sciocca, intendevo dire se hai preparato qualcosa oppure l’hai comprata già pronta.»

    «No, stasera cose semplici: mozzarella e pomodori. Perché, volevi andare al bistrot?» Sfrontata, lo guardò di sottecchi prima di prenderlo sottobraccio. «Ma stasera ti è concesso un bicchiere di vino.» Un passo via l’altro, si avviarono verso la cucina. Teresa lanciò un’occhiata fugace al sacchetto sul camino.

    «Ancora ti tormenti?»

    Gli occhi velati dal trascorrere del tempo si abbassarono. «Tengo na fame, Teresì.» Cambiò discorso.

    «E tra due minuti ceni. Non portare fretta come al solito tuo.»

    «Metti al telegiornale che devo vedere le notizie. Vedrai che stasera dicono che l’hanno arrestato, quel farabutto…» Ringhiò sedendosi.

    «Non cominciare con la politica, eh? Che poi ti agiti e lo sai come va a finire con la pressione. Tu stai inguaiato, ricordati che domani suoni ottantadue campanelle. Dico ottantadue non so se…» lo pungolò lei.

    «Teresì?»

    «Ot-tan-ta-due…»

    «Teresì?»

    «Cosa?»

    «Affanguro!»

    «Buon appetito, papà. Ti metto il telegiornale che voi anziani lo vedete sempre…» Raccolse il telecomando selezionandogli il canale preferito senza minimamente curarsi di nascondere il sorriso di scherno.

    La brezza che mosse la tenda la invitò a uscire sulla terrazza per godere l’ultima luce del sole che si ritirava seguendo lo scorrere lento del Garigliano. Si versò del Falerno nell’ampio calice e roteandolo ammirò lo sfavillio paglierino. Man mano che il cielo diventava buio, le luci di Gaeta diffondevano un alone ambrato sull’intero golfo.

    La città che fu l’ultimo baluardo dei Borboni sfavillava di luci svelando una certa vivacità. Invogliava a raggiungerla e viverla, e poco importava se la si considerasse per la storia di cui era impregnata, visto che era bagnata dal mare di Enea e dalla passione di Munazio Planco, o per la mondanità dei suoi locali.

    Eppure, nonostante amasse quel posto, Teresa guardava lontano, fino al punto più distante della costa che riuscisse a vedere. Era un modo di pensare al raggiungimento del suo obiettivo, lavorare in una grande città, per vivere dove le cose accadevano veramente ed esserne partecipe. Le sarebbe piaciuta Milano ma anche Torino, in alternativa, non sarebbe andata male. Una smorfia di boria palesò il pensiero che in quel preciso istante le attraversò la mente: in fondo aveva studiato molto e fatto dei sacrifici per arrivare fino a quel punto e poter sperare di realizzare il suo sogno, o forse no?

    Prestolle

    Attraverso la finestra, la luce del sole creava una scacchiera sul pavimento. Granelli di polvere rimanevano in sospensione tra i raggi.

    Il tavolino già pronto per la colazione era un auspicio per la giornata. Divenuta ormai un’abitudine apparecchiarlo ogni sera prima di andare a dormire, al nuovo sole era bello trovare le tazze rivoltate sui piattini e i cucchiaini lucidi di traverso.

    Una sorta di format in cui si incastravano bene la tovaglia a quadri gialli, la zuccheriera, un bricco per il latte e il barattolo dei biscotti, quello trasparente dell’Ikea; niente male, per non essere in un albergo a cinque stelle.

    Mentre la fragranza del caffè si faceva prepotente saturando l’intero cucinotto, le lancette di un orologio che si rifaceva a quelli in uso nelle stazioni ferroviarie segnavano le sei e trenta.

    Oltre le imposte, il cielo appariva terso nonostante la giornata si presentasse fredda. La conferma che quello che avevano previsto al meteo delle venti si stava avverando.

    L’inizio programmazione della tv ricordava che la perturbazione che stava mettendo in ginocchio l’intera Europa non avrebbe tardato a raggiungere anche l’Italia. L’oroscopo e il traffico autostradale servivano, in realtà, per concedergli il tempo necessario a spalmare la marmellata sulle fette biscottate così che, quando poi arrivava il momento delle prime pagine dei quotidiani, lui potesse sgranocchiare senza distogliere lo sguardo.

    Scalzo, avanzò svogliatamente verso la macchina del caffè versandoselo nella tazza che aveva raccolto dal tavolino. Se lo avvicinò al naso inspirandone forte l’aroma prima di sedersi. Latte, un cucchiaino di zucchero e mescolare.

    Stesse cose, stesso ritmo.

    Stesse quantità, stessi profumi.

    Ogni mattina iniziava con la collaudata routine di sempre.

    Si domandò se fossero quelle le abitudini che rendevano piatta l’esistenza di ogni uomo ma quel dilemma si dissolse nell’istante in cui il sapore del caffelatte si sciolse nel palato. Ecco, si disse, era proprio quel gusto l’autografo di Dio che sottoscriveva il buon inizio della giornata. La giusta mescolanza e la perfezione che si ripeteva.

    Era venuto il momento dei biscotti, invitanti luccichii di granellini di zucchero ricoprivano la pasta frolla alla panna. E poi il primo tg, di quelli sbrigativi, con le notizie brevi lette da frasi istantanee e impresse da immagini che duravano giusto il tempo di un sorso di caffelatte.

    Mai che ci mettessero una conduttrice bona a quest’ora del mattino, constatò tra sé, che fosse giunto il momento di cambiare testata?

    Dell’indice Nasdaq non gliene era mai fregato granché eppure, quella mattina, con tutti quei numeri con il segno meno davanti, stava assumendo quasi quasi un benaccetto spunto per una puntatina al lotto. Terno secco sulla ruota di Firenze, concluse.

    «Hai visto mai…» Pensò ad alta voce, prima di segnare i numeri sullo scontrino della spesa che giaceva sulla credenza da almeno due giorni, al culmine di un mucchio di bollette, estratti conto, biglietti da visita…

    Ci volle più di un quarto d’ora per finire e riporre nel lavandino tazze e carabattole, dato il suo modo di farlo, spostando una stoviglia per volta. Colse l’occasione per sbirciare dalla finestra un cielo sotto il quale detestava vivere ma scosse il capo scoraggiando preventivamente ogni brutto pensiero. Si finse indaffarato e finì di rimettere a posto la cucina.

    «Cosa ti costerà mai usare la lavastoviglie?»

    Carlotta amava iniziare la giornata in quel modo, mettendo l’accento su qualcosa. Così… quel tanto che bastava a elevare il lato femminile del mondo a scapito di quello opposto.

    Le riconosceva un certo talento personale in quello.

    «Ben svegliata anche a te, amore.»

    «Tesoro…»

    La sgradevole consapevolezza che non vi fosse uomo al mondo che non le avesse guardato il didietro almeno una volta e che, già che c’era, non le avesse guardato anche il davanti, lo metteva sempre di malumore. Si chiese se non sarebbe stato meglio sposare una racchia, chissà, magari almeno quella fastidiosa sensazione l’avrebbe evitata.

    Come per ogni cosa in quel perfetto algoritmo di inizio giornata, anche Carlotta faceva la sua parte. Prima la doccia, poi si vestiva e, solo alla fine, consumava una fugace colazione, due cazzate da dire e poi via, verso il quotidiano che consisteva in: un tuffo in sms, telefonate incessanti, chat, twitter, messaggi vocali, mail, videoconferenze, conferenze, convegni, incontri, ricevimenti, caffè, sigarette, strette di mano e tanti, tanti, ma tanti sorrisi.

    Inutile dire che lui la considerava una vera e propria vita del cazzo che, se da una parte portava a casa molto più del necessario in termini di guadagno, dall’altra causava al piccolo nucleo familiare stress a ogni ora del giorno. Non c’era pranzo o cena, infatti, che non fossero interrotti da una telefonata di lavoro.

    «Cosa farai oggi?» Le domandò un istante prima di recuperare gli occhiali da sole che si erano andati a infilare tra la consolle e il vaso di vetro pieno di un’inutile candela sul fondo sabbioso.

    Dopo aver addentato un muffin, Carlotta portò l’indice alla bocca prima di rispondere: «Non saprei da dove cominciare, è meglio che ti faccia un riassunto in serata. Cosa ne dici? A proposito, pensi tu alla Mari?».

    Ancora un sorso e un morso al muffin. I muscoli delle mandibole si stizziscono.

    Dovette ammettere che scorrere lo sguardo su quel volto gli regalava tutte le volte una gran soddisfazione. Era sempre stato quel modo di essere così femminile ad averlo affascinato fin dal primo istante che l’aveva vista. Le décolleté di vernice fucsia, dal tacco che avrebbe potuto competere con un grattacielo, si combinavano a caviglie sinuose dalle quali partivano gambe che altro non erano che l’avanguardia di un corpo che non lasciava scampo. Carlotta era una corrente che avrebbe trascinato nel pericolo qualsiasi occhiata avventuriera, scaltra o meno che fosse.

    E lui l’aveva sposato quel corpo. Se ne sentiva, in qualche modo, il custode. Una sorta di curatore del benessere, o personal trainer se vogliamo, anche se celava in sé il segreto inconfessabile di sentirsene un po’ il padrone. Sì, certo, lo sapeva bene che non era cosa da pensare eppure non poteva farci nulla, per lui era così: solo sua, in ogni senso. Nel modo in cui un’alchimista ne avrebbe ricavato l’estratto solo per assaggiarlo, come se ogni volta fosse la prima. E, d’altronde, sfiorare Carlotta era sempre come leggere una storia misteriosa, oscura: non era dato sapere dove avrebbe potuto condurre.

    «Amore, ma mi ascolti?»

    La sua voce dissolse quei ragionamenti. «Cosa?»

    «La Mari.»

    «Mari, cosa?»

    «La scuola.»

    «Sì, sì, penso io a lei» tagliò corto.

    «D’accordo. Io vado allora, mi aspettano…»

    «E sai che novità.»

    «Senza clienti non si mangia, caro mio. E se il cliente ha sempre ragione, oggi di rotture se ne prevedono parecchie, sai quel cantiere su a Gello? Ecco, oggi si riunisce la commissione edilizia del comune e dobbiamo essere pronti a tutto. Ci saranno avvocati, notai, ingegneri…»

    «E, quel dobbiamo sta per tu e chi altri, esattamente?» la interruppe volutamente.

    Sbuffare alle domande a cui detestava rispondere era diventato un classico. «Io, Ric e quei rompi dello studio Ferretti al completo.» Sbatté un’antina per far sentire quanto si stesse irritando.

    «Ah ecco, Ric!» Si fece allusivo.

    «Come sei infantile quando fai così…»

    Lorenzo decise dunque di tagliare sull’argomento ed evitare tensioni. «Buon lavoro allora.»

    «Seee, come no.» Indossò la giacca e mise a protezione del collo un foulard dai toni freschi.

    Borsetta e borsa da lavoro.

    «Esco!»

    «Ah!» La guardò di sbieco, in segno di rimprovero.

    «Perché mi guardi in quel modo?» chiese.

    Le indicò le labbra e portò l’indice alle proprie.

    «Te le consumerò stanotte, è una promessa. Adesso ho fretta.»

    Prima di chiudersi dietro la porta i suoi occhi furono attraversati da un lampo di malizia.

    Neppure il tempo di elaborare il silenzio della sua assenza che un’altra voce arrivò dal profondo.

    «Pipì.»

    «E vai in bagno, no?»

    «Papà, mi ci porti tu?»

    «Ma ci sai andare da sola, o mi sbaglio?»

    «Dai, papà, ho paura del buio…»

    «Ma è giorno!»

    «Papinooo…»

    Non aveva scampo. Doveva andare nella stanza dove il lilla delle pareti dominava incontrastato sul bianco del soffitto e il rosa scarico dell’armadio.

    Lo specchio incastonato nella porta riflesse la bambina che rapidamente sgusciava fuori dalla calda coperta di Cenerentola per infilarsi dietro la testiera. Buon segno, si era svegliata bene.

    «Ehi, ma la mia piccola dove è finita?»

    «Non c’è…»

    «No, non dirmi che è andata via da sola?»

    «Sì, è andata alla materna da sola.»

    «All’asilo?»

    Sbucò fuori come se avesse teso un agguato: «Papà, io vado alla materna. Sono una leoncina».

    «Ah, scusa. Ma non ti scappava la pipì?»

    Quasi se ne fosse ricordata solo allora, strinse le gambine vestite da un improponibile pigiama «muccato», con tanto di coda, cercando di trattenerla.

    La corsa verso il bagno fu, in parte, inutile.

    «Mi è scappato un goccio di pipì… ma solo un goccio.»

    «Fa niente, patatina, rimediamo subito. Colazione e vestitino. Sai che ti ho preparato quello con Elsa, di Frozen

    «Oggi ho ginnastica.» Lo rimproverò guardandosi addosso.

    «E?»

    «Tuta.»

    «Non potevi dirmelo prima?»

    «Papà, il grande sei tu.»

    «Ah!»

    Sbuffò. Tutta sua madre.

    Anche trovare un buco per la macchina fuori dall’asilo non fu cosa facile.

    Doppia e terza fila non erano nulla a confronto delle idee stravaganti di qualcuno, come quel fottuto fenomeno che aveva deciso d’imperio di lasciare un suv bianco dalle dimensioni di un mammut giusto a ridosso del cancello d’entrata, costringendo genitori e figli ad aggirarlo. I più sfortunati, quelli cioè con passeggino per i più piccoli, avevano posto in essere una catena umana che afferrava il bambino da scolarizzare, lo passava all’altro, che lo passava all’altro che era al di là della vettura che poi lo passava a quell’altro che era oltre il cancello. La scena ricordava le banchine dei porti all’epoca dell’ammiraglio Nelson.

    Una volta raggiunto l’interno dell’edificio, venne il momento di toglierle il giubbotto. «Dov’è la tua gruccia?» le domandò (o forse lo domandò a se stesso) mentre sfidava a spallate madri incazzate e padri di fretta che spogliavano i propri pargoli, smaniosi di liberarsene, incuranti della devastazione che causavano attorno a loro. I più talentuosi spogliavano i figli alla cieca, messaggiando al contempo su WhatsApp.

    «Non la riconosci mai, è quella con il leoncino giallo e la mia iniziale. Papà, che sbadatino che sei» intervenne la piccola Marina, con l’aria da saputella che correva in soccorso a un padre a disagio nelle risse.

    Sbadatino. Chissà dove l’aveva sentita quella parola. Eppure, nonostante l’impertinenza, quella voce, dolcemente simile a un infrangersi di vetri, era ormai il carburante di ogni sua giornata da ben cinque anni.

    Lei, salutandolo, il bacio gliel’aveva dato, a differenza della madre. Vedendola perdersi nella corrente di scolari scatenati che venivano ingurgitati nella classe, si sentì un po’ solo. Una sensazione passeggera, della durata di un solo istante, a dir la verità. Lanciando un’ultima occhiataccia alla maestra che chiudeva la porta che avrebbe diviso quello splendido rapporto d’amore per metà della giornata, si sentì alla stregua di un sacerdote che offre in sacrificio agli dei quanto ha di più prezioso. A quel punto non gli rimase altro da fare che sospirare e lasciare quel postaccio.

    Al cancello si trovò di fronte la proprietaria del suv bianco che si accomodava sul sedile.

    Decise che non avrebbe potuto farsi i fatti propri e le bussò al finestrino.

    Giusto il tempo che si abbassasse e: «Ma le sembra il modo di parcheggiare? Ha bloccato…».

    «Senta, non ho tempo da perdere con lei, chiunque lei sia. Mi stia bene.» Richiuse, girò la chiave e partì.

    «’Sta zoccola!» si sfogò.

    «È la moglie del comandante della municipale. Fa sempre così…» lo illuminò un papà che pareva rassegnato all’idea.

    «Sempre zoccola rimane!» Sentenziò, rimettendosi a sua volta in macchina. E da quel punto in poi, scattava la fase due della giornata. Era quella in cui poteva dire: Finalmente un po’ di me.

    Sigaro, cd di Chris Rea, occhiali da sole e rotta a ovest, lontano da quella triste, triste, triste città.

    «Ora sta a me, via!» Godé, imboccando l’autostrada.

    Gli ci volle più di un’ora per raggiungere la città sulla costa Toscana e circa un’ulteriore mezz’ora per oltrepassare la zona portuale.

    «Scusate il ritardo, c’era fila per un camion ribaltato» esordì entrando.

    Dal soppalco si affacciò Lucio, quello dell’amministrazione. «Lorenzo, c’è una busta per te. Sali a prenderla?»

    «Nemmeno un caffè?»

    «Lo offrirai tu a tutti noi visto che sei arrivato così tardi che sembra di essere al giorno dopo» lo sfotté sparendo oltre la ringhiera.

    «Spiritoso» finse di sdegnarsi.

    Quello fu il momento in cui nulla di ciò che sta realmente accadendo ha più importanza. Era la consapevolezza, dal retrogusto amaro, che da quel giorno in poi nulla sarebbe stato come prima. Addio giornate fantastiche con il luccichio del sole sulla superfice del mare, addio colleghi squisiti, addio spensieratezza. E, tutto ciò, lo aveva paradossalmente chiesto lui stesso.

    Si sorprese con lo sguardo basso, consapevole, forse rassegnato.

    Lucia, e le sue tettone che parevano le boe di attracco di una petroliera, uscì dal nulla e gli stampò due bei baci. «Complimenti, Lorenzo, ci mancherai.» Disse sgusciando via con i fascicoli sottobraccio. Qualche chilo di troppo sui fianchi svelava una tresca con la Nutella dal giorno in cui si era mollata con il fidanzato, a pochi giorni dalle nozze. Lei, da quel momento, aveva iniziato a dedicare attenzioni al frigorifero a cui non faceva mancare nulla, comprese le carezze, e lui la ricambiava con gustosi gelati alla crema, alla stracciatella e all’amarena…

    Il baffone di Giampiero lo centrò con un foglio di carta appallottolato. «Ti vuole il capo. A chi hai leccato il didietro per farti trasferire così presto?»

    «Pezzi grossi, amico mio, pezzi grossi. Di quelli che siedono a Roma. Potrei farti assumere alla sede di Milano se solo lo volessi» scherzò. Sarebbe stato inutile dire che nessuno sarebbe stato così idiota da richiedere la sede di Prestolle, che invece aveva chiesto lui. Quando all’ufficio delle risorse umane si erano trovati di fronte la sua istanza lo avevano perfino contattato pensando a uno scherzo. Ricevendo risposta contraria la voce della donna dall’altra parte della cornetta si limitò a rispondere: «Ah!» e riagganciò.

    Ma lui sapeva di non essere impazzito. Quella richiesta era stato praticamente obbligato a farla. Carlotta non si sarebbe mai trasferita a Livorno, i suoi interessi erano nella sua stracazzo di città. Priva di ogni mare e priva di ogni scorcio di Toscana. Avrebbero potuto fare una pubblicità all’inverso: Prestolle, la Toscana che non ti aspetti e se ci vieni, invece di vedere Firenze, sei un coglione. Mai spot più azzeccato.

    «Lorenzo?»

    «Eh?»

    «Sembri triste. Dovrebbe essere il contrario.» Sabrina, quella dell’ufficio commerciale, lo guardava incuriosita per quell’espressione torva, che era l’esatto contrario della sua, sempre raggiante. Aveva ininterrottamente provato qualcosa per lui anche se non se lo erano mai detto apertamente. Una sera, nella sede dell’agenzia erano rimasti solo in tre, lei, lui e Giampiero. Si era fatto tardi e quando Giampiero se ne andò calò un certo imbarazzo. Fu lei a rompere il ghiaccio e, dopo uno scambio di battute, con una scusa si avvicinò. Mentre con le mani gli consegnava un faldone, con le labbra lo baciava. E quando le bocche si fusero l’una nell’altra, il tempo si cristallizzò. Ma fu la consapevolezza che la cosa puzzava di malaffare a far sì che rimanesse un episodio a sé stante.

    «Mi mancherai. Mi mancherete tutti…» si limitò a risponderle.

    «Ma se sei a un’ora di macchina e poco più. Falla finita, dai che vai a stare in pianta stabile dalla tua bambina.» Gli diede un bacio raccogliendogli il volto tra le mani.

    A Lorenzo tuttavia non sfuggì che non aveva minimamente fatto menzione di Carlotta che, evidentemente, considerava una rivale.

    Anche l’altra belloccia dell’agenzia, Samantha, gli stampò due schioccanti baci disperdendo inconfondibili tracce di rossetto. Dietro le lenti da segretaria gli occhi verdi sorridevano a chiunque li incrociasse.

    Tutte quelle labbra sulla pelle iniziavano a bruciare come se diventassero l’ultima inconsapevole spinta oltre un burrone.

    Giampiero lo chiamò di nuovo indicandogli l’ufficio del capo. «Dai, non farla incazzare, lo sai com’è fatta.»

    «Ah, già. Il capo…»

    Bussò alla porta di cristallo e una voce lo invitò a entrare.

    La luce concessa dalle spaziose vetrate vivacizzava la stanza, e anche Veronica pareva avere un sorriso al posto del solito ghigno. Picchiettava con la penna sul bracciolo della comoda sedia imbottita.

    «E così ha deciso di lasciarci?»

    Lorenzo si limitò ad annuire.

    Lei storse le labbra poi le sporse esponendole al rimpianto di lui. «Non vorrebbe ripensarci?» domandò, prendendo a picchiettare la penna all’angolo della bocca.

    «Mi piacerebbe, mi creda. Ma non… non credo. Non potrei.»

    «Alle risorse umane ancora non ci credono» lo schernì.

    «Quelli della sede centrale non sono altro che burocrati» ribatté.

    «Aspetti di vedere quelli di Prestolle allora.» Pareva divertirsi a pungolarlo.

    «Perché?»

    «Lasci perdere…»

    «Meglio.»

    Veronica, detta la zarina, prese a fissarlo intensamente. Prima di ricominciare a parlare sospirò: «Noi perdiamo un gran bell’elemento. Qui tutti le volevamo bene e glielo dico non per farla sentire in colpa, mi creda non è mia intenzione. Ma per metterla in guardia: la sede di Prestolle è un nido di vipere, mi raccomando Lorenzo, stia attento. Non abbassi mai la guardia…».

    «Dice?»

    «Conosciamo bene quel posto. È evitato da tutti e un motivo ci sarà.»

    Una sgradevole sensazione di incertezza pervase l’animo di Lorenzo che non seppe se accennare un sorriso di circostanza oppure fare un vero e proprio gesto scaramantico. Nella seconda ipotesi non avrebbe fatto una bella figura, ne era certo. «Lavorerò e non baderò ad altro.» Si contenne. Una frase buttata lì, certo, ma cos’altro avrebbe potuto dire?

    «Lorenzo, mi sembra che non ci sia altro da dire e poi… a me non piacciono gli addii. Buona fortuna.» Si alzò e porse la mano.

    Fu in quell’istante che gli parve di vedere i suoi occhi velarsi di lacrime, immediatamente ricacciate con sapiente maestria. La zarina, la guardia non l’avrebbe abbassata mai.

    Si strinsero la mano in segno di commiato.

    Era un viavai di camerieri, che sfilavano in un equilibrio perfetto con vassoi colmi di spaghetti emananti fragranza di mare. Sì, perché al ristorante La rotta di Ulisse gli spaghetti alle vongole erano sempre una specialità da leccarsi i baffi. Quel pomeriggio il sole era così lucente che se si guardava oltre le vetrate tenere gli occhi aperti diventava un’impresa.

    I rostri delle navi mercantili fendevano l’acqua schiacciandola sulle murate fino a sprigionare gorgoglii lattei e spuma briosa che si nebulizzava alla brezza mite. Il luccichio che si rispecchiava nell’azzurro del mare era così forte che la superficie pareva coperta di fiamme.

    Dalla tavolata organizzata dai colleghi si levavano risate, profumi di reti, scogli e parabordi. Ci si scambiavano freddure, chiacchiere confidenziali, brindisi e convivialità. E intanto mucchi di gusci

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