Il mallo verde
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Info su questo ebook
Sono donne molto diverse tra loro, abituate alla vita frenetica e concreta della grande città. Nella casa della nonna hanno passato la loro infanzia, e i ricordi hanno un gusto dolceamaro.
Ma quella è anche una terra intrisa di antiche leggende ancora radicate nel profondo. Come quelle sulle janare, le misteriose streghe della tradizione contadina.
Se ne rende bene conto Danila, che spinta forse solo dal caso o forse da qualche gioco del destino, fa delle curiose scoperte rovistando tra gli oggetti appartenuti a Assunta. Ecco che trova un ciondolo con un albero di noce, simbolo del legame tra il reale e il sovrannaturale, e un misterioso unguento dal profumo insopportabile. E in un attimo, la ragazza si ritrova in cielo, a volare sopra i tetti e sopra i campi, libera ed esterrefatta.
Ma come è possibile? Quale segreti si nascondono nella storia di sua nonna? E che parte ha lei nel mito oscuro delle janare?
Da lì in poi, la vita di Danila prende una piega del tutto imprevedibile, e i luoghi che hanno ospitato i suoi sogni candidi di bambina divengono teatro di un nuovo, incredibile capitolo. Là non troverà solo la magia, perché dietro uno sguardo speciale, per lei ci sarà pure un inaspettato e travolgente amore. Ma non sarà affatto semplice venire a capo di tutta la faccenda, perché gli accadimenti la metteranno alla prova, e la curiosità dovrà scontrarsi col bigottismo della gente impaurita.
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Anteprima del libro
Il mallo verde - Sandra Colomberotto
lassù.
1
Partenza
Il telefono squillò: erano le sei e trentacinque, troppo presto, sì, troppo presto per smettere di dormire, mancava ancora mezz’ora su per giù.
Perché rinunciare a quei preziosi minuti? Nelle mie orecchie quel drin drin non se ne andava, anzi diventava sempre più straziante. Nemmeno il cuscino riusciva a smorzare quel suono che ormai rimbombava nella mia testa.
Era mia madre.
Appena vidi il suo nome nel display, il mio cervello elaborò la classifica delle catastrofi degne di una chiamata così mattiniera.
Uno, il suo pesce rosso non aveva mangiato i suoi fiocchi.
Due, la signora Landini, quella del terzo piano, aveva lasciato la tv accesa tutta la notte.
Tre, uno dei gatti aveva fatto la pipì fuori dalla lettiera.
Nonostante ci fossi abituata, mia madre continuava a stupirmi ogni volta con la sua maestria nel trasformare ogni baggianata in un evento epico. Avevo sempre pensato che avrebbe dovuto cimentarsi nella scrittura teatrale, avrebbe sicuramente avuto successo.
Risposi. Le sue parole nel mio orecchio presero a scorrere tanto velocemente che non riuscivo a coglierle appieno, mi giungevano solo le parti finali.
Okay, okay, ricominciamo da capo. Respira mamma, e uno, due, tre, via,
le dissi.
Avrei voluto dirle ma ti sei resa conto di che ore sono, perché non chiami le altre tue figlie?
Forse l’aveva già fatto o aveva in programma di farlo. Aspettai di sentirla respirare, cercando di alzarmi in modo da appoggiare la schiena alla testiera del letto. Detto addio a qualsiasi sogno rimasto inconcluso, la mia giornata iniziò prima del previsto.
Nonna, nonna, nonna Assunta non si è svegliata,
gemette mia madre.
Mamma, non serve che ripeti le parole, ho capito.
Oltre a questo, avrei dovuto aggiungere che se alle sei e mezzo del mattino una donna anziana preferisce dormire, e non solo lei, non c’è nulla di strano.
Nonna ha deciso di passare, di andare oltre, ci ha lasciato,
incalzò lei.
Dopodiché, il singhiozzare incessante di mia madre fece da sottofondo alla messa a fuoco di quello che era successo, ovvero del motivo, stavolta importante davvero, di quella telefonata mattutina: l’improvvisa morte di nonna Assunta.
Nel telefono mia madre continuava a parlare, ma la sua voce non veniva più registrata dal mio cervello, occupato solo a rivedere mia nonna nelle sue abituali pose, nei suoi atteggiamenti tipici, lei che era il bianco e il nero, la luce e il buio, l’acqua e il fuoco, le sue contraddizioni, il suo rendersi così opposta a se stessa in un battito di ciglia. Perché nonna era così, diversa e vulnerabile, come se dentro di lei ci fosse un interruttore on-off che ti permetteva di sceglierla buona o cattiva, bella o brutta, simpatica o stronza. Nonna era double face, reversibile come il trench di Burberry.
Mamma, soffia il naso sennò il muco ti arriverà ai piedi,
le rimproverai.
Me lo diceva sempre lei quando ero piccola, ora le parti si erano invertite e toccava a me rimbeccarla.
Fai in fretta le valigie, dobbiamo partire subito,
mi strillò nell’orecchio.
Dammi il tempo di vestirmi e arrivo,
risposi ancora seduta a letto.
Poi aggiunse: Anzi, aspettiamo le tue sorelle e poi partiamo
.
Stavo per chiederle se le avesse già avvertite, quando udii il campanello di mia madre trillare. Capii che qualcuna delle mie sorelle era stata avvisata, ma non indovinai subito chi delle tre. Così chiusi la telefonata. Mia madre era incapace di svolgere più azioni contemporaneamente, quindi se fosse rimasta a parlare con me non sarebbe andata ad aprire la porta e quel campanello avrebbe senz’altro svegliato tutto il pianerottolo.
All’uscio di casa c’era Angela, la più piccola delle quattro figlie femmine di mia madre Rosalia. Era stata chiamata per prima non perché fosse la più piccola o perché il suo nome iniziasse con la prima lettera dell’alfabeto, ma bensì perché il suo era il numero più in alto nel registro delle chiamate nel telefono di mamma. Angela l’aveva richiamata la sera prima, dopo essersi accorta di una sua chiamata non risposta, ricevuta probabilmente mentre bazzicava nei Navigli insieme alle sue coinquiline.
La medaglia d’argento quella mattina se l’aggiudicò Luciana, la primogenita, che era stata contattata per seconda. Non mi lamentai di certo del mio terzo posto, un bel bronzo equivaleva all’incirca a un quarto d’ora di sonno guadagnato rispetto a quelle che erano state svegliate prima di me.
Il dubbio che mia sorella Zoe fosse ancora all’oscuro dell’accaduto, non mi diede comunque lo spunto di chiamarla. Se fosse stata di turno in ospedale non avrebbe di certo risposto, e in ogni modo le sue parole acide e autoritarie non avrebbero giovato a mamma. Quindi continuai a pensare che non fosse ancora stata avvisata e che l’avremmo fatto in seguito. L’idea di fare il viaggio insieme a Zoe non stava comoda nella mia testa, e d’altra parte il suo bisogno di indipendenza mista a solitudine non poteva mica essere ostacolato.
Luciana stava già preparando la borsa di mamma, compito assegnato alla più anziana delle figlie. E alla terzultima quale compito sarebbe toccato?
Nel soggiorno, Angela stava seduta alla destra di mia madre nel divano rosso bordeaux; il posto a sinistra era riservato al gatto siamese di nome Pepe, mentre a Gin, gatto mezzo persiano mezzo non si sa cosa, era concessa la poltrona di pelle marrone. Io solitamente preferivo accovacciarmi sul kilim turco, comprato da mio padre a Istanbul su per giù venticinque anni prima. Lo preferivo di gran lunga ai peli imprigionati nella trama del divano e nella coperta fatta all’uncinetto da una parente mai conosciuta.
Mamma era una lacrima continua, due occhi gonfi e il fazzoletto stritolato nella mano. Lo sguardo di Angela invece era fisso sul tavolo, tra i titoli in grassetto di Novella 2000 e la foto di Luca Argentero. Ma non dava l’impressione di leggere, era piuttosto in una fase di ipnosi, come se stesse dormendo a occhi aperti. Cosa che, dato l’orario, sarebbe stata pure comprensibile. Nessun segno di sconforto, nessuna espressione di tristezza e nessun gesto di consolazione. Apatica, quella mattina di maggio Angela era semplicemente apatica.
Sentii Luciana aprire e chiudere cassetti e ante, tra un sospiro e un singhiozzo.
Mentre stavo lentamente scivolando sul tappeto, ecco due suoni che mi fecero sobbalzare: un trillo stridulo e un miagolio acutissimo. Uno era il campanello di casa, segno che c’era qualcuno desideroso di entrare; l’altro Gin, che evidentemente aveva fame.
In un’altra circostanza avrei lanciato sguardi di richiesta per condividere con qualcuno l’inevitabile destino, ma quella mattina tenni gli occhi bassi e mi limitai a sbattere le ciglia a Gin, buttando fuori l’aria dalla bocca senza attirare troppa attenzione. Aprii la porta giusto un secondo prima che Zoe si attaccasse nuovamente al campanello: la beccai con l’indice a un millimetro dall’interruttore.
Buongiorno Zoe,
cinguettai. Lei abbassò gli occhi scuri e ricambiò il saluto, varcando la porta di casa con le sue ineguagliabili falcate. Mi era sempre stato facile associare mia sorella a un bersagliere, non solo per le sue movenze, ma anche per quello sguardo fiero che le si leggeva in viso. O forse ero solo io a notarlo?
Zoe baciò mamma in fronte e senza fermarsi nemmeno un attimo, raggiunse Luciana per ultimare il reparto farmacologico da viaggio, il compito riservato alla secondogenita, non perché tale, ma per aver intrapreso gli studi di Medicina giungendo alla specializzazione in Cardiochirurgia.
Io dovetti dedicarmi al nutrimento delle bestioline di casa, nonché al settore floristico, sebbene mia madre, non avendo il pollice verde, non andasse oltre qualche piantina grassa. Presi dalla dispensa i croccantini e dal frigo il latte, e riempii le ciotole nel terrazzo, mentre Gin mi si strofinava sulle gambe. Il fragore delle crocchette fece comparire anche Pepe, che con zampate svelte si fiondò direttamente sulla sua ciotola, senza degnarmi di uno sguardo. Diedi una rapida controllata ai cactus e gli spruzzai un po’ d’acqua.
Dei felini, durante la nostra assenza, si sarebbe occupata Nives, la dirimpettaia, che avremmo avvisato solo una volta partite, per non correre il rischio di rimanere prigioniere delle sue infinite chiacchiere. Gran brava donna, aveva molti pregi e un solo grande difetto: era prolissa.
A dispetto del suo essere la maggiore, Luciana non si preoccupava di nascondere le lacrime che scendevano sul suo viso spigoloso. Era una questione di carattere, o semplicemente era perché aveva passato molto tempo accanto a nonna.
Angela ancora non aveva assimilato; Zoe aveva otto anni quando era morto nostro padre e le era stata diagnosticata l’impossibilità di piangere. E io? Con nonna Assunta avevo molte cose in comune, mia madre me lo ripeteva spesso, quasi a dover trovare per forza delle giustificazioni alle mie peculiarità, così diverse da quelle delle mie sorelle.
Quando stavo nella pancia di mamma, tutti erano convinti che fossi un maschio, anzi il maschio che ancora non era arrivato, quell’erede che tutti attendevano, credo per la faccenda della trasmissione dinastica del cognome. Quelle baggianate sulla forma della pancia, sulle rughe in viso: tutto diceva maschio. Anche quando l’ecografia aveva sancito che sarei nata ennesima