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Infernorama
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E-book294 pagine4 ore

Infernorama

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Info su questo ebook

Infernorama rappresenta l’immagine d’apertura di un dittico che muove da sette dannati dei gironi infernali e arriverà a tre beate nell’alto dei cieli.

Nero, Bestia, Artista, Versiera, Schizzo, Freño e Jojo, ognuno dei sette protagonisti del presente libro rappresenta un peccato capitale.

L’evolversi dei loro rapporti e le vicende in cui incorreranno sono la plastica rappresentazione dell’inferno sulla Terra con tutti i suoi vizi, la sua spietatezza e il suo sangue.

Infernorama è un coro di condannati, uno spaccato di vite spacciate, è ciò che succede quando la speranza si spegne.

Lasciate ogni speranza voi ch’entrate.
LinguaItaliano
Data di uscita22 dic 2020
ISBN9788868675226
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    Anteprima del libro

    Infernorama - Fabio Giagnoni

    152

    LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CHE ENTRATE

    L’abisso costituisce la vita dei sette protagonisti di Infernorama , ciascuno dei quali incarna un peccato capitale. La loro discesa all’inferno si apre e si chiude col sangue, a rappresentare un circolo vizioso da cui è impossibile scappare.

    Il tempo verbale predominante è l’eterno presente (anche storico) delle anime condannate, come preponderante è l’uso di proposizioni coordinate a imitare l’isolamento e la frammentazione - anche del convulso alternarsi dei dialoganti - delle anime costrette a scontare le sentenze senza fine delle pene infernali.

    La voce narrante principale è quella di Nero, primus inter pares della congrega, egli racconta ciò che accade al gruppo, ha l’idiosincrasia di unire parole in triplette per la loro assonanza o in crescendo. Le loro vicessitudini divengono man mano più estreme, sono ambientate in contesti urbani gelidi e desolanti: Bosco Atro, località d’origine dei Nostri, paesino di finzione situato nel sud-ovest (il basso e la sinistra ricorreranno spesso, per intuibili motivi), Roma e Praga (città nota per far parte del triangolo della magia nera). Ampi squarci sul passato dei protagonisti sono aperti nei sette capitoli dedicati alla loro dannazione, narrata ogni volta dal punto di vista di un altro di loro, salvo il caso della Superbia, l’unica che si racconta da sé, come d’altronde l’Accidia non parlerà di nessuno. Questi resoconti episodici del passato, inframezzati allo scorrere degli eventi in ordine cronologico, sono gli unici cui l’indice che segue fa riferimento, allo scopo di rimarcare la centralità degli avvenimenti che hanno portato questi giovani uomini e donne a incontrarsi, legarsi e diventare ciò che sono.

    Ogni capitolo è introdotto da una (in rari casi, e motivatamente, più d’una) citazione che ne sussume il contenuto, mentre l’opera è costellata di riferimenti numerologici, simbolici: il fuoco e l’oscurità ricorrono sovente, gli unici colori presenti sono infatti il nero e tutte le sfumature del rosso, i protagonisti divorano carne e vino, anch’essi rossi, memori di sangue ed ebbrezza omerica. Il narrato è arricchito da ricorrenti passaggi di prosa poetica, quest’impasto concettuale rende anche l’azione più vivida materia esoterica adatta a una comprensione su diversi piani. Il linguaggio agglutinante e qualche volta cacofonico rimarca la vischiosità e lo stillicidio delle pene eterne cui Nero & compagni sono condannati, è presente un uso connotativo e ben dosato di minuscole, forme regionali e giochi di parole. Tale ricerca strutturale tende a immergere il lettore nelle disavventure più divergenti e coinvolgenti al contempo: dal parapiglia delle risse alle fughe dalla polizia, dalla rapina a mano armata alle torture fisiche e psicologiche, passando per abuso di droghe, incidenti stradali, furti, stupri e omicidi. Uno dei maggiori punti di forza del romanzo è contenuto nei serrati e densi dialoghi a seconda dei casi sarcastici, politici, filosofici, artistici, storici o meramente criminali e intrisi di ribellione, negazione, (auto)distruzione, blasfemia, guerra, morte e violenza, rivolta contro se stessi e un mondo percepito come ostile, ma soprattutto contro le Sentinelle, nemici giurati dei Sette, una gang i cui membri, comportandosi disumanamente, sono teriomorfizzati a partire dai nomi. Ancora più importante è ciò che rimane fuori da una narrazione comunque realistica: l’assenza totale di sentimenti, l’atmosfera è resa emotivamente asettica dalle fiamme infernali. Pura-Potente-Putrescente.

    DRAMATIS PERSONAE

    V SUPERBIA

    IX ACCIDIA

    XIX IRA

    XXVI INVIDIA

    XXIX GOLA

    XXXIII LUSSURIA

    XXXVI AVARIZIA

    Per Enea, al Leone

    Due bevute cadute

    I

    INFERMO

    L’inferno sono gli altri

    Jean-Paul Sartre

    Rosso.

    La mia mano sinistra gronda sangue. Il suo sapore mi sbatte in faccia la strada. Gelata-nera- nemica. Mi rode come una troia rabbiosa.

    Tocco il mio volto con la destra, la bocca brucia. Non mi sono morso la lingua, poco ma sicuro.

    Non mi stupisco, non più delle altre volte, mi chiedo solo dove svaniscano ogni dannata volta i miei compari di bevute. Qualche ora fa non ero solo e di certo non sanguinavo.

    Non ci credo, finisce sempre così.

    Mannaggia a me, vivo incastrato in un circolo vizioso.

    Ma basta pensare, mi fa scoppiare la testa e ora come ora serve a poco.

    Devo sforzarmi di ritrovare la via di casa, mi aggiro dominato da buio-freddo-dolore, brancolo barcollante per zone che non riconosco.

    Un colpo di fortuna dietro una svolta e mi ritrovo davanti al portone giusto, non ero troppo lontano da casa, il pilota automatico ha funzionato.

    La mia testa pulsa, il dolore assorbe ogni energia mentale residua. Appena faccio rientro crollo sul letto.

    ***

    Riemergo dal coma.

    Ricordo solo inizio e fine serata, in mezzo un buco nero ha risucchiato lunghe ore immerse nelle tenebre dell’oblio. Sono i casi peggiori, quelli in cui arrivo a fare le cose più imbarazzanti. E pericolose.

    Spremo le meningi infiammate nel vano tentativo di richiamare alla mente uno straccio di ricordo utile a ricostruire i tasselli mancanti. Racimolo pochi istanti, dei frammenti indistinti che divampano dietro i miei occhi in fiamme e ritornano alla cenere da cui sono venuti.

    Odio passare le mie giornate a comprendere le mie nottate. D’altronde i sette giorni canonici che scandiscono la mia prigionia non sono suddivisi così a caso: è esattamente il tempo che mi occorre a riprendermi dai bagordi del fine settimana.

    Matematico pasteggiare a letto.

    La fedele boccia di grappa barricata m’aspetta quieta e calda accucciata accanto alla branda. La brandisco per il collo, rude. La prendo fino allo scolo, non che ce ne sia molta…inutile puttana. Lascio che il vetro rotoli via sul pavimento ingombro d’abiti. Il suo pur carente contenuto mi infonde la forza di scollarmi da quel catafalco che si ostina a ospitare i miei slanci in picchiata.

    Agisce in fretta la brodaglia, espatrio in cucina ancora avvolto nella coperta, svuoto il frigo già duramente provato da precedenti scorribande, riporto il malloppo dentro la cuccia fregandomene di cosa ho arraffato.

    A occhi chiusi ammazzo la fame alcolica.

    II

    CHERCHEZ LA FEMME

    Sempre invitare i guai alle feste

    Bob Dylan

    Bevendo, tutto progressivamente scompare: prima il fastidio che appesta questa mia vita insoddisfatta, successivamente le barriere che mi separano dagli altri, quindi i contorni delle cose, di tutti quelli la cui attenzione non m’interessa attrarre, dopodiché tocca alle pause tra parole sbilenche, poi l’equilibrio, alla fine io.

    Devo essermi riaddormentato dopo l’orgia cui ho sottoposto il mio stomaco.

    Rinvengo due cartoni vuoti ai piedi del letto, vinaccio da cucina risalente a ere passate. Mi riduco a trangugiare certi scarti scaduti solo dopo scuffie storiche, quando non mi resta a disposizione niente di meglio per bruciarmi le budella. Incendia prima le labbra, già arse di loro. Almeno disinfetta i solchi aperti.

    Constato come alzarsi sia un’azione che richiede uno sforzo sempre maggiore, ma provo a consolarmi dandomi buoni consigli che so per certo non seguirò, come Anice disperso nel Paese degli Stupefacenti: gli anni passano; non reggo più come un tempo; dovrei darmi una regolata e altri luoghi comuni assortiti da ottuagenario sulla medesima falsariga.

    Mi trascino davanti allo specchio del bagno. Il mio alito imbarazzerebbe un cadavere di tre giorni. Strofinarsi i denti è uno spettacolo grandguignolesco, quando posso evito: non sopporto la vista del sangue; il mio, intendo. Dopo aver intasato lo scarico con una sorta di linfa avvelenata, provo di nuovo a riempire ieri notte di qualche accadimento, i risultati lasciano a desiderare, chiedo l’aiuto del pubblico.

    Freño e Versiera erano troppo impegnati a litigare per farci compagnia ieri. Depennati. Nonostante il pomeriggio inoltrato immagino ancora nessuno degli altri sia in servizio, la mestizia di questa conclusione mi induce a ripiegare su Jojo: lei c’è sempre quando la chiamo, povera vittima. Non so cosa trovi di bello in me. Lei da par suo è la spalla su cui piango quando non c’è più nulla da ridere. Sempre più spesso. Non è l’unica donna che mi gironzola attorno, però lei lo fa senza secondi fini, per amore, è una pura, o forse la sottovaluto.

    Comunque sia per me Jojo è una sicurezza, soprattutto quando non lo merito. Per questo non resisto più di una settimana senza farla star male a causa delle mie mattane. Anche se in fondo so di non essere solo una preoccupazione per lei, ci conosciamo da prima che le mie devianze cronicizzassero. Qualche volta arrivo a pensare che sarebbe la donna ideale, fatta su misura per me, immediatamente prima di ricordare a me stesso che non c’è nessun’anima gemella, solo vicoli ciechi da non imboccare.

    Rimuovo il cellulare dalla tasca, un nuovo ventaglio di crepe arricchisce l’estetica dello schermo donandogli quel tocco di vissuto in più. Neanche ho voglia d’incazzarmi. È spento, spero non sia defunto: ne ho seppelliti già troppi. Mi protendo con sforzo sovrumano, acciuffo il cavo d’alimentazione e l’inserisco; dà qualche segnale di vita. Veglio al capezzale dell’intubato, risorge dal suo torpore, massaggio il suo ventre incrinato componendo il numero della mia confidente. La chiamo sempre dopo questi blackout alcolici; di solito per rassicurarla. Immancabilmente sortisco l’effetto contrario. Se solo non fosse già così cosciente di come la mia vita stia andando a rotoli…di carta igienica. Sporca. Oppure a papiri, pieni zeppi di geroglifici il cui significato continuo a farmi sfuggire. O ad amare rendere inintellegibili.

    Dopo una serie di squilli molesti, all’altro capo del telefono avverto quell’affanno fin troppo familiare, delle due l’una: o era là con me, nel qual caso posso averla coinvolta in casini a raffica, o qualche stronzo s’è già fatto scappare qualcosa e le conseguenze potrebbero essere anche più serie. Mentre la compiango fra me e me per come si continua a immischiare con teppa della mia risma, finalmente s’ode la sua voce: «Come diavolo stai?».

    Mesta rabbia maschera male una mole massiccia d’angoscia.

    «Come al solito: potrei star meglio» rifletto ad alta voce avendo di fronte una maschera dell’orrore che m’imbruttisce da uno specchio.

    «Ti sembra abbia voglia di scherzare?»

    «Piccola, la mia vita ha smesso d’essere divertente da almeno una decade, sebbene riesca a far ridere la gente non significa stia sempre giocando. Ora come ora non ne ho alcuna voglia.»

    «Prima ho sentito Schizzo, m’ha detto che ieri non ti si riconosceva…»

    «Da che pulpito! Secondo te da dove viene quel soprannome?»

    «Sai benissimo cosa intendo; per me puoi fare quello che vuoi, ma la volta che non ti andrà di lusso come al solito, da chi l’aspetto la telefonata quotidiana? Dall’obitorio? La tua voce pare uscita dall’oltretomba!»

    «Prima di tutto se ti chiamassi veramente ogni giorno dovresti togliermi il saluto. Secondo poi, non sono io che non mi voglio bene, è il mondo là fuori ch’è scontroso.»

    «Sì, come quella povera vittima che t’eri scelto al Pour parler , probabilmente dopo la vostra chiacchieratina è corso a suicidarsi.»

    «Problemi suoi: esattamente come i nostri amici, che mi sono compiaciuto di porgli di fronte per silenziarlo quando la sua vocetta garrula ha superato la soglia d’ascoltabilità. In realtà la mia è una missione.»

    «Decimare la popolazione di questa città?»

    «È un’idea. Siamo fin troppi a questo mondo dopotutto.»

    «Sei portato per la carriera di omicida seriale, ma come profeta non ti batte neanche Mosè.»

    «Non dire cose di cui potresti pentirti. Mosè giocava con l’acqua, almeno Gesù la trasformava in vino.»

    «Lo vedi? Ho perfettamente ragione!»

    «Taglia corto: vorrei capire cos’è successo ieri. Cominciano a mancarmi pezzi di memoria già dal pub: quando sono tornato in me sanguinavo ‒ solo ‒ in mezzo a una strada.»

    «Eravate incontrollabili. Quando il Pour parler ha chiuso, tu e Schizzo avete aizzato a puntino Bestia e siete corsi fuori urlando! Volevo seguirvi, ma hai fatto di tutto per tenermi lontana dalla tua nottata.»

    «Come vedi, ho fatto bene.»

    «Forse, ma almeno sapremmo com’è andata.»

    «Tranquilla piccola, scoprirò perché sanguinavo, in un modo o nell’altro.»

    «Fa’ un fischio se trovi i fantomatici aggressori, voglio esserci.»

    «Potrei pure esser caduto, sempre a cercar rogna tu.»

    «L’ho già trovata tanti anni fa.»

    « Touché

    Aggancio senza dilungarmi oltre, il mal di testa m’attanaglia, effondermi in conversazioni brillanti con la mia prediletta m’infligge dolore fisico, dal momento che non schiuderà le porte del mistero buffo d’ieri notte.

    Post-sbornia nemico fraterno.

    III

    IRRAGGIUNGIBILE

    Mostro: dal latino monstrum , cosa straordinaria, ogni fenomeno contro natura fra gli uomini, trae origine direttamente da monere , avvertire: quasi stia per avvertire, secondo una

    idea superstiziosa degli antichi, della volontà degli dei

    Incede-instancabilmente-inarrestabile. Come uno schiacciabrecce munito di punte a scalpello. Sembra che io esageri a descriverlo in questi termini, la truce realtà è che sto usando eufemismi per amor di brevità, nonché carità verso le orecchie più sensibili.

    Non mi sollazza dilungarmi sul mio drugo sempre pronto all’azione, nel suo caso le parole lasciano il tempo che trovano: rimangono in bocca per lo più. Non l’ho mai visto calmo-sereno-rilassato. Neppure prima del fattaccio che lo ha spinto al parossismo. Eppure, lo conosco da una vita. Già alle elementari si divertiva a tormentare i soliti bulli falliti che rubavano la merenda e gli spicci ai secchioni. Gliela faceva pagare usando le loro stesse armi, brutalmente potenziate e assolutamente intransigenti. Poi la passava liscia ricevendo l’inutile e viscida gratitudine dei graziati e il plauso sottobanco di un po’ tutto il corpo insegnanti per la sua capacità di mettere in riga con estrema facilità gentucola che spaventava anche loro. Da molti era rispettato, oltre che temuto: ragazzo integro, con un fortissimo senso della giustizia, non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Fino alla faccenda del Grangio. Ma non è il momento di rivangare il passato.

    Quando c’è da agire Bestia è il primo ad accendersi e l’ultimo a ritirarsi, cosa che non gli ho mai visto fare durante uno scontro fisico, per questo dubito fosse presente ieri notte.

    Tranne Freño, che svanisce in dissolvenza quando s’accumula troppa tensione nell’aria, chi si imbatte nei nostri volti affilati-minacciosi-truci ci pensa dieci volte prima di innervosirci ulteriormente, anche fossero un’intera muta di cagnacci attaccabrighe. I lupi veri non si addomesticano. Non tremano davanti a niente. Tutti gli altri sono cani. Non sto però parlando della classica logica del branco: dato che Freño teme di rovinarsi il faccino, siamo solo in tre la maggior parte delle volte che si arriva a menar le mani. Chi sa chi siamo ci deve almeno doppiare di numero per trovare il coraggio di spingersi fino al confronto fisico, ma i rapporti di forza sono solo apparentemente squilibrati. Ognuno di noi bravi ragazzi ha le sue idee, spesso opposte, alcune volte contrastanti, arriviamo anche allo scontro e all’insulto quando ci accaloriamo, ma se qualcun altro tocca un amico sono cazzi da cacare. Ci avventiamo sull’assalitore in automatico, non importa chi sia. Non è logica di branco, siamo una famiglia. No, Bestia non poteva essere con me ieri notte, o forse non era in lui, che è lo stesso.

    A ogni buon conto lo chiamo, anche se telefonare a qualcuno è come puntargli una mitragliatrice addosso: mentre l’altro capo squilla prendi la mira, speri di coglierlo di sorpresa e appena dice d’esser pronto lo crivelli di parole, per questo uso il telefono meno che posso e quando sono costretto a rispondere tendo a tagliar corto.

    L’esecuzione è rimandata o l’ho ferito solo di striscio, insomma è tutto tempo perso: il suo cellulare squilla e squilla, invano.

    O sta ancora recuperando le energie bruciate ieri, oppure le sta spendendo con qualche bella puledra incontrata durante le nostre peregrinazioni notturne.

    Quale che sia l’evenienza, meglio non richiamare a breve.

    IV

    QUEL TOCCO D’ARTISTA

    Chi non vive in qualche modo per gli amici, non vive in alcun modo per se stesso

    Michel de Montaigne

    Artista è un membro chiave della nostra combriccola, grazie alla sua erudizione colma sapientemente le nostre lacune snocciolando chicche su Maestri dimenticati da dio; per lo più lo ascoltiamo ammirati. Essere un gran gaudente è la sua arte principe. Sicuramente è per via di questa inclinazione che ha legato con noi ragazzi di vita.

    Eccezionalmente, ieri non era dei nostri, faceva da gran cerimoniere a una mostra underground delle sue. Letteralmente underground: le installazioni delle avanguardie artistiche richiamate dall’evento erano montate dentro un tratto di rete fognaria in disuso, appositamente riattato alla bisogna.

    Quando sono in vena di uscire come ieri sera spando il tam-tam in mezzo alla giungla per riunire i dispersi: sapevo che Artista si sarebbe liberato presto dai suoi impegni lavorativi, ma ce l’avrebbe fatta a raggiungerci in tempo?

    È il caso di verificare se ieri notte ci siamo visti o meno. Di persona.

    Non abita proprio vicinissimo, ha una villetta fuori città, arrampicata su un crinale, dovrò sopportare venti minuti di vento gelido sulla sella della mia Principessa. Così sia.

    Plano giù per le sei rampe di scale del condominio fatiscente in cui sono sepolto: l’ascensore in funzione è un pallido ricordo dei bei tempi andati, chissà quanto tempo ho impiegato a risalire stamani in quelle condizioni indecenti.

    Il cortile interno affollato come una piazza di mercato mi avvelena il sangue. Maledetti pomeriggi domenicali.

    Sgomito un po’ per farmi largo tra carrozzine parcheggiate in tripla fila, ossessi urlanti in formato mignon e burbere vecchie arteriosclerotiche. Quando le incrocio, si dolgono le mani tanto stringono al petto le miserabili borsette. Non devo avere un aspetto rassicurante.

    Guadata la fiumana umana, dopo il bagno di folla non richiesto, raggiungo finalmente il marciapiede e sfilo la collana alla fedele Principessa, la metto in moto, ingrano la marcia e un secondo dopo sono in strada. Rotta per casa di Artista.

    Mangio l’asfalto più in fretta che posso, questa storia sta durando fin troppo, non mi piace quando non ci vedo chiaro, almeno non quando sono lucido.

    I pensieri si sfaldano contro le scogliere del traffico leggero. Supero le auto impilate, scatti subitanei mi portano ben oltre i limiti imposti dal codice della strada. Semafori-vie-palazzi sfilano indistintamente nella coda dei miei occhi.

    Amo la velocità, la concentrazione data dall’adrenalina, sorpassare chi sorpassa e sentire il vento sferzarmi i capelli. Che la mia corsa possa rombare e ruggire sempre come sta facendo ora: mi restituisce alla vita. Il pensiero si espande come le esplosioni di un motore a scoppio e corre anch’esso a ciò che mi fa felice in genere: bere fra gente che beve e ama farlo almeno la metà di me, ridere tutti insieme godendoci il momento, uomini o donne, vecchi o bambini, malati o sani poco importa, visitare luoghi sconosciuti e scoprire di potermi ancora stupire, sorprendere a mia volta con la magia di cui sono capace: la conoscenza e la sua applicazione pratica, viaggiare e far viaggiare la mente, farsi ipnotizzare dai ritmi ossessivi, la danza e l’estasi, i colori, i sapori e le forme forti, la potenza del mare e del fuoco, il sole quando tramonta e la notte quando divampa, i sogni quando li vivo e la vita quando posso chiamarla tale a fronte alta. All’improvviso la mia catena di pensieri s’arresta, senza quasi accorgermene ho raggiunto la meta, in tempo per vedere la grande palla di fuoco spegnersi oltre il pendio.

    Incorono Principessa con la sua catena d’ordinanza al primo palo che mi capita a tiro e faccio la mia comparsa fuori dal cancello della magione del mio mentore, quasi fossi stato evocato in quel posto da qualche divinità della notte.

    Artista risponde al videocitofono dopo un paio di tentativi, la sua voce è roca, sottotono; qualcosa non va, e non può essere un caso.

    M’inerpico a grandi falcate lungo il sentiero che conduce all’ingresso. I miei occhi si soffermano sul giardino, la sua bellezza mi lascia ogni volta a bocca aperta, ospita arbusti e fiori rari, disposti secondo una teoria di tonalità rossastre il cui effetto è prorompente e inquietante. Ma bando alle considerazioni estetiche.

    Artista mi attende sulla soglia di casa, pronto ad accogliermi nel suo splendido, surreale palazzo, nostro abituale luogo di ritrovo. Avvicinandomi, m’accorgo del suo tetro volto diafano. Sembra più una maschera di cera che il muso del colto satiro cui sono abituato. Bingo.

    Quel cencio abborracciato che il mio ospite mostra al posto della sua solita, gioviale faccia pienotta mi lascia interdetto sul momento, ma lui spende le sue prime parole per rassicurarmi: «Tranquillo, ho risolto io».

    « Frater , esattamente cosa hai risolto? Devi sapere che di ieri ho ricordi molto vaghi in testa.»

    «Immagino… fra gli accadimenti rimossi c’è anche la tua proposta di unirmi a voi?»

    «Al telefono mi hai detto che ti saresti liberato, non so se poi ci sei riuscito, ma conoscendoti ho fatto due più due.»

    «Bene, almeno l’aggressione di quei pezzi di fango non ha leso le tue capacità intellettive. Ma accomodati pure, porto un paio di tedesche delle mie, per iniziare.» Così dicendo mi fa strada in salone, indicandomi il divano d’angolo di pelle di antilope, mentre lui si dirige verso la dispensa.

    Torna con due bionde illibate e pure secondo le leggi bavaresi del 1516: «Solo il meglio per gli amici». L’arsura mi uccide, svergino la mia dando un sapiente colpo col palmo della mano sul tappo a corona appoggiato al bordo del tavolino in radica e ne faccio fuori più della metà. Mi limito solo per non farlo rialzare immediatamente.

    «Ora va meglio! Però ti vedo troppo teso. Possibile sia andata peggio di quella volta fuori dal Hell Fire

    «Puoi tranquillamente aggiungere ieri notte alla lista dei colpi di fortuna più sfacciati, anche se nessuno dei due ne è uscito indenne.»

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