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Dalla Corea del Sud - Tra neon e bandiere sciamaniche
Dalla Corea del Sud - Tra neon e bandiere sciamaniche
Dalla Corea del Sud - Tra neon e bandiere sciamaniche
E-book195 pagine2 ore

Dalla Corea del Sud - Tra neon e bandiere sciamaniche

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Info su questo ebook

L’alloggio di Johyeon a due ore d’autobus da Seul e incastonato nel campus universitario è un surrogato del pianeta. Maria si trova a vivere in compagnia di altri professori, come lei attoniti e sradicati, provenienti da ogni parte del globo.Ma quella Corea è una sorpresa, una quotidianità fatta di inchini, inchini e inchini, di tradizioni trasferite dal passato alla contemporaneità fortemente tecnologica di un paese in pieno sviluppo, dove le bandiere sciamaniche sventolano sopra le “tre stelle” della Samsung (Sam Sung significa tre stelle). La nostra ricercatrice, in quattro anni, passa dall’estraneità totale della straniera sempre linguisticamente in svantaggio a un’empatia per le fantasmagorie e le tante ossessioni di un paese misterioso a forma di tigre.Maria si immerge nel quotidiano, a contatto con la gente, condividendo luoghi e abitudini, fino a capire, a integrarsi, “Perché in fondo qui ci sto bene”, tanto che al momento di andar via pensa che potrebbe anche avere nostalgia del kimchi, il cibo totemico dei coreani.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788898848676
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    Anteprima del libro

    Dalla Corea del Sud - Tra neon e bandiere sciamaniche - Maria Anna Mariani

    Scritti Traversi

    DALLA COREA DEL SUD

    Tra neon e bandiere sciamaniche

    di Maria Anna Mariani

    DALLA COREA DEL SUD

    Tra neon e bandiere sciamaniche

    di Maria Anna Mariani

    © 2017 - Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 73 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Collana Scritti Traversi

    ISBN 978-88-98848-67-6

    Impaginazione omgrafica, roma

    Fotografie Maria Anna Mariani

    Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o

    a persone realmente esistenti è puramente casuale.

    Presbiopia ambulante.

    UNA CERTEZZA UNIVERSALE

    È un surrogato del globo questo dormitorio di uegughì, di stranieri, venuti qui dalla Tanzania alla Georgia e dal Messico all’Indonesia per divulgare versioni disossate della loro lingua.

    Arrivano qui con le vene striate di vaccini, perché la Corea del Sud non se la immaginano e allora sono partiti inquieti, hanno addirittura fatto delle iniezioni specialissime, introvabili nella loro città e perciò sono andati nella capitale, alla ricerca del laboratorio che custodisce il siero contro l’encefalite giapponese, una malattia mortale, rarissima ma mortale, provocata da una zanzara che perturba le risaie del sud-est asiatico. E in quel laboratorio di veleni salvifici un’infermiera li avrà distratti dalla persistenza dell’ago nel braccio, predicendo per loro un futuro coreano fitto di avventure con scimmiette appostate a ogni crocicchio, pronte a mordere la tenerezza delle cosce.

    E così partono indeboliti, trascinandosi dietro una valigia ripiena di grammatiche e medicine e gli occhi già pronti a inondarsi di una fauna stridula e fiabesca. Ma di scimmie in Corea del Sud non ne vedranno mai, perché non esistono, e subito trovano invece un aeroporto scintillante, col pavimento così lustro da volercisi strusciare con tutto il corpo, come in un balletto contemporaneo, e che da sette anni consecutivi è considerato il migliore del mondo.

    Indugiano seguiti da una valigia che è il distillato di tutto l’essenziale e che però non è mai abbastanza, e comunque è piena quanto può di campioncini della patria, di gadget degli affetti e della cura. L’avranno preparata con l’angoscia del clima, che questo per davvero è stridulo e fiabesco. Se cominciano a insegnare nel primo semestre arriveranno a febbraio, quando ci sarà ancora un freddo ispido che si protrarrà per un altro mese e più, invadendo anche gli spazi della primavera e che sarà possibile tollerare solo grazie all’incanto teorico dell’animismo, che spiega il fenomeno come la gelosia dell’inverno per la nuova stagione, che gli ruba i fiori e li feconda.

    Saranno invece salutati dal monsone se cominciano il lavoro nel secondo semestre, caso più raro ma comunque possibile, per rimpiazzare magari qualcuno che all’improvviso è dovuto tornare nel proprio paese: per un lutto, una malattia, un divorzio, una promozione – o piuttosto una certa stanchezza, la sensazione di essere sempre più astratto e traforato, la percezione che lo spaesamento abbia graffiato così malamente da aver intaccato tessuti essenziali, e allora prima che sia troppo tardi cerca di rimettersi insieme, di medicarsi le orecchie e la lingua e di far riposare un po’ la memoria.

    Di tornare per ricucirsi è successo due mesi fa a Florian, di Brema: trafitto dal ritornello sui Quattro Musicanti. Alto e sottile Florian, e fanatico nelle sue scalate montane. Amava per questo la Corea che di passeggiate è un reame; davvero all’inizio la amava. Ogni mattina prima delle lezioni scalava creste di collina, e questo dopo aver già salutato il sole con un esuberante ciclo di Yoga Ashtanga. Camminava foderato di Gore-Tex e sospinto dalle racchette norvegesi, per un’ora e poco più, e così portava a spasso la testa e pensava ad alta voce in modo liquido nella sua lingua, la sgranchiva e la faceva galoppare, prima di rimetterle le briglie per la lezione.

    Passeggiava Florian, e intanto si cresceva anche un orto nei vasi, piantando tanti semini che poi germogliavano veloci, finché spuntava un cetriolo così commestibile che veniva voglia di fotografarne i progressi con l’iPhone e poi di esibirli, non per orgoglio analogico, ma per tamponare un vuoto improvviso della conversazione, mentre insieme a una collega scalava la lunga salita del campus.

    Un vuoto della conversazione, sì, perché cosa mai puoi dire per più di venti minuti a una collega siberiana che naturalmente il tedesco non lo parla, il coreano ma non scherziamo e l’inglese solo un po’, giusto per orientarsi, per non morire di colite all’estero. E se come Florian sei stanco di violentarle le lingue, allora ti affidi anche alla foto di un cetriolo che cresce, che si ispessisce la buccia e la irruvidisce di bitorzoli lunari. Meglio questo che ripetere ancora che fa freddo (a una siberiana!) o che è troppo umido, o chiederle quante ore insegna domani, se pranza alla mensa, come sono le matricole.

    Invece di logorare frasi già smunte ecco allora il soccorso di questo cetriolo che cresce rapido nelle foto telefoniche, nell’arco di cinque scatti è già passato da seme a rotolo e quasi è pronto per essere sbucciato e tagliato a listarelle, per poi tuffarsi nel brodo dei Naengmyeon, un brodo gelido, croccante di ghiaccio triturato, dove insieme a lui cetriolo galleggerà un nodo di spaghetti marroncini lunghissimi, i Naengmyeon appunto, che per mangiarli signorilmente devi essere un giocoliere, e che dopo un anno e mezzo di vita coreana possono ancora sfidarti beffardi, mentre cerchi di arrotolarne un gomitolo di proporzioni gestibili dal tuo palato.

    Ma accetti ogni volta la sfida, perché i Naengmyeon sono buonissimi e soprattutto sono fatti di grano duro, e se li mangi davvero tutti dopo potrai scalarlo anche per intero il campus, incurante delle conversazioni che non smettono di squarciarsi, perché avrai una scorta di carboidrati nello stomaco e sentirai che quell’energia piano piano passerà alle tue gambe. E siccome i carboidrati bruciano lenti pure in Corea del Sud, l’evidenza abbacinante di questa legge universale ti darà una rassicurante – seppur momentanea – pace; una pace che qui non potrà essere altro che una lunga, strattonata tregua.

    NON FIDARSI È MEGLIO: UNA GUIDA METEOROPATICA

    Florian è tornato a Brema, Tanvir è di nuovo a Calcutta e l’anno prima Andrei è tornato a Bucarest e Zoe a Calgary (o era di Toronto, Zoe? È partita all’improvviso, chissà perché). Ma nella Babele stipendiata restano ancora tanti professori, a ogni semestre ne arrivano di nuovi e magari alcuni stanno scoprendo proprio ora, con sgomento, che il dormitorio dove sono destinati non è a Seul, ma a Johyeon, sprofondato nella campagna sudcoreana e poi incastonato nel campus, dove la lingua d’uso è quell’inglese che si cristallizza in convenevoli, quell’inglese scarnificato che David non sopportava più. Lui per questo è tornato a Rochester, anche se in fondo in Corea ci stava bene perché almeno qui il dottorato a qualcosa gli serviva e invece a Rochester no, ma ormai il visto non ce l’ha più e allora lì rimane.

    Questo inglese le conversazioni le squarcia, eppure nel dormitorio non c’è silenzio, non esiste più il silenzio, il dormitorio non smette mai di risuonare. Risuona intimamente, di segreti e di ardori espressi in quelle lingue madri che a lezione possono essere solo balbettate, ma che qui dentro si rifanno e sussurrano al telefono, litigano via Skype, cantano al risveglio dentro bocche schiumanti di fluoro. Intanto la lingua coreana rimane in eterno un rumore di fondo, un geroglifico che lampeggia sulle lavatrici.

    Se gli abitanti del dormitorio non fossero così pigri il coreano potrebbero studiarlo nel tempo libero. Ma se il tempo libero ha il diametro di un coriandolo allora diventa la piattaforma di attività un po’ più aeree. E infatti c’è chi scala montagne, come faceva Florian e c’è chi ancora lo fa, perché non tutti partono, perché si sta anche bene qui, e poi quelli che partono per ritornare in patria un lavoro all’università non lo trovano più, perché le accademie occidentali hanno l’artrite, mollano la presa e ti schiantano nel vuoto. E allora è inutile che nel tempo libero qualcuno si metta a fare ricerca, non vale più la pena. Così c’è chi impara a meditare, medita tutte le mattine e adesso vive meglio, dice, e c’è chi compra su internet una bicicletta pieghevole che non userà, ma che è comunque bella e leggera e si può portare pure in autobus, Johyeon-Seul un’ora e mezza di autobus, a volte due, a volte tre, più il ritorno. E poi c’è chi nel tempo libero scrive email agli amici lontanissimi, anche se a volte preferirebbe piegare origami e non pensare a nessuna parola, in nessuna lingua.

    L’ultimo chi sono io. Mi chiamo Maria Anna, ho trentuno anni ma in Corea trentadue, perché qui la vita di un individuo inizia dalla fecondazione, dilatando a dismisura quelle già vertiginose otto ore di jet lag. Jet lag però voglio dirlo in italiano e allora ecco, dico discronia e mi si guasta di nuovo il sonno, come dopo l’aereo, come ho scritto da qualche parte nelle email inviate in questi anni ai miei amici rimasti in Italia e che prima di partire mi dicevano: ma dove vai, ma sei matta, ma lì sopra c’è Pyongyang e quelli sono matti davvero e poi come farai a comunicare, come. Ma col dottorato in Italia che ci faccio? dicevo io e infatti dicevo bene e così in un lampo ho deciso: parto. Papà, sorella, amici, sentite ho deciso: parto. Poi vi mando le mail, poi vi racconto.

    E da qui le mando per davvero queste email, che sono email egoiste perché non dico mai: cari miei come state mi mancate tanto ora vi saluto firmato Maria Anna. Sono email che servono a me, per farmi succhiare un po’ di metafore e per ridermi addosso, ma non sono un diario, perché voglio risposte, voglio parole altrui che riverberino le mie. Il diario è solipsismo ottuso e le email invece no, sono un legame, un uncino nel mio vecchio mondo, e allora a questo vecchio mondo gli invado la posta di spaesamento e di Corea del Sud – con le sue fantasmagorie e i rituali, con le sue estasi e le sue tante ossessioni.

    Sono una testimone pressoché sorda di questo paese misterioso, che sulla mappa è a forma di tigre e come una tigre balza in avanti col suo PIL che si espande feroce – anche se i giapponesi pensano invece che la Corea sia rattrappita come un coniglio. Tensioni geopolitiche delicatissime divampano lungo i profili di questi animali: provateci voi a soffocare il ruggito, perché io il sentimento patrio mica lo offendo.

    Di questo paese così orgoglioso sono una testimone sorda, dicevo: le parole in coreano mi rimbalzano sulle orecchie, eppure all’inizio volevo davvero carpirle, studiavo tanto, miglioravo e capivo. Ma sono incostante io, sono capricciosa. E se volete che vi faccia da guida turistica dovete prendermi così: parzialissima, irrequieta e meteoropatica. Per protestare strappandomi le ciglia dovrete volare fino a Johyeon, dove ancora me ne resto senza sapere bene quanto, e adesso scrivo solo

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