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E-book279 pagine4 ore

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Info su questo ebook

L’amicizia tra Serenity, Gengys, Steve e Fatima nasce tra i banchi di scuola mentre nel mondo intorno a loro appaiono segni di minacciosi cambiamenti… Imponenti mura iniziano a circondare le città, uno spietato piano di dimezzamento della popolazione mondiale li renderà presto soli e costretti a fuggire… riuscirà Pink Opalino, hacker geniale, a mettere in salvo l’umanità?
Per riflettere sul valore e la fragilità della democrazia, non senza un sorriso.
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2020
ISBN9788835803577
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    Anteprima del libro

    Amen - Giorgio Polo

    Giorgio Polo

    Amen

    Edizioni Effetto

    www.edizionieffetto.it

    Giorgio Polo

    Amen

    ©Edizioni Effetto

    tutti i diritti riservati

    Prima edizione digitale aprile 2020

    Copertina: progetto grafico di Roberta Sanna, immagine di Giorgio Polo

    UUID: f62d73b1-e1df-4def-8fd5-a79e6a23c2ed

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    1 Ogni cosa ha un inizio

    2 Con la cultura non si mangia

    3 L’odore delle iene

    4 Che cosa farò da grande

    5 Il re del mondo

    6 Il maiale e la scimpanzessa

    ​7 Le Chariot

    8 L’Orco Tzerregosu

    9 Un posto dove stare

    10 La mamma è sempre la mamma

    11 Il capitolo venuto male

    12 La zona verde

    13 L’isola dei ’nfamoni

    14 La carovana

    15 The winner is...

    16 Gorom-Gorom

    17 Nel mondo di sotto

    18 Amen

    19 Gli Annali di Garcia

    20 E poi c’è un nuovo inizio

    21 Nontiscordardimé

    Note

    Ringraziamenti

    A Franco Montis,

    Maurizio Perniciano,

    e a tutti i coltivatori di sogni

    1 Ogni cosa ha un inizio

    La nascita di Serenity fu l’ultima parola scritta di una poesia lunga sette mesi e ventidue giorni. Il suo concepimento avvenne al termine di una felice e intensa giornata, che coincideva col primo anniversario di matrimonio dei genitori. La mattina di quel giorno sua madre Eleonor aveva conseguito il diploma in violoncello, dopo anni di studi al Conservatorio. La sera, suo padre Jean aveva inaugurato la prima personale di pittura, dopo un lungo periodo di dietetico e variopinto anonimato. Più che un concepimento fu un brindisi fra due cellule.

    Durante la gravidanza capitava assai spesso che Eleonor si esercitasse nell’esecuzione dei suoi brani preferiti, le sei suite di Bach, stando seduta a pochi metri di distanza dal cavalletto del marito, mentre lui era intento a dipingere. Così Serenity cresceva immersa in una stupefacente bolla di onde armoniche, nel cui cielo colavano delle iridate aurore boreali. E più passavano i mesi, più le vibrazioni si facevano vicine, sino a quando il pancione della madre arrivò ad adagiarsi sulla cassa di risonanza del violoncello, e divenne un tutt’uno con lo strumento. Altra cosa che Eleonor amava fare erano le passeggiate nel giardino della loro casa di campagna. Nelle intenzioni iniziali quell’abitazione avrebbe dovuto fungere da soluzione temporanea. Infatti era stata scelta, almeno in parte, per ripiego. Appena un anno prima i due non avevano certo le possibilità economiche per permettersene una in città. Che dopotutto non era così lontana, appena venticinque chilometri. Ma dopo sole poche settimane di permanenza, i due s’innamorarono talmente di quel gioiellino incastonato tra i boschi che per loro divenne impensabile trasferirsi in un altro luogo. E dal momento esatto che Eleonor ebbe coscienza di essere incinta, prese l’abitudine di parlare ad alta voce con sua figlia e di illustrarle, durante le lunghe camminate per il giardino, ogni cosa, ogni colore, ogni suono e ogni odore presente in quel piccolo paradiso.

    «Senti che bel profumo? Questo è il gelsomino dai piccoli fiori bianchi, che ricopre il muretto a secco al fianco del ruscello, che suona questa musica rilassante mentre scorre a valle. Un po’ più giù c’è un piccolo salto dove si forma persino una cascatella, e dove si può trovare frescura anche nelle giornate d’agosto. Invece quello lì in fondo, nel mezzo del giardino, è zio Totore. Lui è molto anziano, ma è ancora forte come una roccia, ed è sempre indaffarato, in ogni stagione. Ora si sta prendendo cura dei fiori.»

    Durante le escursioni, a loro si univa spesso Debussy, un cane d’imprecisata razza che era stato adottato da qualche mese. Arrivava scodinzolando e stava ad ascoltare le lunghe descrizioni di Eleonor, che sottolineava di tanto in tanto con entusiastici «Woff! Woff!»

    «Hai ragione Woff. È proprio fantastico» pensava l’inquilina del pancione, che non vedeva l’ora di conoscere tutte quelle meraviglie più da vicino. Attendere addirittura nove mesi le pareva davvero troppo. Sette mesi e ventidue giorni le sembrò un tempo ragionevole.

    Fu proprio durante una delle innumerevoli passeggiate che si ruppero le acque. Giusto il tempo per Eleonor di emettere le grida che richiamarono il marito, il tempo per lui di accorrere, andare di corsa a cercare le chiavi dell’auto disperse nel creativo caos di una casa di artisti, e Serenity aveva già fatto tutto. Veloce e liscio come l’olio. Nacque sopra un morbido plaid in un giardino immerso nel tepore primaverile. Sentì la morbidezza delle mani che la sollevavano e la pelle liscia del suo visino si distese in un’espressione sorridente.

    «Ciao! Tu devi essere quella tipa simpaticissima che fa da Cicerone, vero? Beh, quand’è che mi presenti zio Totore? Ah, un’altra cosa... avresti per caso del latte da prestarmi?»

    Il travaglio in seguito al quale venne alla luce Fatima durò otto ore esatte, in pieno rispetto delle norme per la tutela dei lavoratori. Perché questo era soprattutto sua madre Igiaba, una grande lavoratrice. In casa e nella piccola fabbrica dove aveva trovato impiego. Quando c’era da lavorare lavorava, senza farsi troppe domande, perché le cose che bisogna fare vanno fatte. Il viaggio che aveva portato lei e suo marito Mohamed sull’isola era durato invece ben due mesi. Avevano attraversato la foresta, il deserto e infine il mare. Tre giorni di traversata su una carretta colabrodo, stipati con altre centinaia di persone in cerca di speranza. Perché quando fuggi da una guerra, una speranza, per quanto piccola, è già meglio di niente. È l’unica cosa che ti tiene vivo mentre vedi che molti dei tuoi compagni non ce la fanno. E si perdono per strada. E si perdono in mare. Neppure le capivano, loro, le ragioni di quella guerra. Ma quando c’è da scappare si scappa, senza porsi inutili domande. Come formiche alle prese con uno scarpone che si abbatte sul formicaio. Non si domandano mica quale sia il senso dello scarpone, a chi appartiene, se il suo possessore l’ha fatto apposta oppure per sbadataggine. Non si chiedono se è maschio o femmina, quale sia la misura del piede e di che colore sia il calzino dentro lo scarpone. Fuggono. Disperatamente. In tutte le direzioni. Perché non sanno quale sia la direzione giusta. Non sanno se lo scarpone colpirà di nuovo, né da quale parte del cielo potrebbe piovere. Fuggono semplicemente. Nella speranza di sopravvivere. Di poter tornare un giorno al formicaio, o di poterne costruire uno nuovo da qualche altra parte.

    Perciò quando c’è da scappare si scappa. Quando c’è da lavorare si lavora. E quando c’è da nascere si nasce. Senza porsi inutili domande. Così fece Fatima. Venne alla luce dopo otto ore di travaglio, perché nascere è un lavoro, e pianse liberando i suoi piccoli polmoni. Perché così andava fatto.

    Dal preciso momento in cui lo spermatozoo FL3006788 fu lanciato nel canale vaginale, insieme con altri svariati milioni di simili che, come lui, si trovavano imbarcati nel liquido seminale del fisico nucleare Frank Loddo, cominciò il suo lungo viaggio di avvicinamento verso l’unico ovulo maturo situato nella porzione ampollare della tuba sinistra di Jasmine Cabiddu, brillante matematica teorica di rinomata fama. Tracciò con estrema esattezza la migliore traiettoria per percorrere una distanza paragonabile, con le dovute proporzioni, a quella che separa l’uomo dalla luna. Quando giunse in prossimità dell’obiettivo, dopo un’estenuante odissea irta di pericoli e di ostacoli, appena trecento compagni di viaggio erano sopravvissuti. Calcolò con cura quale parte della grande membrana esterna dell’ovulo avrebbe potuto penetrare con maggiore probabilità, e che quantità di acrosina sarebbe stata necessaria per riuscirvi. Quindi s’intrufolò con successo. E mentre la grande membrana diventava immediatamente impermeabile a ulteriori e inutili tentativi d’intrusione, lo spermatozoo si diresse attraverso lo spazio perivitellino verso il nucleo centrale, dove lo attendeva l’ovocita per un meeting riproduttivo. Spesero qualche microsecondo in garbati convenevoli e preliminari, durante i quali dissertarono della misteriosa natura dei numeri, e infine si fusero insieme per dare origine alla prima cellula di una nuova vita, lo zigote. Steve per gli amici. Che da subito si applicò assiduamente nelle divisioni, nelle moltiplicazioni e nell’insiemistica, così da trasformare in breve tempo la sua primitiva natura di essere unicellulare in quella di organismo complesso, composto da insiemi di cellule sempre più specializzate. E quando comparvero finalmente i primi neuroni, questi furono immediatamente in grado di elaborare l’equazione per calcolare con esattezza il tempo necessario per una maturazione ottimale di quell’insieme di nome Steve, corrispondente all’idea astratta del sé. Secondo i risultati dei suoi calcoli, che differivano da quelli di Naegele per il solo motivo che dall’interno non si è ancora in grado di reperire dati utili circa le ultime mestruazioni della propria madre, il tempo ideale era trentotto settimane, pari a duecentosessantasei giorni. Periodo trascorso il quale, ovviamente, lui venne alla luce. Nel mentre che l’ostetrica lo sollevava, con l’intenzione di dargli una ripulita prima di porgerlo alla puerpera, Steve elaborava un algoritmo capace di definire, con buona approssimazione, quale tra le diverse ombre indistinte presenti intorno, fosse quella fornita delle tette adatte a soddisfare i suoi bisogni.

    Gengys nacque il primo novembre 2027 e faceva un freddo cane. Nacque rugoso come un gheriglio di noce, teso come un arco, viola come una melanzana e incazzato come un drago ferito a morte. Di padre ignoto, poiché sua madre Penny Canu, oltre che una ricercata tattoostilista per VIP, era anche un’inguaribile collezionista di fidanzati. Fanatica sfegatata del Krock House, per tutti gli interminabili mesi di gestazione l’aveva torturato, sparando a manetta un brano dopo l’altro di quella musica ossessiva e infernale. Peraltro, a dispetto del nome, il suo impianto domestico Tenderly superava agevolmente i cento decibel. Assai di frequente, tra un’eccitante lattina di Jumpy Bull e un fitness ben ritmato, lei andava a poggiare il suo pancione contro una delle casse acustiche. Con amorevole spirito materno. Nella convinzione di trasfondere così la sua grande passione e di fare la cosa più gradita a quell’essere che andava formandosi dentro di lei. Il quale, puntualmente, cominciava a dimenarsi come un forsennato.

    «O Lello! Vieni Amo’, vieni a sentire! Cosino sta ballando! Senti come gli gusta! E come va a tempo! Che bravo che sei! Appena nasci, ti sparo un bel tatuaggino sul pancino e poi te ne aggiungerò uno al mese! Così alla fine somiglierai al mitico Giank Pedditzi dei Delirium Fremens, questo qui che stai ascoltando ora e che ti piace tanto!»

    Ovviamente l’agitarsi scomposto di Cosino tutto avrebbe potuto dirsi fuorché una danza. Al di là dell’effetto che avevano su di lui i litri di Jumpy Bull che Penny si scolava quotidianamente, in quelle occasioni, se solo avesse avuto a disposizione un manico di scopa e una voce già efficiente, avrebbe violentemente battuto alle pareti della sua prigione, sbraitando con tutta la rabbia possibile contro i mondi confinanti: «Maledetti brutti stronzi, chiunque voi siate! La piantiamo con questa musica di merda?»

    Andò un po’ meglio l’ultima settimana del nono mese. La rottura del fidanzamento con Lello e l’inizio della breve ma appassionata storia con Cicci furono seguiti da un altro importante avvenimento. Delle piccole perdite, che Penny aveva notato al termine di un’estenuante sessione di zumba fitness. Il giovane ostetrico-ginecologo di fiducia, convocato urgentemente in tele-meeting, le fissò una visita a domicilio per il giorno seguente. Quando si presentò all’appuntamento, dopo avere suonato al campanello che replicava fedelmente il famoso rutto a fiato continuo di Benny Badman, fu accolto dall’immagine di una sudatissima balena in calzamaglia che tracannava un eccitante energetico ghiacciato, e da un assolo di chitarra epilettrica del mitico Giank, così potente da spettinargli i capelli all’indietro. Sgranò gli occhi basito, poi guadagnò faticosamente il salone, remando contro quell’ondata sonora dai bassi monotoni e impietosi che lo sospingeva a ritroso: TUM-TUM-TUM-TUM.

    «Ma ascolta spesso la musica a volume così alto?» le domandò preoccupato.

    «Come?» rispose lei.

    «Ho chiesto se ascolta spesso questa roba a volume così alto?» ripeté il giovane, mentre con lo sguardo cercava disperatamente l’origine dell’inferno.

    «Come?»

    «Ho detto se questo schifo di…»

    Fu allora che scorse l’impianto a parete. Si fiondò ai comandi e spense tutto bruscamente. Assaporò con un lungo sospiro l’improvviso silenzio, disturbato solo da quel ronzio alle orecchie che lo avrebbe accompagnato per altri due giorni, e quindi si voltò verso la gestante, inchiodandola con l’indice puntato e fulminandola con lo sguardo.

    «Allora signora, mi ascolti bene, sino al giorno del grande evento se ne dovrà stare tranquilla a riposo... Niente ginnastica fino al parto. Niente bevande energetiche fino al parto. Niente Krock House fino al parto. Se proprio vuole ascoltare della musica metta questa» aggiunse, porgendole una music card che teneva nel taschino «e al massimo a un quarto del volume.»

    «Cos’è?» domandò lei un po’ delusa.

    «Mozart.»

    «Non li conosco... E sono bravi?»

    Perciò, dal ventiduesimo giorno del nono mese, le cose per Gengys andarono decisamente meglio. Smise di sentirsi sovraeccitato e sballottato come un naviglio tra i marosi. Le vibrazioni del suo universo liquido cominciarono a cullarlo e a trasmettergli un senso di pacifica armonia, fino allora sconosciuto. Si lasciava dondolare in quel nirvana e, memore dell’inferno vissuto nei mesi precedenti, decise che si sarebbe barricato lì, e che quella sarebbe stata la sua vita per sempre. Infatti, il quattordici ottobre, data prevista per il parto, le acque non si ruppero. L’unica cosa che si ruppe quel giorno fu il fidanzamento della madre con Cicci. Neppure la settimana a seguire ci fu il benché minimo segno di novità. E neppure la settimana appresso. Fu a quel punto che il giovane medico decise che era il caso di prescrivere il ricovero e di indurre il parto.

    Di punto in bianco Gengys sentì il suo nuovo universo perfetto scivolare via. Tentò in tutti i modi di fare resistenza, puntellandosi alle pareti e aggrappandosi al cordone. Fin quando, nonostante i suoi inutili tentativi, il cielo si squarciò sopra di lui e due mani gommose lo estirparono a forza. L’armonioso tepore liquido che cominciava a piacergli tanto non esisteva più. Appena assaggiato e già glielo avevano rubato. Ormai stava immerso in una luce accecante e in un freddo di galera, poiché proprio il giorno si era rotto l’impianto di riscaldamento dell’ospedale. Tenuto sospeso a testa in giù e con le palle che già gli turbinavano a mo’ di eliche. Qualche stronzo gli stava pure battendo la schiena. Ciò che emise non fu un pianto, fu un grido di disperata rabbia senza fine. Tanto forte da far tremare le vetrate. Così, mentre quella sirena straziante saturava la sala, ogni cellula del suo corpo era impegnata ad annotare con cura, nella propria minuscola memoria, un numero sufficiente di motivi per odiare quel nuovo mondo e tutti gli esseri che vi erano contenuti, da lì ai giorni a venire.

    «Però! È bruttino ma ha una bella voce, eh?» disse l’ostetrico ridacchiando.

    «Non capisco un cazzo di quello che dici, ma vedi comunque di andare affanculo, pezzo di merda sfocato» pensarono le cellule di Gengys.

    2 Con la cultura non si mangia

    Viaggiare sul bus diretto alla scuola cittadina nella quale era stata iscritta, era per Serenity una bellissima novità. Innanzitutto era giallo, e il giallo era senza dubbio il suo colore preferito. Beh, a onor del vero anche il rosa era il suo colore preferito. E il verde, l’azzurro, l’arancio, il rosso, l’indaco e il violetto. Però insomma, il giallo le piaceva proprio moltissimo. Inoltre il bus era pieno zeppo di bambini e bambine della sua età, tutti felicemente chiassosi ed elettrizzati da quel primo giorno di scuola che li attendeva all’arrivo. Quasi tutti. Ce n’era uno, seduto due file più indietro, che continuava a dondolare il capo con aria afflitta e a piagnucolare voglio mamma. A Serenity questo fatto risultava assolutamente inspiegabile. Com’era possibile che quel bambino non fosse felice di andare a imparare cose nuove? Lei stava letteralmente friggendo di eccitazione e curiosità. Aveva dovuto attendere ben sei anni. La mamma le aveva raccontato che ai suoi tempi anche i bambini più piccoli andavano a scuola. In effetti i servizi delle scuole materne e quelle dell’infanzia avevano funzionato sino a cinque anni prima. Poi, nel governo, era stato nominato il nuovo primo ministro, nonché ministro a interim et semper dell’economia e delle finanze: Silvestro Duecolli, con mandato diretto da parte della Banca Unica Mondiale, e assoluto potere di controllo sul portafoglio di tutti gli altri ministeri. Aveva ricevuto il gravoso compito di rimettere un po’ in sesto il disastroso bilancio nazionale, e ciò comportava la necessità di effettuare drastici tagli alla spesa pubblica. Ma non avrebbe certo potuto tagliare i finanziamenti per i bombardieri e le portaerei. Chi glielo avrebbe spiegato poi, agli amici d’oltreoceano? E poi quegli investimenti garantivano ricche tangenti. Per lo stesso motivo non avrebbe certo potuto mandare all’aria il progetto della costruzione del ponte che avrebbe unito la Sardegna alla Toscana, garantendo tra l’altro la tanto sospirata continuità territoriale. Figuriamoci. Gli amici della Zavorra si sarebbero pure incazzati. E quelli ti fanno saltare in aria per molto meno. Alla fine decise perciò di dare una bella strizzata di cinghia ai settori più improduttivi e inutili. La salute, per esempio. Perché se uno la perde, vuol dire che è stato distratto. Che poi, campare sino a cent’anni non è certo naturale. A seguire, il welfare. Primo, perché ha un nome assurdo. Secondo, perché se qualcuno vuole riposare, è giusto che il riposo se lo paghi. E se invece è stato licenziato, qualcosa avrà combinato di sicuro. L’educazione e l’istruzione. Perché quello è innanzitutto un compito delle famiglie. Lo Stato può assicurare un’istruzione di base con il servizio della scuola elementare, così che tutti imparino a leggere, scrivere e far di conto. Ma asili, scuole dell’infanzia, medie, superiori e università si possono benissimo dare in mano ai privati.

    Insomma, garantire l’istruzione va bene, ma se si pretende di averne in misura esagerata la si paga come qualsiasi altro prodotto del mercato. Dulcis in fundo, la cultura. «Con la cultura non si mangia», aveva spiegato il ministro nella seduta di presentazione del suo piano di vendita del ricco patrimonio artistico. In soli sei mesi furono dismessi tutti i teatri, sciolte le orchestre, revocati i finanziamenti per lo spettacolo e l’editoria – Basta con questi libri di carta, oggi c’è Intenet! – ceduti tutti i parchi nazionali alla Zavorra per la realizzazione di innovativi progetti di smaltimento rifiuti, e venduta una grandissima quantità di beni archeologici. Persino Pompei e il Colosseo furono smontati pezzo per pezzo, e ricostruiti perfettamente a Dubai, a fianco della piramide di Cheope e dell’Acropoli.

    Che con la cultura non si mangia lo impararono ben presto anche i genitori di Serenity. Eleonor e Jean divennero pendolari dell’arte, costretti a cercare contratti e opportunità di lavoro al di fuori dei confini nazionali. Ma, pian piano, anche aldilà della frontiera si diffusero le medesime politiche. Come dire: paese che vai, Duecolli che trovi.

    Un coacervo di zainetti e di bambini urlanti eruttò dal bus, davanti al recinto del cortile scolastico, nel disordine e la confusione di chi ancora non sa bene dove deve andare. Finché il più temerario, che stava all’avanguardia del caotico brulichio, prese l’iniziativa di varcare il cancello per dirigersi correndo verso il grande portone d’ingresso dell’edificio, che stava all’altro capo del cortile, al grido «Chi arriva ultimo è un cagallone!»

    Gli altri lo seguirono a razzo, come fossero un unico gregge, ravvivando la corsa con azzardati sorpassi e spintoni risentiti. Anche Serenity li seguì, tenendosi però in coda a debita distanza, e con andatura meno affrettata. Non aveva certo voglia di spinte o di litigi, lei. Era lì per imparare cose nuove. I bisticci già li conosceva, e neppure le piacevano. Inoltre, il frullare d’ali di una farfallina gialla che svolazzava lì intorno, la convinse a rallentare ulteriormente il passo. Un bel volo di farfalla va onorato almeno con un po’ di attenzione. Così fece il suo ingresso nell’atrio della scuola in piena solitudine, e notando la figura pachidermica di una signora, che avrebbe in seguito imparato a conoscere come la bidella le si avvicinò per chiederle l’informazione fondamentale.

    «Mi scusi, dov’è la mia classe?»

    «E che ne so! Qual è la tua classe?»

    «La prima.»

    «Sì, ma la A, la B, la C, la D o la E?»

    «Quella dove devo andare io!»

    La signora sollevò lo sguardo verso il cielo.

    «Santa pazienza. Come ti chiami?»

    Questo lo sapeva, e rispose con gusto: «Serenity Floris.»

    L’altra entrò nella guardiola a vetrate antisfondamento e sollevò la cornetta dell’interfono che stava adagiato su una scrivania. Poco dopo uscì e indicò alla bambina uno dei due corridoi che sfociavano nell’atrio.

    «Sei in prima B. L’ultima porta a sinistra in fondo al corridoio.»

    «Grazie» rispose soddisfatta la piccola, prima di allontanarsi e imboccare con emozione il corridoio che portava al suo primo giorno di scuola. Ne aveva già percorso la metà, quando tre bambini più grandi le si fecero incontro, dirottando proprio sulla sua traiettoria. Lei, molto tranquillamente, cercò di deviare passando tra il gruppetto e la parete, ma il braccio di quello che sembrava essere il leader si abbassò come la sbarra di un passaggio a livello, piantandosi contro il muro e ostruendo definitivamente il passo. Gli altri due chiusero le eventuali vie di fuga. Tutti e tre vestivano la medesima uniforme: canotta bianca recante la scritta Fuck you very much, pantaloni mimetici e scarponi militari. Il leader ostentava anche qualche tocco originale: un piercing al naso e un berretto da baseball piantato di traverso.

    «Guarda, guarda, guarda chi abbiamo qui...» esordì il piccolo boss.

    «Già. Guarda, guarda. Una primizia» fu la misera chiosa del secondo.

    «Scusate» disse lei ingenuamente «devo andare in classe e sono già in ritardo. Oggi è il mio primo giorno di scuola, sapete?»

    «Oh, lo sappiamo, certo che lo sappiamo»

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