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E-book256 pagine3 ore

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Narrativa - romanzo (207 pagine) - Un libro straordinario, a partire dall'autore e dal modo in cui è stato scritto.


Questo libro è stato realizzato per celebrare il centenario della nascita di Ugo Guerra, nato a Roma il 21 agosto 1920.

Ugo Guerra era una persona speciale, consapevole di esserlo; era dotato di un carisma innegabile e di un’eleganza fuori dal comune, che lo rendevano convincente ed affascinante ma anche profondamente e intimamente capace di empatizzare con la debolezza e la fragilità della condizione umana. Nel suo lavoro sono state presenti fin da subito, quasi profeticamente, le premesse per percepire e comprendere ciò di cui la sua esistenza l’ha reso testimone.

Laureato in Scienze politiche, cominciò a lavorare come giornalista per diverse testate, soprattutto come critico teatrale. Dopo aver scritto per il teatro – suo l’atto unico Pirandelliana – dal 1951 si dedicò alla scrittura di soggetti e sceneggiature per il cinema, firmando decine di film, che gli hanno permesso di esprimere la sua sensibilità, il suo spirito critico, il suo disincanto, la sua finezza e la sua vena ironica. Ricordiamo, tra i tanti, Amici per la pelle e Morte di un amico, che hanno dato inizio alla collaborazione con Franco Rossi che sarebbe rimasta una costante della sua attività, Il Seduttore, Mio figlio Nerone, Costa Azzurra e Il Vigile, nei quali Alberto Sordi ha potuto manifestare la sua duttilità di interprete, Suor Letizia, con Anna Magnani, Via Margutta, Le Signore, I due marescialli, Marte, dio della guerra, La pupa, La ragazzola, Mogli pericolose, Mariti in pericolo, Tutti innamorati, Cin Cin… cianuro!.

L’attività nel mondo cinematografico finì con il limitare il lavoro giornalistico di Ugo Guerra, che aveva continuato a collaborare saltuariamente con quotidiani e periodici, fino a costringerlo a rinunciarvi definitivamente. Dalla fine degli anni Sessanta, rimanendo nel mondo del cinema, intraprese la carriera di produttore che lo portò a realizzare opere come I Clowns di Federico Fellini e l’Eneide, ancora con Franco Rossi.

Nel 1970, un gravissimo ictus cerebrale rivoluzionò bruscamente la sua vita. Dopo un anno trascorso in clinica, fu trasferito in casa, dove continuò le terapie riabilitative per tutto il resto della sua esistenza, fino al 1983. Ma non riacquistò l’uso della parola né il controllo dei movimenti, se si eccettua quello dell’avambraccio e della mano destra.

La volontà di comunicare e la lucidità intellettiva gli hanno permesso, nonostante tutto, di continuare ad essere presente e attivo nella vita dei suoi cari, attento al mondo che lo circondava, critico, emozionabile, tenero, intelligente, arguto, sottile, ironico, sensibile, triste, affettuoso così come tutti quelli che l’hanno conosciuto, prima e dopo, se lo ricordano.

E da persona speciale qual era ha voluto lasciare un segno tangibile della sua volontà di narrare, di raccontare storie emozionando i lettori o gli spettatori. Quel segno che è stato il tratto distintivo della sua vita e della sua professione.

Ugo Guerra aveva tanto da dire e tanto ci ha lasciato, aiutandoci a capire in profondità le fragilità e le debolezze di tutti noi, raccontate con il suo stile lineare e composto, penetrate con l’intima capacità di sentire il dolore degli altri, di osservarlo con tenerezza ed empatia, ma senza compiacimenti, così come ha saputo affrontare il proprio.


Ugo Guerra, noto anche con lo pseudonimo di Robert Hugo (Roma, 1920 – 1982), è stato uno sceneggiatore e produttore cinematografico italiano. Ha lavorato come sceneggiatore su circa 60 film dal 1950 al 1970, ed è stato anche produttore di una decina di film.

LinguaItaliano
Data di uscita15 set 2020
ISBN9788825412925
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    Anteprima del libro

    Tino - Ugo Guerra

    film.

    Come nel film

    Ernesto Gastaldi

    Ugo ha scritto sessanta film e molti ne ha fatti scrivere ai suoi negri. Io ho avuto l’onore di far parte della tribù.

    Ugo era un bell’uomo che oggi compirebbe cent’anni, quando lo conobbi io ne aveva solo trentasette: ci aveva chiamato Rodolfo Sonego, perché aveva trovato un avvocato che voleva produrre un film per conoscere le attrici. Sosteneva l’avvocato che una donna non brava a letto non poteva essere una brava attrice. E lui faceva i provini. Me Too era lontano.

    Il film dell’avvocato non si fece per colpa della mia hybris nonostante avessi la pancia incavata per la fame, ma questa è altra storia.

    Poiché avevo il numero di telefono di Ugo, ogni giorno a mezzogiorno gli facevo uno squillo:

    – Hai qualcosa per me?

    – No, mi dispiace – mi rispondeva con cortesia.

    Resistette un anno, alla trecentosessantacinquesima telefonata di mezzogiorno cedette:

    – Forse sì, vieni, tra un’ora.

    Bevvi il bicchierone d’acqua che fungeva da pranzo e mi buttai sul 52 con un discorsetto da fare al bigliettaio, visto che non potevo pagare il biglietto.

    Ugo abitava ai Monti Parioli, il quartiere dell’élite. Mi sorrise e mi chiese quanti anni avessi:

    – Sono del ‘34 – risposi e sgranò gli occhi guardando la mia ampia stempiatura. Lui era del ‘20. Si sentì vecchio. Mi offrì un caffè.

    – Con molto zucchero - chiesi e mi sorrise di nuovo: prese il cucchiaino d’argento con la sua mano educata e intellettuale e mi versò cinque cucchiaini di zucchero e intanto mi spiegò che aveva accettato del denaro per scrivere un soggetto su un night club che un tizio stava per aprire sull’Appia Antica e voleva produrre un film per pubblicizzarlo.

    – Almeno una quarantina di pagine, mi servono per domani alle sei – concluse avvolgendomi con uno sguardo ironico. Posai la tazzina sul vassoio con aria dispiaciuta:

    – Oh, alle sei ho un impegno. Ti va bene se te le porto per le due? – Ugo piegò la testa un po’ di lato e mi guardò davvero per la prima volta.

    Tornai nella mia cantina al Coppedè e scrissi fino all’una del giorno dopo. Non c’erano computer, si pestava sui tasti e quando si sbagliava si stracciava il foglio e si ricominciava. Alle due consegnai cinquanta pagine di una storia fatta di gag intitolata NIGHT CLUB nelle mani dell’incredulo Ugo.

    – Ti farò sapere. – mi disse.

    Due giorni dopo fu lui a chiamarmi a mezzogiorno per dirmi che il produttore aveva gradito il mio lavoro e aveva aggiunto che si riconosceva la sua mano… e finalmente Ugo rise e mi disse che se quando scrivevo io i produttori riconoscevano la sua mano allora di lavoro me ne poteva dare tanto.

    Così mi ritrovai a scrivere giorno e notte, i polpastrelli delle dita gonfi e doloranti ma con una fila di panini sul tavolo. Ero diventato un negro ed ero felice perché mangiavo e mi divertivo a inventare storie: pirati, briganti, spie, perfino giapponesi.

    Dopo una trentina di copioni scritti in tutto o in parte per il famoso Ugo Guerra, un giorno mi pregò di aspettarlo in strada, davanti alla rampa del garage del palazzo: apparve alla guida di una Flaminia bianca coupé, un colpo di sole gli illuminò il volto: era raggiante ma tentava di darsi un contegno.

    Ugo mi fece salire, tagliò con un sorriso i miei complimenti per l’auto e mi disse che aveva bisogno di me.

    – Un altro night club? – scherzai.

    – Quasi, ho detto ai produttori Pugliese ed Ercoli che ho avuto un’idea grandiosa.

    – Perché?

    – Per prendere tempo. Pugliese è uno dei pochi produttori gentiluomini di Roma, non voglio perderlo, ma…

    – Ma?

    – Non ho l’idea.

    Pugliese era un uomo elegante, raffinato, una vera rarità tra i produttori romani. Ugo mi presentò e si cominciò a parlare del tempo. Molto english. Poi Pugliese chiese dell'idea e Ugo si lamentò del gioco della Roma, lanciandomi un’occhiata interrogativa. Pugliese accettò l’argomento sportivo ma poi tornò a chiedere dell’idea. Adesso l’occhiata di Ugo era imperiosa. Avevo la testa vuota: se vi si chiede di avere un’idea geniale diventate stupidi. Frammenti di pensieri mi passavano per la mente:

    – In che cazzo di casino ti sei ficcato, Guerra… neanche dio… dio… guerra… – sorrisi soffocando un finto sbadiglio educatamente nascosto con la mano

    – Abbiamo pensato a Marte, il dio della guerra…

    Ugo raccolse il passaggio con eleganza e senza alcuno stupore. Annuì e disse a Pugliese:

    – Sì, dopo tanti Ercoli, Maciste, semidei eccetera, abbiamo pensato di fare un passo in alto: gli dei.

    Pugliese si accese di entusiasmo e non colse l’occhiata di gratitudine che mi diede Ugo e che mi fece sentire grande.

    Uscendo mi guardai nello specchio dell’anticamera: ero un uomo bianco!

    Con Ugo diventammo amici e poi soci in una produzione, Cin Cin… cianuro!, un colossal per noi da 80 milioni di lire di budget, ma avevamo una distribuzione di ferro: LUX ITALIA e LUX FRANCE! Distribuzione così solida che i fratelli Genesi che facevano sviluppo e stampa e scontavano cambiali vollero andare a ritirarsele direttamente da loro, delle nostre firme non sapevano che farsene.

    Finimmo il film ma quando stava per uscire le due solide distribuzioni fecero bancarotta all'unisono.

    Non avendo firmato le cambiali non avevamo alcun obbligo se non morale verso i Genesi, ma per Ugo bastava e ci accordammo per una sceneggiatura da scrivere per loro gratis.

    Lavorammo a un giallo in cui un vecchio paralitico riusciva a salvare la nipote dalla morte comunicando col solo movimento delle palpebre, usando l’alfabeto Morse.

    Una storia maledetta che non finimmo mai.

    Un pomeriggio telefonai in ufficio, ero allegro, andava tutto bene ed Elio Scardamaglia, socio di Ugo, mi spense: Ugo aveva avuto un ictus e l’avevano ricoverato.

    Lo trovai steso su un tavolato, con una coperta addosso di traverso e l’infermiere mi fece un segno di croce nell’aria a significare che non c’era più nulla da fare.

    Mi chinai su di lui, il viso pallido non dava segni di sofferenza, un occhio era spento ma l’altro si mosse e mi fissò; captai un messaggio in quello sguardo: come nel film.

    Bestemmie mi gorgogliarono in gola ma gli sussurrai:

    – Come nel film. – La palpebra si mosse confermandomi in quel pensiero.

    Ugo non morì quel giorno, visse per altri tredici anni perché l’amore fa miracoli e lui aveva trovato una donna che lo amava e che diventò sua moglie: Leda Arrigucci che sostituì con la propria mobilità l'immobilità di Ugo.

    Non poteva parlare, gli avevano fatto una tracheotomia. Ci vedeva da quell’occhio rimasto vivissimo e riusciva a muovere solo una mano ma la sua mente era intatta. Comunicava toccando una lettera per volta su una tavoletta con l’alfabeto.

    Ugo era un artista, uno scrittore che riusciva a dar vita a personaggi dalle mille sfumature e continuò a immaginare storie.

    Con pazienza l’unità umana Ugo-Leda scrisse questo libro: TINO, la cronaca di un mutamento, la maturazione di un giovane e leggendolo capirete quanta intelligenza e quanta volontà abbiano animato quell’uomo eccezionale, bloccato nel corpo ma in grado di creare: un dito una lettera, un dito una lettera fino a formare una parola.

    Un dito una lettera fino a formare una frase.

    Un dito una lettera fino a finire un romanzo di una levità a volte allegra.

    Pensate: un dito una lettera…

    Roma, maggio 2020

    La licenza, pensieri in treno

    Ero di servizio alla porta carraia della caserma con una squadra di soldati anziani e sbrindellati che, stravaccati sulle panche di legno, ingannavano il tempo fumando e raccontandosi storie di prostitute e di finocchi.

    Il quieto torpore fu rotto da un segnale di tromba, proveniente dal cortile, che di lì a poco si ripetè. Non era un segnale quotidianamente usuale, non lo conoscevo e, tanto per dire qualche cosa, rivolgendomi al soldato più vicino, commentai che forse riguardava i pesci rossi del Colonnello che erano nella fontana al centro del cortile.

    Sì, gli lavano il sedere tutte le mattine, soggiunse il sergente che era lì con me, ma poi, temendo di essere stato troppo irriguardoso, pensò bene di spiegarmi che invece il segnale si rivolgeva proprio a me. La tromba, infatti, chiamava alla palazzina comando l’ufficiale di servizio alla porta carraia.

    Mi ci recai immediatamente, presentandomi all’aiutante maggiore del battaglione e questi, senza darmi alcuna spiegazione, mi consegnò il foglio di licenza per trenta giorni più cinque di viaggio. Rimasi ammutolito e filai via, timoroso di un qualche ripensamento.

    A mensa, il fatto fu molto discusso, furono dette molte parole e non poche insinuazioni. Per taluni, il Colonnello, infastidito per le troppe raccomandazioni al mio riguardo, mi si era voluto togliere dalle scatole. Altri, però, obiettavano che il Colonnello, un sardo puntiglioso e carogna, era solito rispondere alle irritanti pressioni comminando, invariabilmente, gli arresti al malcapitato protetto, quindi dovevano esserci delle ragioni segrete per quella licenza: o l’intervento di un gerarcone o di un cardinale, di fronte al quale anche la durezza del Colonnello si doveva essere ammorbidita.

    Un tenente di Nocera Umbra, arrivato da poco, che non si era ancora ambientato e stava sempre con noi perché era proprio solo, mostrò di essere interessato alla mia licenza, ma per fini più personali e mi chiese se gli passavo la ragazza con la quale uscivo abitualmente.

    A me, questo di Nocera Umbra era antipatico per via di due inutili baffi e perché balbuziente al punto che per dire una qualunque cosa senza importanza e finire la frase ci metteva un subisso di tempo.

    Tutta l’attenzione dei presenti si concentrò su di me. Come mi sarei regolato? Sarei stato geloso? Colsi le ragioni di tanto interesse e risposi: Senti, Nocera Umbra, ti lascerò l'indirizzo della ragazza, ma bada che è molto sensibile quando la bacio dietro alle orecchie. Me la cavai bene.

    Quel giorno, comunque, dopo la mensa, non si parlò solo di donne, ma si continuò a lungo a discutere sulla mia licenza. Non sapevo io stesso a quale Santo attribuirla e, alla fine, tutti conclusero che doveva trattarsi proprio di un errore di persona e che sicuramente, in un reggimento della zona, un qualche sottotenente, vagamente e sfortunatamente omonimo o quasi, avrebbe atteso invano la sua licenza, mentre io me ne andavo a casa e me la sarei spassata per oltre un mese.

    Gli esperti in questi calcoli, con compiaciuta furbizia, si accanirono a dimostrarmi che se avessi fatto coincidere la partenza con certe ore del sabato ed il rientro con determinate ore della domenica, la mia vacanza avrebbe potuto prolungarsi quasi per quaranta giorni.

    Lasciata la caserma, mi avviai, con allegra euforia, verso la mia camera ammobiliata per prepararmi subito al viaggio. Un viaggio lungo, che sarebbe durato all’incirca un giorno e mezzo.

    Sotto i portici, all’angolo con Piazza Cavour, notai una vetrina sapientemente allestita con un vasto drappeggio blu al cui centro, su un vassoio d'argento, era esposto uno splendido tartufo bianco, illuminato come se fosse uno smeraldo.

    Un cartellino rendeva noto che il tartufo esposto si era aggiudicato il primo premio alla mostra regionale.

    Pensai di farne un inusitato dono a mia madre e immediatamente mi sentii trasportato nelle vesti di quei viaggiatori che nei secoli scorsi tornavano in Europa da paesi lontani portando semi e bulbi sconosciuti e rari.

    Senza titubanza, entrai nel negozio e chiesi di acquistare il tartufo in vetrina. Il commesso, di fronte alla mia richiesta, chiamò il principale e questi, chiaramente mostrando di non volersene privare, si adoperò in ogni modo a consigliarmene altri, accortamente decantandone il maggior pregio.

    Io, però, per mia madre, volevo proprio quello premiato, munito anche del cartellino, e non mi lasciai convincere. Alla fine il proprietario acconsentì e incartò accuratamente il tartufo, avvolgendolo prima in due fogli di carta oleata e confezionandolo proprio a modo.

    Conclusa l’operazione, cominciai ad avvertire un persistente, anche se leggero, odore di piedi sporchi emanare dal pacchetto.

    Questo, uscito dal negozio, mi rese sgradevolmente perplesso. Non riuscivo a spiegarmi perché ero stato attratto proprio dal tartufo e non riuscivo, inoltre, a darmi ragione come mai, pur facendo quel tratto di strada da molti mesi, non avevo mai notato prima né il negozio, né la vetrina, né il tartufo che pur mi avevano detto esposto da quattro settimane. Possibile tanta distrazione da parte mia? Ebbi quasi la sensazione di essere stato inconsapevolmente guidato da una sorta di piccola magia.

    Raggiunsi la mia camera mobiliata e la mia prima preoccupazione fu quella di mettere in valigia il pacchetto con il tartufo, inserendolo prima in un paio di calzini nuovi.

    Non servì a nulla, il deprecato effluvio continuava a provenire dal pacchetto al punto che mi risolsi a versare tutto intorno alla valigia mezzo flacone di acqua di lavanda, ottenendo un risultato decorosamente disgustoso.

    Raccolsi le mie cose, completai la valigia, mi recai alla stazione e, finalmente, presi posto sul treno.

    In un viaggio lungo il timore è quello che il tempo non passi mai. Per questo, preparandomi a partire, avevo programmato come occupare i miei pensieri e stabilito che in un primo tempo li avrei dedicati agli amici che lasciavo e poi il mio ricordo sarebbe andato alla mia famiglia e, in particolare, all’amico Tino che avrei rivisto dopo un anno. Ed ero molto soddisfatto di questa decisione.

    Viaggiavo in uno scompartimento di prima classe, con i centrini bianchi sul velluto rosso. Me ne stavo con gli occhi chiusi fingendo di dormire per non partecipare alla conversazione che si svolgeva nello scompartimento tra due anziani signori ed un sacerdote propensi a rivelarsi, reciprocamente, i loro segreti sul cane da tartufo. Una appassionata discussione che non aveva per me alcun interesse, anzi, considerata la recente esperienza olfattiva – e il pensiero andava alla valigia – io non avrei mosso un solo passo alla ricerca di tartufi.

    Nonostante il mio disinteresse alla conversazione, non riuscivo a concentrarmi sugli amici che avevo appena lasciato. A stento ricordavo i loro nomi, gli aspetti più tipici del loro carattere, le loro voci; mi sfuggiva, però, completamente il senso dei nostri rapporti, il valore del reciproco incontro, forse perché essenzialmente legato all’ambiente ed alla vita militare.

    Mi ritrovai, così, per molte ore a non pensare a niente e preferii aprire gli occhi e guardare dai finestrini la campagna in piena estate che mi scorreva davanti.

    Quando calò la sera mi rimisi tranquillamente seduto e mi sforzai di pensare, come mi ero proposto, ai miei che, a breve, avrei riabbracciato.

    Dovetti constatare che non ero stimolato da alcun interrogativo e non per mancanza di affetto, ma perché sapevo tutto di loro, come se non mi fossi mai allontanato da casa e dalla vita familiare.

    In un anno di assenza avevo ricevuto sempre loro notizie, forse ne avevo ricevute troppe.

    Mio padre, infatti, mi scriveva ogni giorno lunghe lettere con minuziose informazioni al loro riguardo e su tutti i parenti, quelli che erano rimasti in città e quelli che erano sfollati in qualche remoto paesello, per paura dei bombardamenti.

    Mi teneva al corrente su questioni, anche insignificanti, della vita cittadina: che c’era penuria di carrozzelle perché molti vetturini erano stati chiamati alle armi; è vero, un giornale aveva proposto di assumere donne al posto degli uomini, ma l’idea aveva suscitato infinite proteste di ordine morale, non ultima delle quali quella che le donne non dovevano essere distolte dalla loro naturale funzione di procreatrici di futuri soldati.

    Su un particolare episodio, che evidentemente lo aveva colpito, mio padre mi relazionò con dovizia di particolari.

    Era infatti accaduto che, durante una cerimonia in onore di studiosi giapponesi in visita alla città, il Federale si fosse austeramente pronunciato contro l’abitudine, piccolo borghese e pantofolaia, di comprare le pastarelle dolci la domenica. Per l’occasione aveva perentoriamente affermato che gli antichi romani non avevano di queste mollezze e che questo il mondo lo doveva sapere.

    Tale categorico pronunciamento non aveva mancato di allarmare, giustificatamente, i pasticcieri della città, i quali, dopo due riunioni, avanzarono caute proteste. Il Federale, che forse non aveva valutato le conseguenze del suo dire, meditò a lungo sul problema e, in un successivo discorso, tenne a precisare che in tempi di sacrifici non era consentito indulgere ai piaceri della gola, ma che l’acquisto delle paste dolci poteva esser anche utile se giustamente finalizzato ad irrobustire i corpi ed a prepararli a nuovi cimenti.

    Mia madre, invece, mi scriveva due volte ogni settimana dilungandosi ad informarmi sul come dovesse industriarsi per dare da mangiare alla famiglia e manifestandomi le sue preoccupazioni di ogni giorno, perché con il razionamento c’era poco da scialare ed il cibo risultava sempre inadeguato alla fame dei commensali.

    Mi giungevano anche le lettere di mia sorella che scriveva due o tre volte la settimana.

    Quindi, non vi era giorno che io non ricevessi posta dai miei, a volte anche tre lettere contemporaneamente.

    L'infanzia di Tino, la Casa del Sole e Manuzza il pittore

    Il mio amico Tino, invece, l'amico del cuore, non mi aveva praticamente mai scritto. In un anno, solo due brevi lettere e una cartolina postale con la sola firma, eppure il ricordo di lui era l’unico che, ora, mi si affacciasse dentro con insistenza, con una sorta di prepotenza alla quale fui lieto di abbandonarmi. Lasciai, quindi, che la sua storia riaffiorasse e cominciasse a scorrere, come la mia memoria l’aveva recepita, in ogni risvolto, dal suo racconto, da quel suo modo di esporre se stesso e le sue vicissitudini con una magniloquenza che ricercava sempre una veste di importanza e parimenti denotava una nascosta e sofferta ironia.

    La sua famiglia aveva origini lontane. Venivano da Cefalù e non erano nobili, come asseriva e sperava Tino che a questo fine aveva dedicato lunghe ricerche negli archivi storici dei comuni della zona. Erano di condizione contadina e neanche questo in senso stretto perché, nel tempo, si erano tramandati l’arte di conduttori di carri.

    Il padre di Tino era stato un carrettiere di eccezionale bravura, il solo capace di guidare con due cavalli non a pariglia, ma uno dietro l'altro.

    Possedeva un carretto singolarmente ornato sulle cui fiancate non erano dipinte le gesta dei paladini di Francia, ma la storia di un povero contadino condannato al carcere a

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