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Il treno da Mosca
Il treno da Mosca
Il treno da Mosca
E-book317 pagine4 ore

Il treno da Mosca

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Info su questo ebook

L’avvocato Lucio Manacorda, io narrante di questo romanzo, è uscito di recente da una grave crisi esistenziale e professionale. Ora è riuscito a riprendere in mano la propria vita, ma sente di dover affrontare ancora un’impresa per uscire dalla sua personale prigione. L’occasione si presenta quando gli capita di trovare sul treno una vecchia copia del romanzo Lucien Leuwen di Stendhal, in tempi lontani appartenuto a Lorenzo Stefani, un ufficiale italiano perso nel caos dell’8 settembre 1943, deportato in Germania... 

Scritto in uno stile che ricorda il miglior Graham Greene, il romanzo si inserisce in quel filone dei romanzi di avventura in cui quest’ultima non è fine a se stessa, bensì una riflessione profonda sull’inquietudine dell’uomo, eternamente costretto in una condizione di passione e contraddittorietà.
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2019
ISBN9788899932510
Il treno da Mosca

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    Anteprima del libro

    Il treno da Mosca - Maurizio Lo Re

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2019 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    ISBN 9788899932510

    Collana *narrazioni

    Titolo originale dell’opera:

    Il treno da Mosca

    di Maurizio Lo Re

    Maurizio Lo Re

    Maurizio Lo Re, nato a Roma nel 1948, si è laureato in Lettere nel 1970, all’Università La Sapienza di Roma.

    Dopo il servizio militare a Palermo tra il 1971 ed il 1972, a seguito di concorso pubblico, è entrato in carriera diplomatica nel 1973. Al Ministero degli Esteri ha prestato servizio, in vari periodi, presso le Direzioni Generali per la Cooperazione allo Sviluppo, gli Affari Politici, le Relazioni Culturali, l’Emigrazione.

    All’estero è stato Console in Corsica, Incaricato d’Affari a Cuba, Console Generale a Capodistria (ex Jugoslavia, ora Slovenia) e Ambasciatore a Riga (Lettonia).

    Rientrato a Roma alla fine del 2004, ha prestato servizio presso il Ministero degli Esteri, Direzione Generale per i Paesi dell’Europa, fino al 2007, anno in cui ha lasciato la carriera diplomatica, dedicandosi agli studi storici e alla scrittura.

    Ha pubblicato il romanzo storico La linea della memoria (2002), sulle vicende della frontiera orientale italiana nel Novecento, il saggio La cultura italiana nella storia lettone (2003), il romanzo biografico Filippo Paulucci – L’italiano che governò a Riga (2006), tradotto anche in lingua lettone, il romanzo storico Gli amici di Leuwen (2009), il romanzo storico Domani a Guadalajara (2013), sulla guerra civile spagnola, e il saggio memorialistico Inusuali vicende consolari (2016).

    SOMMARIO

    autore

    capitoli 1 - 9

    capitoli 10 - 19

    capitoli 20 - 29

    capitoli 30 - 39

    capitoli 40 -49

    capitoli 50 - 59

    capitoli 60 - 69

    capitoli 70 - 79

    capitoli 80 - 89

    capitoli 90 - 99

    capitoli 100 - 109

    capitoli 110 - 119

    capitoli 120 - 129

    capitoli 130 - 145

    nota dell’autore

    1

    Come fai a fidarti di uno che ti incontra con una scusa in un bar e si presenta come colonnello Verdi, ma precisa che non è il suo vero nome e si rifiuta di dirti per chi lavora? Eppure io mi fidai. In genere non mi sbaglio, sono anche un po’ lombrosiano. Il fatto che una volta mi sia clamorosamente sbagliato con quel maledetto Lobardi, non mi ha cambiato: mi fido o non mi fido a istinto. D’altra parte, con quel volgare assassino hanno regolato i conti, in carcere, i suoi pari che gli hanno tagliato la gola in cortile durante l’ora d’aria.

    Ebbene, il sedicente colonnello Verdi, senza tanti preamboli, mi dichiarò che poteva aiutarmi nei miei progetti in Unione Sovietica, a condizione che facessi un lavoretto per lui. Ritenne opportuno specificare che in quegli ambiti si poteva puntare essenzialmente su due leve: il denaro o lo scambio di favori. In quegli ambiti? Ma di che cosa stava parlando? Mi dava l’idea di essere un agente dei noti servizi, che forse mi considerava non una fonte di informazioni o un collaboratore prezzolato, di cui non c’erano i presupposti, ma quasi un suo pari, portatore di un interesse equivalente al suo.

    Faceva così freddo che per un momento fui tentato di rimettermi il cappotto, eppure ero sempre vissuto a Torino e non mi sarei dovuto meravigliare che il giorno dopo la festa di Ognissanti fosse già praticamente inverno. Ordinammo al cameriere altri due caffè, per lui era il terzo, io lo chiesi corretto alla grappa.

    Il colonnello mostrava qualche anno in meno dei miei cinquantadue. Dunque aveva fatto una bella carriera, se era militare e rivestiva effettivamente il grado di colonnello. Aveva un fisico asciutto e, tranne un paio di baffi neri, non mostrava alcun segno particolare. Il suo completo grigio era alquanto stazzonato.

    Aveva un inconfondibile accento meridionale, con le inflessioni derivanti da una lunga permanenza in Piemonte, per niente affettato, rassicurante. Mi ricordava l’uomo d’affari che avevo incontrato tre anni prima sul treno espresso da Torino a Roma, nella memorabile notte tra il 2 e il 3 dicembre 1977. Scendendo, aveva dimenticato o abbandonato un libro sul sedile, il romanzo Lucien Leuwen di Stendhal, fittamente annotato sui margini e sulle pagine bianche. Sono passati quasi tre anni e non dimenticherò mai quella data, che ha cambiato la mia vita: prima di quel viaggio ero chiuso in me stesso, mi piaceva fantasticare, osservavo il mondo attraverso una nebbia che sembrava dissolverlo. Sfuggivo alle mie responsabilità, finché l’incontro con quel libro e le persone che lo avevano maneggiato mi obbligò a uscire dalla mia corazza e prendere decisioni non più rinviabili.

    «Avvocato Manacorda, mi sta a sentire?»

    La voce del colonnello interruppe il filo dei miei ricordi, ma in effetti non mi ero perso neanche una parola del suo discorso. Tre anni fa mi domandavo: chi è, che fa tutta questa gente che gioca, che piange, che discute? Non riuscivo proprio a capire gli anni di piombo, la delinquenza comune contigua a quella pseudo rivoluzionaria, tutto avvolto in una cortina fumogena, un’offesa al buon senso. Che c’entrava il colonnello con quella storia? Perché mi voleva tirare dentro a un’altra avventura?

    «La sento, colonnello, la sento bene, continui pure.»

    «Dunque, avvocato, lei nel 1944, a soli sedici anni, entrò nella vita adulta come staffetta partigiana, bruciando tutte le tappe dell’adolescenza.»

    «È ben informato, colonnello.»

    «È il mio mestiere.»

    Stava cominciando a scoprire le carte, era chiaramente un uomo dei servizi.

    «Dopo la guerra lei ha militato nel partito comunista.»

    Quanti ricordi! Mi sentivo solidale con la gente, senza lavoro o malpagata, che nei crudi inverni del dopoguerra, esaurita la razione annuale di carbone, settanta chili a testa, bruciava nelle case la legna raccattata in giro e sognava che il socialismo riscattasse l’Italia dai padroni e dai preti. Partecipavo alle proteste nelle fabbriche e nelle campagne, ai cortei di disoccupati e di braccianti agricoli, che la polizia celere di Scelba non si faceva riguardi a manganellare. Non volevo rinunciare all’ideale di rinnovamento delle strutture sociali ed economiche dell’Italia, che non si era potuto realizzare con la liberazione dal nazifascismo e che ritenevo soltanto rinviato. Per me continuava ancora a soffiare, impetuoso, il vento del Nord.

    «Caro Manacorda, lei si era messo in luce nella federazione torinese del PCI, aveva cominciato una bella carriera nel partito…»

    «Che ne sa, colonnello? I giornali di sicuro non ne parlavano.»

    «Certo che no, ma io ne ebbi notizia agli inizi della mia carriera. Mi sta forse provocando?»

    «No, dicevo così, soltanto per interloquire. Prima metteva in dubbio che io l’ascoltassi con attenzione.»

    «Va bene, andiamo avanti. Nel 1956, come un fulmine a ciel sereno, venne la crisi d’Ungheria, con il governo di Budapest che voleva uscire dal patto di Varsavia, la violentissima repressione sovietica, i carri armati dell’Armata Rossa che invadevano il paese, causando diverse migliaia di morti. Fu un vero shock per i comunisti italiani, ma, nonostante tutto, il PCI si allineò a Mosca. Lei però, caro Manacorda, non si adeguò affatto. Alcuni settori del partito, e soprattutto il sindacato, presero le distanze dalle posizioni del PCI, mentre nel paese si scatenava un furioso anticomunismo. Lei restituì la tessera e non mi risulta che abbia militato più in nessun partito. A soli ventotto anni, aveva macinato un’enorme mole di esperienze, la guerra partigiana, la militanza comunista, gli studi universitari, l’inutile laurea in legge, il servizio militare…»

    Stavo per interromperlo, lui se ne accorse, ma io mi trattenni, pensavo alla ragazza che nei cinque anni passati insieme mi aveva fatto credere all’amore eterno e in quel frangente ruppe senza preavviso il fidanzamento, mentre io, dopo aver fatto praticantato legale, mi ripiegavo in me stesso, adattandomi a un grigio lavoro di ragioniere presso una fabbrica di piccoli utensili domestici.

    Fu il colonnello a interrompere i miei pensieri: «So che cosa sta pensando, che la sua laurea in legge non è affatto inutile, dopo la bazzecola di venticinque anni si è rimesso a studiare, ha rinfrescato in un prestigioso studio legale il tirocinio che aveva fatto da giovane, ha superato l’esame di stato, si è iscritto all’albo dei procuratori legali ed ora il titolare dello studio la considera il suo braccio destro».

    2

    Se il colonnello sapeva tante cose su di me, come minimo dovevo attrezzarmi per alleggerire la mia posizione di inferiorità. Mi guardai intorno. Conoscevo bene quel bar, dove ci eravamo dati appuntamento. Il telefono pubblico era in fondo, dietro l’angolo, sulla via del bagno. Infilai la mano nella tasca destra della giacca e verificai di avere monete da cinquanta o cento lire: ne bastava una per le chiamate urbane.

    «Mi scusi, colonnello, la lascio un attimo. Quando si avvicina il cameriere, può ordinarmi una grappa?»

    Mi guardò leggermente contrariato, ma fece solo un leggero cenno di assenso.

    Mi diressi verso il bagno e, girato l’angolo, afferrai il telefono. Chiamai a studio e la fortuna volle che rispondesse direttamente il mio giovane collega.

    «Ciao Filippo, sono Lucio, ho pochissimo tempo e mi serve un favore.»

    «Dimmi.»

    «È una faccenda riservata, molto riservata. Dovresti venire subito al bar Cassini, in corso Vittorio Emanuele. Lo conosci, no?»

    «Certo che lo conosco, ma come faccio? Tra dieci minuti ho la pausa pranzo.»

    «Non fare il fesso. È questione importante e riservatissima, non ne devi parlare con nessuno.»

    «Uh…»

    «Vieni al bar Cassini. Sono seduto a un tavolo con un signore distinto, ha i baffi. Prenditi un caffè o quello che ti pare, con la massima discrezione. Se la cosa va per le lunghe, esci e aspetta fuori, mi raccomando di non farti notare. Prendi un giornale, guarda le vetrine, arrangiati.»

    «Non sono Sherlock Holmes.»

    «Ripeto, non fare il fesso. Quando l’uomo esce e ci salutiamo, devi seguirlo più che puoi, fino a casa, in ufficio o dovunque vada. Indossa un impermeabile grigio.»

    «In che impiccio mi stai mettendo?»

    «Nessun impiccio, purché tu faccia le cose per bene e poi non ne parli con nessuno.»

    «Neanche con il capo?»

    «Soprattutto con il capo!»

    «Senti Lucio, noi siamo due giovani di bottega…»

    La voce gli rideva. Alludeva al fatto che la nostra anzianità professionale era alquanto breve, anche se lui aveva ventisei anni e io il doppio esatto. Comunque il capo mi teneva in gran considerazione. Anche la lunga esperienza di vita fa grado.

    «Non mi prendere in giro, non è il momento. Fai come ti ho detto. Ti copro io a studio e pago tutte le spese, bar, taxi, giornali. Ciao.»

    3

    Tornai al tavolo, dove, proprio in quel momento, il cameriere stava portando una grappa e un altro caffè.

    «Colonnello, ci va giù pesante con il caffè.»

    «E lei con la grappa… Scherzo, ma io in servizio non posso bere e lei si vede che è un po’ nervoso.»

    «Per niente. Continui. La storia della mia vita mi interessa.»

    «L’accontento subito, caro Manacorda. Nella nicchia dove si era rintanato, immagino che vide passare con un certo fastidio i moti popolari del 1960, poi gli scontri in piazza Statuto del luglio 1962, per il contratto dei metalmeccanici.»

    Maledetto colonnello Verdi, come fa a conoscere non solo i dettagli che sono alla portata di qualunque questurino, ma anche aspetti del mio carattere e forse abitudini personali? In quegli anni mi sentivo un po’ vecchio, non volevo più combattere, mi piaceva stare rintanato nel mio bozzolo. Se non fosse stato per l’esigenza di incontrare delle ragazze, persino il sabato sera sarei rimasto volentieri nel mio monocamera a leggere romanzi gialli.

    «Poi venne l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, il terrorismo delle brigate rosse, l’eurocomunismo, l’alleanza dei partiti dell’arco costituzionale, dal PCI alla Democrazia Cristiana, per un programma di governo. Il mondo era sottosopra e lei tranquillo nella sua nicchia.»

    «Tranquillo? Non direi proprio. Anzi… Comunque è acqua passata.»

    «Lo so bene. Lei è molto cambiato in questi ultimi tre anni. Probabilmente era stanco di viaggiare ogni due settimane per andare a Roma a vedere la sua bella… Non mi guardi con quegli occhi increduli. Non mi sto immischiando nei suoi fatti privati. Ha raccontato lei dei suoi viaggi al processo Lobardi, come ha spiegato che quel delinquente l’aveva attirato nella trappola, con un finto accento francese, parlando dell’eurocomunismo.»

    A quel punto, il colonnello si alzò a sua volta, apparentemente per andare in bagno, ma forse voleva solo telefonare, come avevo fatto io. Me ne infischiavo, facesse quello che voleva. Ero sprofondato nel ricordo di quella terribile storia.

    Cinque anni prima, in uno dei miei viaggi, di ritorno da Roma, avevo fatto conoscenza con un distinto signore, in doppiopetto blu, con il viso che sembrava di plastilina. Mi colpirono i suoi occhi acquosi e giallastri, che non riflettevano la luce. Esibiva un accento francese e riuscì a incuriosirmi, parlando di politica, del ‘68, dei comunisti francesi. Non so perché, ebbi subito il dubbio che non fosse sincero, tuttavia riuscì a confondermi lo stesso, con le sue chiacchiere. Poco prima di arrivare a Torino, mi chiese un favore. Doveva spedire un pacchetto a Ravenna e non aveva il tempo di andare all’ufficio postale, dovendo prendere la coincidenza per Chambéry. Aprì la mano con il denaro contato per la spedizione, che aveva fatto altre volte. Io rimasi senza parole, mi sembrava una richiesta strana e non ero certo contento di quella seccatura, ma non volevo essere scortese. Accettai di malavoglia, alla posta non c’era fila e l’impiegato mi guardò solo di sfuggita, per prendere il plico dalle mie mani. Il lunedì successivo, aprendo il giornale, mi si gelò il sangue alla lettura di un articolo di cronaca nera che dava la notizia di uno strano omicidio a Ravenna.

    Un tizio aveva ricevuto per posta una bottiglietta di aperitivo da lanciare sul mercato, con la richiesta di assaggiarlo e proporre uno slogan per la campagna pubblicitaria. La bevanda conteneva stricnina e l’uomo morì fra atroci dolori. Non avrei potuto essere più stupido. Come c’ero cascato? Che enormità diventare complice di un omicidio! Pensai a lungo di denunciare tutto alla polizia, ma temevo di cacciarmi in un mare di guai. Bastavano la mia vita limpida e la mancanza di un qualsiasi movente per scagionarmi? D’altra parte, io non potevo fare più nulla per quel poveretto assassinato, e comunque non avevo alcuna responsabilità. Se non avessi accettato di fare la spedizione postale, il finto francese l’avrebbe chiesto ad un altro. Oppure, se avessi trovato fila alla posta, avrei affidato il pacco a uno sconosciuto e mi sarei sfilato da quella storia. Decide il caso chi vive e chi muore. A furia di respingere l’idea di essere stato l’anello di una catena delittuosa, seppellii il mio rimorso e cercai di dimenticare la questione. La polizia non riuscì a trovare un possibile movente del delitto e, dopo aver brancolato nel buio per mesi, apparentemente rinunciò a proseguire le indagini, o almeno i giornali non ne parlarono più.

    Tuttavia io non potevo mettermi l’anima in pace. Ogni volta che prendevo il treno, ripensavo all’orribile stupidaggine che avevo fatto. Mi rafforzai nella mia diffidenza verso il prossimo, ma, al tempo stesso, presi l’abitudine di andare alla stazione tutti i lunedì, oltre a quelli in cui ero di ritorno a Torino, anche quelli in cui non viaggiavo, per attendere il treno espresso da Roma delle 8:30. Mi sembrava di nuotare in mezzo alla folla anonima, come in un branco di pesci. Forse, passare tanto tempo alla stazione era un alibi, per scontare la mia inettitudine. Ciascun viaggiatore, in arrivo o partenza per un viaggio breve o lungo, aveva la sua storia, il suo viso, il suo obiettivo, faceva un percorso che l’avrebbe riportato a se stesso, ma per me erano tutti uguali e mi sembrava che anche il mio uomo, se per caso l’avessi incontrato, sarebbe stato identico agli altri e non l’avrei riconosciuto. Eppure, un bel giorno lo vidi. Lo riconobbi senza incertezze, perché il cuore cominciò a battermi violentemente in petto. Ero in ritardo per il lavoro, ma niente avrebbe potuto impedirmi di portare fino in fondo la mia impresa. Mi calcai bene il cappello sulla fronte, mi nascosi dietro un giornale che facevo finta di leggere e lo seguii.

    L’uomo si diresse a un telefono pubblico ed io afferrai l’apparecchio accanto. Infilai il gettone, finsi di telefonare e mi disposi ad ascoltare lo sconosciuto. Fui fortunato, perché l’uomo in blu si presentò, pronunciando forte il suo nome, Marino Lobardi, per sovrastare il rumore della stazione, poi non riuscii a capire molto, ma a metà della conversazione lo udii distintamente dire che doveva tornare quel giorno stesso a Pisa.

    Non mi serviva altro, mi rivolsi a un’agenzia di investigazioni e spesi tutti i miei risparmi per indagare su quell’uomo. Era una specie di gioco d’azzardo, ma poteva alleggerire la mia coscienza. Come succede alle persone possedute dal demone del gioco, la faccenda in sé non è necessariamente importante, contano le pulsioni sottostanti. L’agenzia scoprì che il Lobardi aveva un enorme debito con la vittima e me ne procurò la documentazione. L’investigatore non aveva motivo per mettere in relazione il debito con l’omicidio, ma il movente era chiarissimo ed io ero l’unico ad avere la prova del delitto. Avevo giustificato con me stesso quella pazzia, convincendomi che avrei utilizzato il documento per rivolgermi alla polizia, raccontare tutto per filo e per segno, dimostrare la mia completa estraneità all’omicidio ed accusare il Lobardi.

    Tuttavia, fui assalito da altri dubbi tormentosi. E se la polizia non mi avesse creduto? Se la documentazione si fosse dimostrata falsa? Per non farmi arrestare, sarei dovuto fuggire, diventare un latitante, andare all’estero? Dove avrei trovato i soldi per mantenermi nella latitanza? Non potevo più reggere la tensione e, con il pretesto che non avevo assolutamente i soldi per farmi assistere da un avvocato, accantonai la questione.

    4

    In quel momento il bar era piuttosto affollato. Ero immerso nel brusio delle voci che si confondevano con il tintinnio dei cucchiaini sulle tazze. Alla radio ancora commentavano la partita di calcio in cui l’Italia aveva battuto la Danimarca, due giorni prima. Cominciava a innervosirmi la prolungata assenza del colonnello. Sia che avesse utilizzato il bagno, sia che fosse andato a telefonare di soppiatto, come avevo fatto io poco prima, la faccenda avrebbe dovuto essere già liquidata. Assurdo che mi avesse piantato in asso, ma non c’è mai da stupirsi di nulla. Tuttavia, guardai l’orologio e mi resi conto che non erano passati nemmeno cinque minuti. A volte il tempo sembra dilatarsi a dismisura o restringersi sorprendentemente, come nel caso capitatomi tre anni prima.

    5

    Quando salii sul treno a Torino, la sera del 2 dicembre 1977 ero un piccolo borghese, con un modesto lavoro da ragioniere, ossessionato dall’omicidio in cui ero coinvolto, dalle malversazioni del mio capo e da un incendio doloso, di cui ero un testimone muto, schiacciato dalla mia indifferente vigliaccheria. A quasi cinquanta anni non ero capace di farmi una famiglia e tenevo a distanza la donna che mi amava appassionatamente.

    Quando scesi da quel treno a Roma, la mattina successiva, con in mano il romanzo Lucien Leuwen di Stendhal, lasciato sul sedile da un altro viaggiatore, ero un avvocato di successo, un uomo che non teme di denunciare delitti, avevo una bella moglie e una splendida figlia.

    Lo dico meglio: di ritorno da Roma, quando scesi dal treno a Torino, la mattina del 5 dicembre 1977, deciso a riprendere il controllo della mia vita, mi era tutto chiaro: dovevo andare alla polizia per denunciare gli orrendi crimini che pesavano sulla mia coscienza, ero deciso a cambiare lavoro, desideravo ardentemente sposare Laura. Per anni mi ero attorcigliato in un groviglio di problemi insolubili, ma da quel momento in poi, come per incanto, il filo della matassa sembrò sbrogliarsi da solo. La polizia mi strapazzò un bel po’, la prima notte mi invitarono a non allontanarmi dal commissariato, pur non essendo tecnicamente in stato di fermo, quindi mi invitarono a non lasciare la città. Dovetti pregare Laura, che mi attendeva a Roma, di pazientare: ormai ci eravamo scambiati la promessa di matrimonio.

    Non avevo assolutamente i soldi per farmi assistere da un avvocato, ma finché non fossi stato rinviato a giudizio, non c’era da pensare a una difesa d’ufficio. Ero una persona informata sui fatti, non ancora formalmente sotto indagine. Consultando l’elenco telefonico, ritrovai il nome di un collega dell’università, divenuto un illustre penalista. Gli telefonai, gli esposi il caso e lui, inaspettatamente, si mostrò interessato ad assistermi.

    «Mi pagherai quando avrai i soldi» mi disse, un po’ per scherzo e un po’ sul serio.

    Uscii indenne da tutte le investigazioni. Non fui incriminato per complicità in omicidio con Lobardi, che in carcere altri detenuti accoltellarono a morte. Le indagini sulle malversazioni del mio capo e sull’incendio doloso appurarono che io non c’entravo nulla, anzi ero da encomiare per il mio spirito civico.

    Lasciai il mio lavoro da contabile e sfruttai la laurea in giurisprudenza per riprendere la pratica in uno studio legale a Torino. Studiando notte e giorno passai l’esame di stato per procuratore legale e finii per essere considerato di fatto un esperto in diritto industriale. Per l’eredità inaspettata di uno zio, non sono diventato ricco, ma ho ricevuto una bella casa e qualche mezzo finanziario.

    Due anni fa ho sposato Laura e l’anno scorso è nata Chiara.

    6

    Una volta sistemate le mie questioni, la coscienza, la famiglia e il lavoro, fui preso da un irresistibile desiderio di conoscere Lorenzo Stefani, l’uomo che aveva annotato le sue avventure sul romanzo Lucien Leuwen, rinvenuto sul treno, che mi aveva spinto a rimettere la mia vita sui binari giusti. Mi rivolsi al medesimo investigatore privato ingaggiato nel 1976 per indagare su Lobardi. Pensavo che si accontentasse di un modico compenso, ma quello era abituato ad approfittarsi e mi chiese un sacco di soldi. Non capiva che non avevo più nulla da temere e, con tutti i soldi guadagnati con me l’altra volta, un lavoretto del genere avrebbe potuto farlo persino gratis.

    Rinunciai ai suoi servizi e ci misi poco a scoprire che Lorenzo Stefani faceva il mio stesso mestiere: esercitava l’avvocatura a Verona. Bastava andare alle Poste centrali e consultare gli elenchi telefonici d’Italia. Una bella coincidenza, di quelle che costellano la mia vita. Nel suo diario aveva scritto che prima della guerra lavorava nella ditta commerciale del suocero, senza nessuna voglia e con scarsissimi risultati. Dopo la guerra, anche lui, come me, aveva tirato fuori dal cassetto la laurea in giurisprudenza, per esercitare l’avvocatura. Però l’aveva fatto trentatré anni prima di me ed era diciotto anni più grande di me.

    Alla prima occasione utile, presi appuntamento con lui e mi recai in visita a Verona, ancora inebriato per la nascita di mia figlia Chiara, pochi giorni prima. Nella mia ventiquattrore custodivo il prezioso volume.

    7

    L’avvocato Stefani mi ricevette nel suo studio molto cordialmente e con viva curiosità, non avendogli esposto per telefono i motivi della visita. Mi chiese della mia attività nel campo del diritto industriale, tanto per saggiare il terreno, ma pensava ad altro.

    Era un uomo piuttosto alto, con folti capelli castani, appena brizzolati sulle tempie, nonostante fosse vicino ai settanta anni. Invece di sedersi dietro l’austera scrivania, si accomodò su una poltroncina di fronte a me, dall’altra parte di un tavolinetto ingombro di riviste giuridiche, sopra cui spiccava il giornale La Stampa. Controllai la data: venerdì 6 aprile 1979.

    Dunque l’avvocato Stefani leggeva il giornale cui ero abituato fin da ragazzo. Forse era una coincidenza, ma tra le notizie più importanti di quel giorno figurava l’imminente successione del dittatore sovietico Brežnev.

    Pur avendo sicuramente un’agenda fitta di impegni, l’avvocato Stefani si dilungò a chiedermi della mia famiglia e di Torino, dove era stato in gioventù, conservandone memorie

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