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Ai limiti di una strada
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E-book338 pagine4 ore

Ai limiti di una strada

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Info su questo ebook

Mattia è solo un ragazzo quando decide di saltare sul treno del malaffare insieme al suo migliore amico, in breve tempo si fa strada cavalcando l'onda del narcotraffico internazionale, da Cuba alla Colombia e dal Messico a Los Angeles fino a raggiungere il Brasile, Mattia sembra non avere paura dei pericoli che corre e tratta i suoi affari affrontando boss spietati, tuttavia, la sua anima non si lascia attraversare dal mondo corrotto che lo circonda. Quando incontra Beatrice, qualcosa dentro lui cambia, forse è amore ma i due si sfiorano appena, passano gli anni, Mattia è ormai un aristocratico del narcotraffico internazionale e l'amore è soltanto un ricordo, finché un giorno...
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2020
ISBN9788831692090
Ai limiti di una strada

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    Anteprima del libro

    Ai limiti di una strada - Marianna Bianchetti

    profonde

    Mattia - 2016

    Tiro via le coperte e uno spasmo mi stringe lo stomaco. Il liquido sale in gola, so che la rabbia sta cercando un modo per andarsene, le pupille si dilatano, la cosa dura da mesi e non posso continuare, troppe crisi, troppo ravvicinate. Ho paura. Butto l’occhio alla sveglia, non sono neanche le cinque del mattino, tutti stanno dormendo e io sto buttando la vita nel cesso. Devo darmi una mossa, mi alzo dal letto e mi trascino fino in corridoio ma le gambe non tengono. Entro in bagno e per un attimo perdo l’equilibrio. Lascio scorrere l’acqua, trascino lo sguardo nello specchio: vedo quarantatré anni, segnati dal dolore. Passo una mano sulla barba, non distinguo i contorni delle labbra, gli occhi sembrano spenti. Perché mi sono ridotto così? Non voglio morire. Da un po’ ho perso il controllo, una volta in più provo a stendere le mascelle, chiudo la rabbia in un pugno e scaglio un colpo violento contro lo specchio. Il rumore dell’urto sembra scuotere le pareti e tutto va in frantumi, lo specchio, la mano, la mia vita.

    Il sangue scivola lungo il braccio, resto fermo, la ferita brucia ma voglio sentire il dolore, e finalmente lo sento, finalmente scoppio a ridere. Sono vivo. L’acqua libera il vapore, avvolto in una nuvola di fumo cerco un asciugamano e lo stringo forte. Fascio la mano e sollevo di nuovo lo sguardo, una parte dello specchio è rimasta intatta, i resti microscopici scintillano a terra. Quell’avanzo di specchio può bastare. Lascio cadere l’asciugamano zuppo di sangue, mi affretto a prendere forbici e rasoio, con freddezza e precisione faccio la barba. Quando ho finito, torno a studiare la mia faccia, ruoto lentamente la testa a destra e poi a sinistra, riconosco il mio profilo, sono ancora pallido ma il riflesso rimanda un’immagine accettabile. Mi somiglio, gli occhi spenti hanno ripreso colore, un verde perfino acceso, non mi sembro più un estraneo.

    Un pensiero mi attraversa: devo dirglielo. E così le telefono. Qualcosa è scattato, ma la voglia di affogare la disperazione nell’alcol è viva, devo aiutarmi con i farmaci.

    Da troppo tempo ho sospeso la cura, ostinato a farcela per conto mio, corro dei rischi ogni giorno e ogni giorno faccio finta di niente. Cerco la ricetta, rovisto nei cassetti, dopo qualche minuto la trovo. Stringo il foglio tra le mani, mi preparo di corsa. Nel tragitto a piedi sento pulsare la ferita, mi concentro sul dolore per non inciampare. Non posso tornare sui miei passi, entro in farmacia, la dottoressa saluta e spiega le labbra in un’espressione di cortesia, un benvenuto asettico come il camice bianco. Gli occhiali più grandi della sua faccia fissano la mia mano e perplessa dice: Non può andare in giro in quel modo.

    Non si preoccupi, resisto, sopporto il dolore e le mostro la prescrizione.

    Mi allunga il farmaco e mi chiede di aspettare. Resto immobile, la guardo defilarsi dietro la porticina. Qualche secondo e riappare, mi si piazza davanti con disinfettante e garza, mi prende la mano e senza chiedere permesso inizia a medicarmi. Spiegarle che la ferita serve per salvarmi da me stesso è inutile, potrei soltanto confonderla.

    La fasciatura è stretta come un laccio emostatico. La mano fa più male di prima.

    Rientro a casa con i medicinali in tasca, purtroppo quel bisogno di bere mi tormenta, sto tremando, un tremore snervante. L’alcol è un amico, mi dà ragione sempre, e lo so, un amico troppo accondiscendente non è un amico.

    Mi dico questa cosa per rassicurarmi ma non riesco a calmarmi. Inoltro la chiamata, solo lei riesce a darmi coraggio. Sto tremando, non ho toccato un goccio d’alcol e la barba è andata. lo dico col tono di scherzare ma ho paura. Dall’altro capo del cellulare la sua voce mi aiuta a respirare.

    Sono orgogliosa di te, non mollare Mattia, ce la puoi fare.

    Ho la sensazione che riesca a sconfiggere le mie paure ma tremo ancora.

    Quante stronzate ho commesso nella mia vita? Ho lasciato ad altri il compito di gestire le mie attività, chiunque è in grado di andare in bicicletta ma questo non fa di loro dei piloti.

    Mi dico questa cosa per rassicurarmi.

    Non posso pretenderlo da nessuno, dopotutto sono capace di trattare affari, so stare al comando accelerando e frenando quando occorre, l’ho fatto tante volte, è una cosa da nulla, ma adesso mi sento un apprendista alle prime armi, e non so da dove ricominciare. Voglio provarci, per la miseria, senza pretesti e senza deleghe. Sento di aver percorso cento chilometri, avverto la stanchezza, il fiato corto, il male alle gambe, tanta fatica per niente.

    Guardo le mie mani, tremano ancora, basterebbe un bicchiere di vino e mi volto verso la bottiglia, l’ho lasciata sul tavolo in cucina. Resisto, allontano con stizza la voglia di crollare con la faccia spiaccicata sul tavolo e addormentarmi in pace. Non faccio niente, prendo solo un bicchiere d’acqua e mando giù una di quelle pasticche, così in meno di quindici minuti posso chiudere gli occhi. I pensieri mi lasciano, tutto diventa lontano, crollo in un sonno senza sogni.

    I primi giorni sono stati un inferno, sempre con l’idea di non farcela.

    È passato un mese da quella mattina, mi accorgo che qualcosa è cambiato, la mano è guarita e mi sveglio con un piglio energico. Superare la prima settimana è stato devastante ma il tremore è cessato. Per inciso, non ho intenzione di mollare.

    Mi dico questa cosa rassicurante.

    I fastidi allo stomaco sono sopportabili, nessuna crisi. Davanti a me ho una giornata splendida, voglio solo passeggiare. Mi infilo i jeans, una felpa e in neanche cinque minuti sono in strada. Corro a passo deciso, l’aria accarezza la pelle, per un attimo mi lascio trasportare dalla sensazione di libertà intiepidita dal sole. Rallento il passo, i pensieri senza contorno lasciano il posto a immagini più chiare. Raggiungo la distesa di verde, il prato si estende ai confini della periferia, ho calcolato più di ottocento metri prima di arrivare al parco. Riprendo fiato e mi appoggio alla staccionata che divide la strada dal campo costeggiato dai platani. Ascolto il fruscio delle foglie, tutto il resto è silenzio. Ancora appoggiato alla staccionata ripenso al periodo in cui ero circondato da migliaia di persone, un via vai di parassiti e puttane pronti a elargire sorrisi fasulli in cambio di qualcosa. Mi dico per rassicurarmi che questo era il prezzo della mia agiatezza.

    Un gruppo di ragazzi in tenuta ginnica mi passa accanto, due di loro mi lanciano un’occhiata allegra, ricambio il sorriso e abbasso lo sguardo. Un pensiero mi attraversa: Io sono Mattia, e sono solo.

    Che cosa rimane di quel periodo? Chi è rimasto vicino a me?

    Passo mezzora a riempirmi la testa di domande. Devo respirare. La distesa di verde è ancora lì, intatta davanti ai miei occhi, mi massaggio le palpebre e rallento il pensiero, i ricordi si confondono, resto a fissare le ombre in movimento delle foglie e mi fa un effetto quasi ipnotico, le domande svaniscono.

    Il sole adesso è alto, d’istinto seguo un aereo con lo sguardo, sembra squarciare il cielo, resto immobile fino a quando non viene risucchiato oltre le nuvole. Quante volte sono stato lassù, pronto a raggiungere nuovi posti, posti ormai lontani.

    Sfilo il cellulare dalla tasca, c’è un messaggio e lo leggo. Buongiorno amore mio.

    Sorrido: Io sono Mattia e non sono solo.

    Guardo l’ora, sono già le dieci, ho perso la misura del tempo. Riprendo a camminare verso casa, a metà strada sento la presenza di qualcuno alle mie spalle, mi volto e incrocio gli occhi di un cane. Il randagio mi guarda, è un cucciolo e vuole rubarmi una carezza. Non saprei dire quante volte mi sono sentito perso come lui. Mi chino per accarezzarlo poi riprendo il passo, mi sta seguendo ancora, lo lascio fare, ma lo stomaco brontola e mi fermo al solito bar. Ordino un tramezzino prosciutto e formaggio. C’è troppa gente lì dentro, il ragazzo al bancone è solo, irritato infila il tramezzino in un sacchetto e me lo allunga, a stento saluta, esco e divido il prosciutto con il cane, lui ringrazia scuotendo la coda e gira all’impazzata su se stesso. Il ragazzo dietro al bancone osserva la scena e sorride.

    Continuo a camminare, il randagio non mi molla.

    Gli urlo contro: Vai via, vattene ho detto mi guarda impaurito e se ne va con la coda tra le gambe. Non so cosa mi sia preso, ho gli occhi gonfi di lacrime, li asciugo con la manica della felpa.

    Entro nell’atrio, scarto l’idea dell’ascensore, non ho fretta di rincasare.

    Al quinto piano infilo la chiave nella toppa, varco la soglia e trovo i miei quattro figli già svegli. La più grande cerca un vestito adatto all’appuntamento del primo pomeriggio. Asia sta facendo i compiti con Elisa.

    Sposto lo sguardo sul piccolo Simone, assorto dai cartoni animati, sette anni di vita stampati nel mio cuore. Provo un moto di gioia e un rinnovato senso di gratitudine. Non è forse questo lo spettacolo più bello da vedere?

    Le mie auto di lusso, i viaggi, i ristoranti stellati non avrebbero mai potuto sostituire la meraviglia che ho davanti adesso.

    Quanto alla mia convivenza con Azzurra è evidente che siamo arrivati al limite della sopportazione, le liti all’ordine del giorno, gioca sui miei sensi di colpa e quando non accade, tutto oscilla tra senso del dovere e noia.

    Non si può fuggire dalla propria storia ma si può sempre ricominciare.

    Tutti ci accorgiamo del valore di qualcosa quando lo perdiamo.

    E se potessimo stravolgere i piani? Se riuscissimo a trovare la forza di cambiare? Perché aspettare?

    Per sopravvivere devo guardare i miei figli negli occhi. Oggi c’è il sole così li porto fuori. Di sabato le strade sembrano vivibili, la corsa frenetica dei pendolari si riduce, c’è chi approfitta per fare spese in centro, alcuni si perdono tra le vie fiancheggiate da lussuose gioiellerie, altri ancora evitano dispendiose tentazioni concedendosi il piacere di un gelato.

    Mi fermo davanti alla gelateria, tiro fuori qualche spicciolo, li conto, non sono sicuro di averne abbastanza, controllo il prezzo del gelato prima di entrare. Ordino dei coni grandi per loro e uno piccolo per me.

    Sono rimasto con tre euro in tasca ma l’amarena è buonissima e ogni cosa che sa di buono mi porta inevitabilmente a lei, così provo a chiamarla in uno dei pochi momenti di tranquillità. Il telefono squilla e intanto controllo i miei figli, giocano nel parco sporchi di gelato fino alla punta dei capelli.

    Pochi secondi di attesa.

    Ciao amore mio dove ti trovi? chiede.

    Davanti al parco, sono stato assunto, faccio il papà a tempo indeterminato fino al prossimo incarico dico per farla sorridere.

    Beatrice conosce la mia situazione finanziaria, la disperazione è uno stato che non le somiglia: Tu puoi farcela ripete spesso guardandomi con aria seriosa, per lei sembra una certezza, è una donna caparbia, quell’ostinazione di credere nella vita, la capacità di vedere oltre l’apparenza, disseppellire.

    Non ho più un lavoro, il sogno del ristorante è fallito, restano le spese, strozzini senza scrupoli e quattro bocche da sfamare.

    Beatrice all’altro capo della cornetta continua a parlare per conto suo. Forse ha ragione lei. Mattia ci sei?

    Ci sono dico, e intanto mi chiedo: sarò capace di affrontare tutto?

    Mattia - 1993

    Ancora urlano. Tento di riaddormentarmi, metto la testa sotto il cuscino, spero in una tregua. Non c’è modo di far cessare la lite, mi alzo dal letto controvoglia e arrivo in sala da pranzo, siamo alle solite. Conosco a memoria ogni parola gridata, a dire il vero si tratta di parolacce in dialetto romanesco. Questo è il mio pane quotidiano, discussioni accese a causa di affari andati a puttane.

    I miei genitori lavorano onestamente e però la loro principale fonte di denaro proviene da un’entrata secondaria, prestano soldi. Non è un lavoro di cui andare fieri, ma fa parte della mia realtà.

    Per un certo periodo tutto funziona alla grande. Il rovescio della medaglia si è verificato quando la gente non riusciva più a restituire i prestiti.

    Sono soltanto un ragazzo, non ne posso più di respirare quest’aria opprimente. Devo inventarmi qualcosa, servono soldi. Ho messo via due milioni di lire, per un qualunque ragazzo di diciotto anni è un bel gruzzoletto, ma a differenza dai miei coetanei questa cifra per me equivale a poco più di niente.

    Mia madre è una donna attraente e piuttosto giovane, mi ha dato alla luce che aveva diciassette anni, certo mi vuole bene ma non ricordo un solo abbraccio affettuoso da parte sua, neanche una carezza.

    Seguiva le istruzioni di una religione non cattolica, a sentir lei un qualsiasi cartone animato era opera del demonio, così venivo spesso privato della gioia di vederne uno. Ricordo una sera in particolare. Assorto dai cartoni mi ritrovo a sorridere davanti alla tivù. Mia madre è in cucina alle prese con i fornelli quando di colpo entra in camera e spegne la televisione, vietandomi di riaccenderla. Avevo cinque anni e mi sentivo in colpa per aver commesso qualcosa di sbagliato senza riuscire a capirne le ragioni. Questi rimproveri mi lasciavano smarrito, purtroppo la sensazione di confusione mi ha accompagnato per anni. Ogni Natale era un incubo, tutti i bambini scartavano regali aspettando la mezzanotte con trepidazione, io restavo a guardare la stanza vuota, per me non c’era nessun regalo da scartare, non una ghirlanda, non un albero vestito a festa.

    Mi sentivo un emarginato durante tutto il periodo delle feste e le crisi di epilessia non aiutavano, si affacciavano improvvise rendendomi fragile, io non mi sentivo un bambino diverso, io ero diverso.

    Il malessere mi ha portato a rifugiarmi in me stesso, scovavo qualche angolo nascosto per sfogare la mia frustrazione. Avrei voluto gridare la mia rabbia al mondo, non ero soltanto il frutto di un matrimonio riparatore, ero un bambino, eppure non urlavo, piuttosto implodevo.

    Così ho imparatoa celare la mia sensibilità dietro il silenzio e nel silenzio lasciavo andare la mia immaginazione. Vivevo in un’altra città, avevo un’altra casa, fingevo di essere un altro, un bambino coraggioso, gelido, impermeabile a tutto, soprattutto alla paura.

    Col tempo quel bambino è cresciuto con me, è diventato la mia ombra. Sono riuscito perfino a capire mia madre, donna poco stabile nata e cresciuta in una famiglia alla periferia di Roma con mia nonna che viveva la sua religione a livello maniacale. Doveva aver sofferto parecchio anche lei ma un bambino queste cose non può capirle. In più mio padre, assai più grande di mia madre, era poco presente e sempre al lavoro.

    Mi rendo conto di non aver avuto punti di riferimento né slanci affettuosi, so di aver perduto una parte importante dell’infanzia.

    Malgrado le carenze affettive, la vita mi ha ricompensato con un grande dono, e quel dono ha una faccia e un nome, all’età di dieci anni ho conosciuto Orso.

    Un pomeriggio umido e afoso di fine luglio, seduto sul muretto di fronte alla basilica di San Paolo, trafficavo con il pacchetto di gomme da masticare, non riuscivo ad aprirlo, il caldo aveva appiccicato lo zucchero alla carta. Davanti a me un ragazzino cicciottello in canottiera e calzoncini girovagava in bicicletta fregandosene del traffico, qualche automobilista lo sfiorava imprecando ma lui pedalava sostenuto, i riccioli biondi gli cadevano sugli occhi, il faccione tondo non mi era sconosciuto, lo avevo incrociato diverse volte nelle vie del quartiere, come lui andavo spesso in bici e anch’io me ne infischiavo dei passanti.

    Il pacchetto di gomme non voleva saperne di aprirsi, quando il ragazzino mi lanciò un’occhiata, si avvicinò arrestando la sua corsa, poggiò un piede a terra e ancora con le mani sul manubrio domandò: Serve una mano?

    Feci di sì e gli lanciai tutto il pacchetto. Lo prese al volo e dopo due secondi scartò l’involucro.

    Come hai fatto? Sono tre ore che ci provo

    A gomme e caramelle non mi batte nessuno rispose ridendo.

    Gli regalai metà del pacchetto e iniziammo a chiacchierare prima ancora di presentarci.

    A quel punto abbiamo scoperto di avere tante cose in comune, tifavamo per la stessa squadra di calcio, avevamo la stessa passione per le bici e vivevamo nello stesso quartiere. Io sono Mattia, tu come ti chiami? gli chiesi prima di salutarlo.

    Roberto, ma per gli amici sono Orso.

    Da quel giorno, dopo la scuola, ci trovavamo pronti a partire con le nostre bici, a poco a poco altri amici ci tenevano compagnia nelle nostre scorrazzate.

    Orso aveva un aspetto un po’ respingente ma un carattere gioviale, il suo sorriso era contagioso, gli piaceva divertirsi sopra ogni cosa, mentre io avevo un aspetto piacente, occhi verdi e labbra carnose, ma soprattutto ero uno spirito rivoltoso, una testa calda quasi ingestibile. Se qualcuno mi provocava perdevo il controllo, pestavo di botte chiunque mi capitasse a tiro, infischiandomene delle conseguenze. Gli amici osservavano ridacchiando il mio istinto illegale e si dileguavano quando si avvicinava il pericolo, tutti scappavano tranne Orso, lui non si batteva con me, lui si batteva per me.

    Tante volte cercava di mettermi in guardia dai pericoli che correvo, ma finiva sempre per seguire le mie orme, come il braccio e la mente, condividevamo ogni cosa, perfino le famiglie, casa di uno era casa dell’altro.

    Le serate più belle le passavamo a pescare, partivamo in motorino con trentamila lire in tasca, una busta di carne per la brace e un po’ di fumo, noi due seduti sulla spiaggia a fissare la punta della canna che bruciava, progettando un futuro pieno di soddisfazioni. Notti interminabili passate a ridere fino a sentire lo stomaco contorcersi. E restano ancora incontaminati quei ricordi.

    Una sera di settembre, dopo aver passato un’intera giornata insieme, abbiamo deciso di unirci in un patto, stavamo chiacchierando allegri nella mia stanza quando ho tirato fuori il coltellino dalla tasca. Era il momento giusto. Orso, emozionato, ha aspettato in silenzio, intanto io ho girato il palmo della mano destra per infilare la punta del coltello nella carne. Il taglio preciso, lo sgorgare del sangue, e in un attimo Orso ha fatto lo stesso, occhi negli occhi le nostre mani si sono unite in una stretta potente: Fratelli per sempre.

    Purtroppo il cervello riprende a correre per salvaguardare la mia famiglia e neanche Orso può aiutarmi adesso.

    Devo concentrarmi e rinunciare alle sere insieme ai miei coetanei, alla possibilità di conoscere le ragazze. Il mio carattere spavaldo si sgretola davanti agli sguardi provocatori delle belle ragazze, per loro è facile intuire la mia timidezza.

    A quindici anni mi sono legato sentimentalmente ad Azzurra, una ragazza alla mano, una moretta con gli occhi chiari di due anni più grande di me. Abitava nel mio quartiere, la conoscevo dai tempi delle elementari, aveva un aspetto curato e un animo sognante, mi sono invaghito del suo sorriso e ho lasciato che presto entrasse a far parte della mia famiglia.

    Il rapporto con lei mi regala tutt’ora emozioni, eppure, l’innamoramento non basta a frenare le mie inquietudini, il mio chiodo fisso sono i soldi. Devo guadagnare e devo farlo subito. Non concepisco alcuna possibilità di vita senza denaro e per denaro sono disposto a tutto.

    L’estate sta per finire, passeggio nei pressi del quartiere, strade troppo trafficate, sempre intasate da un movimento inarrestabile di auto.

    Per definizione si tratta di un quartiere periferico ma gode di alcuni punti di forza, fra cui la basilica di San Paolo, seconda punta di diamante del Vaticano.

    Cammino svogliato senza un pensiero né una meta precisa.Sono stufo di girare a vuoto, a parte il movimento di auto c’è poca gente in giro, parecchi sono ancora in ferie.

    Altri due passi e lo scroscio delle voci di un gruppo di ragazzi cattura la mia attenzione, mi fermo un istante a osservarli, sono per lo più coetanei che si scambiano dell’hashish, mi avvicino a loro ma non voglio dare nell’occhio, inizio a digitare un numero di telefono inesistente sul cellulare e intanto riesco a sistemarmi abbastanza vicino da ascoltare i discorsi. Si lamentano dello scarso quantitativo di fumo. Resto con il cellulare incollato all’orecchio quando, arriva l’idea, se fossi io a procurargli la roba? Se fosse quella la strada per risolvere i miei guai? Dopotutto potrei procurarmene un quantitativo sufficiente e rivenderla, insomma far fruttare i due milioni di lire. Riprendo a camminare, non sono più annoiato. Adesso il mio cervello vortica.

    La domanda che mi tormenta è una, a chi posso rivolgermi? Penso a lungo prima di muovermi, valuto ogni possibilità. E alla fine trovo la soluzione.

    Contatto Damiano, uno spacciatore di qualche anno più grande di me, lo conosco grazie ad amici in comune. Damiano è sempre strafatto e non fa niente per nasconderlo, ha lo sguardo assente e cammina trascinando i piedi, i capelli sono raccolti in un codino lungo un chilometro. Ma al di là del suo aspetto, del quale non me ne frega un cazzo, è invischiato da tempo nel giro dei traffici.

    Recupero il suo numero da una vecchia agenda e lo contatto.

    Due giorni dopo sono in auto, mi ha dato appuntamento alle dieci di sera, la via è poco frequentata, mi fermo davanti a un passaggio a livello in disuso, mi guardo intorno ma non vedo granché, è troppo buio qui. Passano un paio di minuti e un auto accosta di fianco alla mia, è Damiano. Scendiamo e insieme attraversiamo un campo, inizio a distinguere i contorni di un edificio, un vecchio capannone.

    Qualcuno ci aspetta davanti all’accesso principale.

    Su entra, qui trovi quello che serve dice Damiano.

    Lo seguo e mi trovo a camminare tra ragazzi dalla stazza imponente, tutti di colore, gli sguardi puntano dritto nella mia direzione. Nessuno parla, per un attimo penso di non uscire intero da quel posto.

    Lui sembra tranquillo, io molto meno, si muove con disinvoltura tra i ragazzi, pochi passi e un tizio gli allunga un sacchetto. Damiano mi guarda e fa segno di sì con la testa, estraggo dalla tasca i contanti e pago. Non vedo l’ora di andarmene.

    Raggiungo la macchina, accendo il motore e mi viene da ridere, me la sono cavata. Ho un chilo di hashish, un chilo di soldi.

    Le mie idee sono piuttosto chiare, so come spingerla ma non so quanto tempo impiegherò a darla via. Decido di iniziare dagli amici di quartiere e passo con facilità agli amici degli amici. La richiesta della roba è talmente alta che l’ho finita in meno di una settimana.

    A conti fatti mi trovo una somma di denaro tra le mani, maneggiare soldi è una cosa che mi riesce facile.

    Ma quanto può fruttare un giro d’affari così?

    Mi sto addentrando in un ingranaggio in cui l’illecito viaggia seguendo itinerari sconosciuti. Non dormo più, studio il modo per allargare il traffico e continuo a investire ancora, senza preoccuparmi del rischio.

    Orso subisce in silenzio il mio brusco cambiamento, ho sempre meno tempo per tutti, anche per lui, le mie tasche sono insaziabili.

    I soldi aumentano ma qualcosa mi disturba, non ho spazio a sufficienza per nascondere le quantità crescenti di hashish, mi serve un tipo di merce meno ingombrante e altrettanto redditizia. Cosa può rendere tanto denaro in breve tempo?

    Devo spingermi oltre, salire il gradino, c’è soltanto una roba all’altezza delle mie aspettative: cocaina.

    Parlo con Damiano e prendo nuovi contatti. La coca arriva nelle mie mani. Ora devo trovare nuovi clienti, il target sale, la cocaina è un lusso costoso, non alla portata di tutti.

    Inizio con alcuni amici dei miei zii e mi faccio strada tramite loro, finisco col piazzarla in diversi locali a Roma.

    Vado avanti per gradi e li supero, il traffico cresce ma Damiano si sta rivelando una perdita di denaro: è irritante e sempre strafatto di coca, non va bene, non ho più bisogno di lui. Adesso posso muovermi da solo.

    Dalla strada ho imparato abbastanza, però mi serve un braccio destro, una persona su cui contare e a cui delegare parte del lavoro.

    Chi meglio di Orso? Conosce tutto di me e mi fido ciecamente di lui.

    Così l’ho scelto.

    Prendo le chiavi dell’auto. Dieci minuti di strada e sono davanti al suo portone, mi sento eccitato all’idea di metter su una piccola impresa tutta nostra, tiro un lungo respiro e suono il campanello, da quel momento in poi la nostra amicizia potrebbe trasformarsi in un vincolo, ma in fondo quel vincolo lo abbiamo siglato con il sangue parecchi anni prima.

    Un trillo secco, qualche secondo di attesa e Orso viene ad aprire.

    Mi accoglie con il suo sorriso, la madre mi saluta dalla cucina,

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