Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La saga dei Dumont. Non ti riconosco più
La saga dei Dumont. Non ti riconosco più
La saga dei Dumont. Non ti riconosco più
E-book307 pagine4 ore

La saga dei Dumont. Non ti riconosco più

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un'autrice bestseller di «New York Times», «Wall Street Journal» e «USA Today»

Nella dinastia a capo di un imponente impero della moda, i Dumont, nessun erede ha una reputazione peggiore di quella di Pascal. Ogni trasgressione, per lui, è un piacere indecente. Ogni donna, una conquista. Ma nessuna conquista si è mai rivelata più impegnativa della sua nuova assistente personale, Gabrielle Caron. È brillante, bellissima e rappresenta un mistero che Pascal non vede l'ora di risolvere.
Gabrielle, figlia della governante di casa Dumont, è tornata all'improvviso dopo essere sparita otto anni prima. Non è più l'adolescente goffa di un tempo: ha accumulato una buona dose di determinazione e si è fatta assumere da Pascal, decisa a farsi valere. Ma non osa rivelare la vera ragione per cui è tornata.
Con il passare del tempo, le notti si fanno più intime e Gabrielle si rende conto che Pascal non è così inaffidabile come credeva. E comincia a confidargli i suoi segreti. Segreti in grado di insegnare a entrambi che innamorarsi potrebbe significare una speranza di redenzione. Come anche salvare la vita stessa di Gabrielle, minacciata dai pericoli di un passato oscuro e scandaloso…
Karina Halle
è cresciuta a Vancouver, in Canada. Ha una laurea in sceneggiatura e una in giornalismo e ha collaborato con diverse riviste. È autrice di numerosi libri, tra cui la serie Dream (Patto d’amore, Offerta d’amore, Gioco d’amore, Bugie d’amore, Debito d’amore), il cui primo volume è stato in classifica per settimane su «New York Times», «Wall Street Journal» e «USA Today». Con la Newton Compton ha pubblicato anche Dopo tutto sei arrivato tu, Ricordati di me, scritto con Scott Mackenzie, Il principe svedese, Un cuore di ghiaccio, Il nostro amore quasi perfetto eTutti i problemi dell'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2021
ISBN9788822749321
La saga dei Dumont. Non ti riconosco più

Correlato a La saga dei Dumont. Non ti riconosco più

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica contemporanea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La saga dei Dumont. Non ti riconosco più

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La saga dei Dumont. Non ti riconosco più - Karina Halle

    Prologo

    Gabrielle

    «Non devi aver paura di me».

    Mi irrigidisco, è alle mie spalle. Speravo di essere al sicuro in cucina, è uno spazio aperto dove chiunque può vederci, ma chiaramente non è così.

    Non esistono luoghi sicuri in questa casa.

    Soprattutto di notte.

    «Gabrielle». Pronuncia il mio nome. Stavolta con voce morbida, quindi più infida. Ha usato quella voce con me così spesso negli ultimi anni. Un tempo, quando ero giovane e inviolabile, si limitava solo a sorridermi. Vorrei aver compreso allora quanta malizia ci fosse in quel sorriso.

    Non voglio voltarmi ma devo. Non voglio essere colta alla sprovvista come in passato.

    Mi giro quel tanto che basta a guardarlo da sopra la spalla. «Posso aiutarla, signore?»

    «Vorrei una bottiglia di Bordeaux, annata 1986. In camera mia. E vorrei che ti sedessi a bere con me».

    Conosco la prassi. Ho provato a dire di no ma non funziona mai. Si arrabbia solo di più. Tutto diventa ancora più doloroso.

    «Non credo che sua moglie ne sarebbe felice», rispondo e nel momento stesso in cui pronuncio quelle parole, capisco di aver sbagliato.

    Alle mie spalle tutto tace, un silenzio angoscioso, simile all’assenza di suoni in una foresta prima che un vulcano esploda, incendiando ogni albero.

    Mi volto del tutto e lo vedo sulla soglia. La luce del corridoio illumina la sua sagoma e gli nasconde il volto. Non lo rende meno spaventoso.

    «Sai che è meglio non menzionarla», dice, con voce astiosa.

    Il cuore mi ronza nelle orecchie, accelera, diventa un rullo di tamburi e il dolore degli ultimi giorni mi colpisce allo stomaco, tanto che vorrei ripiegarmi su me stessa. Resisto, mi conficco le unghie nei palmi. Lo faccio così spesso che sotto le dita sento le cicatrici.

    Sto morendo di paura.

    Non posso subire ancora.

    «Mi scusi», rispondo con voce tranquilla, anche se non lo sono per niente. Mi dispiace solo non essere stata abbastanza veloce. Avrei dovuto correre nella mia stanza quando ne ho avuto la possibilità, anche se niente riesce a fermare la sua ostinazione.

    Sospira rumorosamente, poi si raddrizza, solleva il mento. «Non importa. Tanto non c’è. Non c’è nessuno. Non finirai nei guai, Gabrielle».

    «Io… non mi sento bene», ribatto distogliendo lo sguardo. «Come sa l’altro giorno ero dal dottore».

    «Certo. Come mai? Hai qualche problema?».

    Non posso raccontargli la verità. Si infurierebbe, o forse sarebbe fiero di me e non so cosa sarebbe peggio.

    «Sto bene», mento.

    Non starò mai bene.

    Non dopo ciò che ha fatto.

    Non dopo ciò che ho dovuto fare io.

    In un attimo, prima ancora che possa rendermene conto, non è più dall’altra parte della cucina. Mi è addosso, mi schiaccia contro il bancone con una mano intorno alla gola. Spinge tanto che il bancone mi si conficca nei lombi, provocandomi fitte di dolore.

    «Sai una cosa?», sibila con la faccia a pochi centimetri dalla mia. «Credo che tu stia mentendo. E non credo neanche che tu sia andata dal medico. Volevi solo un cazzo di giorno libero. Volevi oziare, non è vero?».

    Fatico a respirare. Tasto il bancone in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa, con cui difendermi. Gli piace il gioco duro e vivo nel terrore che possa spingersi troppo oltre, più di quanto non abbia già fatto.

    Sono certa che sarebbe in grado di uccidere senza farsi troppi problemi.

    La presa sulla mia gola si fa più stretta, le sue dita affondano, come a confermare il mio timore. Lo guardo negli occhi, quegli orribili occhi scuri illuminati solo dalla luce blu dell’orologio del microonde. Brillano come fuochi di ghiaccio.

    «Credi di essere migliore di me, non è vero?», domanda con voce aspra e sempre più alta. «Credi di essere speciale, Gabrielle? Che io provi qualcosa di speciale per te? No. Non sei niente per me, servi solo al mio divertimento, fino a quando non mi avrai annoiato. E quando sarò stufo, mi sbarazzerò di te». Si fa ancora più vicino. Sento la puzza di alcol del suo alito. «Ma sono io a decidere. Non tu. E quando ti ordino di portarmi una bottiglia di Bordeaux 1986, devi obbedire, cazzo».

    Sento gli schizzi di saliva arrivarmi sul viso. Provo a parlare ma non ci riesco. Non respiro.

    Stringe sempre di più e tutto inizia a diventare nero.

    «Sei spazzatura», mi ringhia contro e poi, con un passo indietro, mi lascia andare.

    Boccheggio, mi chino, ansimo per riprendere fiato, mi brucia la gola. Sento la biancheria diventare umida. Sangue, probabilmente. Mi ricorda che, costi quel che costi, non lo seguirò nella sua stanza.

    Se vuole stuprarmi, lo faccia qui.

    Sarò pronta.

    Al pensiero, si risveglia quel poco di forza che mi è rimasta.

    Pian piano mi raddrizzo e, con la coda dell’occhio, guardo il cassetto dei coltelli. È vicino ma temo di non riuscire a raggiungerlo senza insospettirlo.

    «Bene», dice indicandomi, «riprendi fiato e portami il vino».

    Il vino è in cantina, odio sempre scendere là, e stasera la paura mi riempie dalla testa ai piedi. Potrebbe fare qualsiasi cosa laggiù. Potrebbe rinchiudermi e tenermi lì finché vorrà. Viva o morta. Dopo avermi riempito di botte, magari. Se ne accorgerebbe qualcuno? Mia madre se ne renderebbe conto?

    È questa la mia più grande paura. Che se sparissi lei neanche se ne accorgerebbe, accecata com’è dal senso del dovere e dalla devozione; è talmente plagiata che non le importerebbe. Annuisco e raccolgo i pensieri nel tentativo di rimandare la discesa in cantina. «Prima prendo il cavatappi e i bicchieri», dico e vado verso il cassetto. Lo apro, vedo i coltelli, ma in un attimo mi è dietro, incombe su di me. Afferro il cavatappi, richiudo il cassetto e cerco di sottrarmi, ma lui mi sposta i capelli e mi posa le labbra sul collo.

    Mi serve tutta la forza che mi resta per non rabbrividire, per nascondere la repulsione.

    «Non porti mai i capelli sciolti», mormora. Stringo più forte il cavatappi. «Dovresti farla diventare un’abitudine».

    Non rispondo. Ho gli occhi chiusi, prego solo che si allontani.

    Invece si schiaccia contro di me, sento la sua erezione.

    «A pensarci bene, non credo che ci serva il vino», dice e poi all’improvviso mi afferra i capelli e mi tira indietro la testa. Un grido acuto mi muore sulle labbra. «Credo che non ci serva andare da nessuna parte».

    Sento la cerniera dei suoi pantaloni aprirsi, la sua mano tra le gambe che mi alza la gonna mentre con l’altra mano continua a tirarmi indietro la testa tanto forte che temo mi spezzi la schiena.

    «No», esclamo come ho già fatto tante volte, con voce rotta e ansimante. «Toglimi le tue cazzo di mani di dosso».

    L’ultima frase è una novità. Non l’ho mai detto prima.

    Ho così tanta paura che è come se non ne avessi più. Come se il terrore e la consapevolezza di ciò di cui questo mostro è capace si fossero trasformati in qualcosa di più grande della paura stessa.

    Qualcosa che esige giustizia.

    Che brama vendetta.

    Non accadrà più.

    Di colpo mi lascia i capelli e mi costringe a voltarmi, prima di staccarsi appena da me e colpirmi in faccia con un ceffone. Il mondo diventa un turbinio confuso, la guancia esplode in acuminate schegge di dolore e io mi accascio su un fianco, aggrappandomi a stento al bancone per non cadere.

    Ma nella mano stringo ancora il cavatappi.

    Si avvicina di nuovo e questa volta urlo. Sono frasi senza senso, grida acute piene di dolore e terrore e, quando cerca di afferrarmi, gli conficco il cavatappi nell’avambraccio, affondando il più possibile.

    Ora grida anche lui, un urlo violento, agghiacciante. Ho appena il tempo di provare a correre via mentre è distratto.

    «Puttana!», sbraita e si allunga per tentare di afferrarmi.

    Io però sono abbastanza veloce da arrivare fino alle portefinestre che danno sul cortile.

    Proprio mentre sblocco la serratura, dall’altra parte appare mia madre in pigiama. Mi fissa.

    «Ho sentito urlare!», esclama quando apro la porta. Mi squadra al volo, poi mi scansa ed entra, diretta verso di lui. «Che è successo?».

    Ricurvo, si tiene il braccio per fermare l’emorragia, il cavatappi è a terra. «Mi ha colpito!».

    Mia madre sussulta e mi guarda. «Gabrielle».

    «È un maledetto mostro!», urlo paonazza, con il cuore sul punto di schizzarmi fuori dal petto. «Mi ha fatto del male». Faccio una pausa per cercare di respirare: le parole successive sono troppo difficili da pronunciare, anche a me stessa. «Lui… mi ha violentata, mamma».

    Sgrana gli occhi e mi osserva più da vicino, come se faticasse a credermi, come se non mi fossi appena messa a nudo, inerme e vulnerabile, mostrandole le ferite più profonde, quelle che scavano l’anima e non guariscono mai.

    «Racconta solo bugie», ribatte lui, quasi ringhiando, e afferra uno strofinaccio da premere contro il braccio. «Da quando l’hai portata qui, non ha fatto altro che tentare di sedurmi».

    «No», esclamo, afferrando il braccio di mia madre affinché mi guardi, mi veda davvero, mi ascolti. È già capitato con mio padre, non vede che sta succedendo di nuovo? «Ti prego, mamma, per favore, ascoltami. Credimi. Non vedi cosa sta facendo? Sta cercando di metterti contro di me. Ti ha fatto il lavaggio del cervello per farti credere di essere il tuo salvatore, ma non lo è. Sarà la tua rovina. Ha già rovinato me».

    «Se continui a dire a tua madre queste bugie, licenzierò entrambe e mi assicurerò che nessuna di voi ritrovi lavoro. È questo che vuoi, Gabrielle? È questo che vuoi per tua madre?»

    «Figlio di puttana!», urlo.

    «Al contrario di quel che si crede, mia madre era una persona gentile. Almeno con mio fratello, Ludovic. Se stai cercando di insultarmi, faresti meglio a riprovare». Viene verso di noi e ora, grazie alle luci con sensori di movimento del cortile, riesco a vedere la sua faccia.

    È orribilmente compiaciuto. Come se sapesse di aver vinto.

    Perché è così.

    Perché non importa a cosa deciderà di credere mia madre, non importa se sceglierà lui al posto mio e mi tradirà. Io non la tradirò. Non le costerò il lavoro, anche se è un lavoro che un giorno potrebbe ucciderla.

    So che non ho altra scelta. Devo andare via.

    Non posso restare.

    Non sopravvivrei.

    «Ora cosa accadrà, Gabrielle?», chiede lui. «Continuerai a trattare la tua povera madre come un’idiota e a mentirle spudoratamente, o hai intenzione di scusarti per avermi pugnalato con un cazzo di cavatappi?».

    Lo fisso, con tutta la forza che mi rimane, ed è come guardare nell’abisso. Questa volta, però, nel guardare dentro di me, l’abisso mi dà uno scopo.

    Mi dà sicurezza e determinazione.

    «Mi dispiace di averla pugnalata con un cavatappi», ripeto e le parole escono così pulite e lucide che mi domando se sono già entrata nel personaggio.

    «Oh, perché diavolo l’hai fatto, Gabby?», grida mia madre, battendo i piedi in uno scatto d’ira. Sembra sempre tornare una ragazzina in sua presenza. «Perché hai fatto una cosa simile al signor Dumont, con tutto quello che fa per noi?».

    Tento di ingoiare il groppo che ho in gola ma non ci riesco. «Ultimamente credo di non essere in me», rispondo.

    Lo guardo ancora una volta, consapevole che la libertà è dietro l’angolo, che non ho più paura di andare via.

    E che non tornerò mai più.

    Capitolo uno

    Pascal

    Otto anni dopo

    Tutto in quella lettera urlava ricatto. Dalla busta senza mittente alle enigmatiche parole stampate che conteneva.

    Il mondo saprà cosa hai fatto.

    Ridacchio, anche se nel petto avverto una punta di timore. Chiunque l’abbia spedita guarda troppi film. Vuole solo spaventarmi ma non sa come fare. Non c’è neanche una velata minaccia, solo una millantata conoscenza.

    Cosa ho fatto? Molte cose. Nessuna buona nel senso stretto del termine, o meglio buona ma solo secondo me.

    Eppure, nonostante la melodrammaticità della lettera, sento che dovrei prenderla sul serio.

    Perché, nel profondo, so bene a cosa si riferisce.

    Quale sia il sospetto.

    È passato quasi un anno da quando mio zio, Ludovic Dumont, è morto durante il nostro annuale ballo in maschera. I dottori stabilirono che era stato un attacco di cuore a ucciderlo, sebbene solo poche settimane prima avesse superato tutti i controlli medici.

    Alcuni, come mia cugina Seraphine e alla fine anche Blaise, mio fratello, hanno incolpato mio padre, accusandolo di aver ucciso Ludovic a sangue freddo per rilevare l’azienda.

    Si sono occupati di loro. Blaise e Seraphine hanno lasciato cadere le accuse in cambio di una nuova vita a Dubai. Se non avessero accettato, avrebbero pagato con la vita. Non è mai stato un segreto quanto mio padre sia spietato. Probabilmente ha commesso più crimini di quanto io possa anche solo immaginare. Non avrei mai creduto, però, che si sarebbe scagliato contro la sua famiglia in quel modo, che sarebbe stato disposto a uccidere mia cugina per impedirle di diffondere la sua verità.

    Immagino che Seraphine non abbia dimenticato, motivo per cui la lettera mi disorienta. È con Blaise a Dubai da ormai circa cinque mesi. (Credo di essere felice per loro, anche se ancora trovo il fatto che stiano insieme – pur non avendo un legame di sangue – piuttosto inopportuno). Perché ricominciare con le accuse quando ha così tanto perdere? E perché farlo in un modo così sciocco, visto che non ha mai avuto problemi a dire le cose in faccia?

    C’è solo un modo per scoprirlo.

    Mi alzo dalla scrivania e guardo fuori dalla porta. Il corridoio è vuoto. La casa è silenziosa tranne che per il debole brusio della televisione nella stanza di mia madre, nell’altra ala.

    La maison Dumont ha una planimetria particolare. Questa vasta tenuta è la stessa in cui sono cresciuto. So che molte persone si chiedono perché io, a trentun anni, viva ancora qui, pur possedendo diversi appartamenti a Parigi e proprietà in tutto il mondo. A parte il fatto che è il luogo in cui mi sento più a mio agio, la casa è in pratica un castello. Vivo nell’ala est, dove ho lo studio, la camera da letto e un ingresso indipendente. Una privacy più che sufficiente.

    Prima, almeno.

    Da quando Blaise se n’è andato, mio ​​padre è diventato sempre più sospettoso nei miei riguardi, come se dovessi essere il prossimo ad accusarlo.

    Non sarei sorpreso se nel mio studio ci fosse una microspia, ragione per cui mi sposto in camera da letto per telefonare.

    Mi siedo sul divano e compongo il numero, anche se qui è tardi e a Dubai ancora di più. Squilla e squilla, sto per riattaccare quando Blaise finalmente risponde.

    «Cosa vuoi?», chiede con voce stanca. Devo averlo svegliato.

    «È così che ci salutiamo adesso?».

    Silenzio. Poi: «Cosa vuoi, Pascal?».

    Blaise e io non siamo mai stati molto legati. Un tempo credevo lo fossimo, se non altro per il vincolo di parentela che ci unisce. Siamo fratelli e quasi coetanei, ma non c’è altro. Nell’ultimo anno, la distanza tra noi è diventata solo più evidente. Da quando è a Dubai, è quasi incolmabile. Non che mi importi molto. Non avrei fatto strada se mi fossi preoccupato degli altri come avrei dovuto.

    «Ho ricevuto una lettera», dico.

    Ancora silenzio.

    Proseguo: «Credo che l’abbia mandata Seraphine».

    Si schiarisce la gola. «Una lettera? Cosa dice?»

    «Chiedi a Seraphine. È lì a letto con te, no?»

    «Cosa dice, Pascal?», ripete, e sullo sfondo riesco a sentire Seraphine che pronuncia stupita il mio nome.

    «Dice: Il mondo saprà cosa hai fatto. L’ha spedita Seraphine o no?».

    Emette una risata aspra. «Non mi serve neanche chiederglielo per sapere che non è stata lei. Credi che stia mettendo in scena So cosa hai fatto?».

    La sua risata mi infastidisce. «So che il messaggio è melodrammatico», rispondo con durezza. «Ecco perché ho creduto che fosse suo».

    «Che succede?», sento dire a Seraphine. «Parlate di me?»

    «Niente di cui preoccuparti», le risponde Blaise. «Pascal ha ricevuto una lettera, pensava da parte tua. Una specie di minaccia. Forse c’è qualcun altro che lo ritiene coinvolto nell’omicidio di tuo padre».

    «Non c’entro niente», gli ricordo con prontezza.

    «Eppure non contesti la parola che ho usato. Omicidio. Com’è vivere nella casa degli orrori, sapendo perfettamente di cosa è capace nostro padre? Come fai con la coscienza?»

    «Sai che non ce l’ho», ribatto, rifiutandomi di permettere alle sue parole anche solo di sfiorarmi. «Certo che no».

    «Quindi giuri che non l’avete mandata né tu né Seraphine?»

    «Non sto giurando niente, fratello mio, ma è piuttosto ovvio che Seraphine non ti abbia spedito nulla. A che pro?»

    «Nessuno, a meno che non fosse pensata per nostro padre».

    «È indirizzata a te?»

    «È indirizzato ai Dumont», rispondo, fissando l’indirizzo sulla busta. È scritto al computer e il francobollo è francese.

    «Allora probabilmente è per papà», commenta con uno sbadiglio. «A quanto pare, la verità non potrà rimanere sepolta a lungo. Buona fortuna. Fossi in te, prenderei quelle lettere come il segnale che è tempo di andare via».

    «E fare come hai fatto tu, scappare in un altro Paese? Come un codardo?»

    «Arrivederci, Pascal», risponde e prima ancora che riesca a chiedergli come sta, come va con il bambino, riattacca.

    Va bene così. Meno so di loro, meglio è.

    Riattacco, ancora più turbato di prima. Sapevo che non poteva essere Seraphine ma ci ho sperato, così da poter lasciare perdere.

    Devo cercare di scoprire da dove arriva la lettera.

    L’ho trovata sul pavimento sotto la buca delle lettere, insieme al resto della posta, quando sono rientrato a casa dopo il lavoro. Mia madre e mio padre erano a cena fuori, per questo non l’hanno vista.

    Mi domando se ci siano state altre lettere. Nel caso, potrebbero averle aperte senza dirmi nulla.

    Dovrei chiedere a Charlotte. Il pensiero mi attraversa la mente.

    Charlotte, la mia cameriera personale, si è però licenziata due settimane fa in un acceso attacco di rabbia. Ha detto qualcosa sul fatto che sono crudele e menefreghista, strana accusa considerando che raramente badavo a lei per più di un secondo. Era solo una cameriera.

    Purtroppo avevo bisogno di lei. Da quando Blaise e Seraphine non lavorano più per la Dumont, mi devo occupare dei nuovi assunti e assicurarmi che tutto proceda senza intoppi. Per quanto odi ammetterlo, se io sono la spina dorsale dell’azienda, Blaise e Seraphine erano gli organi vitali che servivano al marchio per sopravvivere.

    Così lavoro molte ore e a casa ho bisogno di qualcuno che si occupi di ogni mia esigenza. Che è esattamente ciò che ha fatto Charlotte nell’ultimo anno e, anche se con il senno di poi mi rendo conto che era pazza e troppo emotiva, almeno sapeva fare il suo lavoro.

    Il problema è che sono esigente e pieno di impegni, quindi non ho molto tempo per cercare una candidata idonea. Deve essere una persona discreta e professionale, che non scoppi in lacrime se la insulto quando si comporta da idiota. Non facile da trovare.

    Sebbene sia tardi, esco in corridoio, diretto in camera di mia madre. I ritratti dei Dumont mi fissano dai muri. Blaise diceva di percepire il giudizio nei loro occhi, a me invece piace pensare che siano solo invidiosi.

    Busso piano alla porta socchiusa di mia madre.

    Non ottengo nessuna risposta, allora apro e guardo dentro.

    È sul divano, con gli occhi chiusi, la testa reclinata all’indietro, una bottiglia di gin vuota accanto e la luce della

    TV

    che la illumina di cangianti sfumature.

    Non è insolito trovarla svenuta così e non ho intenzione di svegliare la bestia che dorme. Sto per chiudere la porta quando all’improvviso lei si siede e, fissando la

    TV

    , dice: «Che c’è, Pascal?».

    Sa essere davvero inquietante.

    «Non volevo disturbarti».

    «Sei mio figlio. Percepisco la tua presenza a un chilometro di distanza», risponde e poi, finalmente, mi guarda. Sempre inquietante. «Dai. Che c’è?».

    Entro nella stanza. Non ho mai trovato strano che i miei genitori, da che io ricordi, dormano in camere separate. La sua ha le pareti bianche con dettagli d’oro, uno stile pacchiano, e c’è persino una copia della Venere di Milo accanto al bagno. C’è tutto quel che le serve ma la cosa migliore per lei è che non c’è mio padre.

    «Mi serve il tuo aiuto», esordisco avvertendo un fremito interiore nel mormorare quelle parole. Mia madre non è diversa da mio padre, ogni ammissione di debolezza risveglia i loro istinti predatori.

    Solleva la testa e si siede più dritta, come se dovesse impressionare qualcuno, incurante del mascara colato sotto gli occhi. «Il mio aiuto?», ripete. «Per cosa?»

    «Mi serve una nuova cameriera. Charlotte si è licenziata due settimane fa».

    «Lo so bene. Ho dovuto accompagnarla alla stazione dei treni, aveva le lacrime che le rigavano il viso. Che le hai fatto?»

    «Niente. Non riusciva a sopportare la pressione».

    Inarca le sopracciglia.

    «È vero», proseguo. «E non ho tempo di cercare qualcuno adatto. Senza Blaise e Seraphine, sono terribilmente occupato. I nuovi assunti sono pessimi».

    «Li hai scelti tu».

    «Ed erano i migliori tra tutti. Ora ho bisogno che mi trovi qualcuno su cui fare affidamento, che sia in grado di lavorare per me, che sopporti di trovarsi nei casini e anzi ci sguazzi. Qualcuno più intelligente di una tua cameriera media. Che non sappia solo pulire la tavoletta del cesso e rifare il letto».

    Arriccia il labbro superiore con disgusto. «Sei serio, Pascal?».

    Faccio spallucce. «Almeno sono onesto».

    Si acciglia e le sue narici si allargano mentre inspira. Mi stupisce che riesca a muovere

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1