Cento battiti
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Anteprima del libro
Cento battiti - Gianluca Santise
d’amore
Capitolo 1
L’ultima cosa che ricordo di quel momento è la luce, algida, implacabile che mi fissa e una mano che mi palpa curiosa, intorno voci indistinte, decine di occhi su di me a scrutare, a osservare ogni mio movimento, a giudicare e a decidere del mio destino. Dopo soltanto il freddo, un freddo profondo, prolungato, infinito, e i miei movimenti che si facevano più torpidi, più lenti, io annegavo e il gelo mi stordiva, mi ubriacava, e io flaccido, senza più voglia di reagire, di combattere, come anestetizzato, sprofondavo nel buio alla prima coltellata.
Così ho detto addio al mio nome, alla mia vita, ai vecchi amici, alla mia città, a tradimento, senza aver il tempo di salutare nessuno, di dire una parola. Eppure in un momento del genere ce ne sarebbero di cose da dire.
E pensare che poche ore prima eravamo in pista sommersi da decibel violenti e ritmati con intorno corpi sudati e agitati, a mandar giù bicchieri variopinti dai nomi promettenti, notti erotiche sulla spiaggia o paradisi giamaicani, per dimenticare il grigio della Londra invernale. Ballavamo, un venerdì come tanti, abbandonate le torri del potere, con le cravatte allentate e le giacche gualcite, insieme a Joey Diamond, il broker più aggressivo e spietato della City, che aveva scalato in pochi anni le vette più alte della finanza mondiale, e che quella sera stava festeggiando l’ultimo colpo messo a segno alla grande: sessantamila sterline di commissioni in meno di mezz’ora, penny più penny meno.
L’alcol aveva cominciato a scorrere alle cinque del pomeriggio, ora in cui l’aplomb inglese e il politically correct restano affissi sui manifesti per le strade, mentre nei pub i manager diluiscono i milioni nella spuma della birra appena spillata. Joey Diamond non beveva birra, se non scura irlandese, e comunque non in compagnia, preferiva lo champagne o, ancora meglio, lo spumante italiano, che negli ultimi anni spopolava nei wine bar della metropoli. Quel pomeriggio aveva ordinato due casse di Cuvée Impériale a tiratura limitata di una cantina piemontese d’eccellenza, soltanto per accompagnare le tartine al caviale rosso del Volga. Joey amava mostrare la propria classe e l’eleganza al mondo, e lo faceva in modo naturale e coinvolgente, come un tramonto colora di rosso tutto intorno, e questo mi riempiva d’orgoglio.
Andare in giro con lui era come camminare sempre sotto i riflettori.
Quella sera aveva voluto esagerare, dopo lo spumante italiano c’era stato un cambio di locale per cenare a Soho, nel retro di un sushi bar, privatissimo ed esclusivo, dalle sedie firmate Swarovski e i camerieri vestiti Armani, e infine l’ultimo night club con accesso soltanto su invito, clientela selezionata dal conto in banca e dalla varietà di capricci cui è abituata a cedere, anche quelli oltre i limiti della legge. Joey Diamond conosceva le stravaganze del suo popolo di satelliti e, pur di non far sbiadire il sorriso al primo bicchiere, forniva sempre la migliore qualità di polvere di stelle, bianca, purissima e colombiana fino all’ultimo granello. Perché anche di notte la borsa deve chiudere in rialzo.
E fu alla fine di quella notte palpitante, dopo che l’alcol aveva riempito le mie camere, e la cocaina mi aveva fatto sussultare più e più volte, che la Porsche di Joey Diamond fece l’ultima corsa, forsennata, insensata, sfrenata, un’illusione di immortalità o di follia tramontata a centoventi miglia orarie contro una delle ultime cabine telefoniche rimaste della città. Delle due modelle che viaggiavano nel sedile posteriore rimasero soltanto i tacchi a spillo, ma a me importava di Joey. Non si muoveva, io battevo e battevo, ma lui niente, non un movimento, respirava sì, ma null’altro, non mi sentiva. Io avevo capito che qualcosa non andava.
Poi le sirene, le luci e la confusione, io continuavo a battere all’impazzata, senza controllo, e lui era sempre più distante, la sua coscienza sempre più flebile.
Così, dopo ore di solitudine monitorizzata, mi resi conto che ero veramente rimasto solo, Joey Diamond era andato, il mio battito ostinato era l’ultima cosa che lo teneva legato a questo mondo, e io ero deciso a non fermarmi mai. Tanto ero programmato per questo.
Capitolo 2
Sono rimasto al buio, come congelato per ore, giorni, non so, non ricordo, paralizzato da chissà quale pozione infernale fino a che, con uno strappo, mi ha invaso la luce.
Poi mani e ferro, e poi ancora mani su di me. Io li lasciavo fare, non avevo altra scelta, ero ancora tramortito. A stento sentivo i tagli e gli aghi che mi passavano e ripassavano, tutto era come in un incubo, da cui vorresti scappare ma non riesci a muoverti di un metro, una tortura per un’oscura ragione… se qualcuno doveva essere punito per ciò che era accaduto, quello era Joey Diamond e non io, io in fondo avevo fatto solo il mio dovere da quando ero stato concepito.
Poi d’improvviso, come d’incanto, un calore, delicato, immenso, come il soffio del vento in un campo di grano, un afflato di vita mi aveva invaso, fin dentro le più piccole fibre, e come un’onda venuta da chissà quale orizzonte avvertivo i primi movimenti.
Quindi ufficialmente prima ero stato bloccato, paralizzato, non era un incubo, era tutto vero, verissimo; io che non mi fermo mai ero diventato flaccido come un vecchio pupazzo di pezza abbandonato a opera di qualche stregoneria. E ora ricominciavo, cosa ancora più inspiegabile.
Non riuscivo veramente
a fare movimenti coordinati, era come se avessi dimenticato come fare, come se, nonostante i miei sforzi, ogni fibra decidesse per conto proprio in un’anarchia incontrollata.
Poi lo shock.
Mentre mi stavo abituando a quello stato di torpore e autogestione, e mi lasciavo cullare da una forza superiore che faceva il mio lavoro, pensando: Forse questo è il paradiso, dopo aver faticato per una vita ora non devo pensare a niente
, una violentissima corrente elettrica mi passò da parte a parte, mi stordì e, dopo alcune interminabili frazioni di secondo, magicamente ritornai a battere, nel vero senso della parola.
L’euforia di essere tornato in me durò poco, qualcosa non mi convinceva, qualcosa era cambiato irrimediabilmente, il mio spazio era troppo largo, non riuscivo a sentire
Joey Diamond, non avevo controllo, non partecipavo
a quello che accadeva intorno: battevo sempre allo stesso modo. Ma soprattutto avevo troppo spazio intorno, mi sentivo come quando si gioca a scambiarsi i vestiti e ti capita l’abito di uno molto più grosso di te; ecco, mi percepivo come se mi avessero messo nei panni di un altro o… nel corpo di un altro.
Smarrimento, terrore, paura, ignoto, catene, prigione, inferno, luce, voci, passato, futuro, presente: chi sono?, chi sarò?, a chi appartengo?
Ma dove sono finito.
Capitolo 3
Ed è capitato proprio a me, nonostante l’ostinata volontà di Joey Diamond di avvelenarsi giorno per giorno per impedire che qualcuno potesse usare i suoi organi. Lo ripeteva come un mantra, soprattutto quando era con i suoi amici: «Un po’ di alcol, un po’ di droga e un po’ di donne tutti i giorni, e di me non si potrà utilizzare neanche il mignolo del piede sinistro». Diceva che dopo la morte avrebbe portato tutto via con sé, ovviamente in un paradiso fiscale.
E invece io ero in un altro corpo, di chissà chi e per chissà quale motivo, ripetevo lo stesso battito come un disco rotto, mi sentivo in un limbo, senza possibilità di tornare indietro, e apparentemente senza un futuro, condannato a un mantice infinito senza uno scopo. Almeno con Joey Diamond sapevo che valeva sempre la pena di aspettare il venerdì, non ce n’era mai uno uguale.
Sgomento e stupore, questo è stato l’inizio.
Stupore di sentire dentro di me scorrere qualcosa di sostanzialmente
diverso, come di vecchio, o comunque di deteriorato, non decomposto, ma sfinito e logorato, come le vecchie imposte delle case al mare dopo anni di lotte contro sole e salsedine, come una terra inaridita da secoli.
Poi l’attesa.
Ripresomi dallo stupore e dallo sconforto di trovarmi come un turista per caso nei bassifondi di San Paolo, decisi di aspettare, e sperare di percepire qualcosa. D’altra parte non potevo fare altrimenti, ormai ero in ballo e dovevo ballare.
Non udivo una parola, niente, forse ancora dormiva, solo alcuni suoni monotoni, ripetitivi dei bip, un cicaleccio, come a ricordare che qualcosa non andava, come a richiamare l’attenzione su qualche particolare importante, eppure qualcosa dentro accadeva, in silenzio; difficile a dirsi, non ero abituato a percepire in questo modo, perché con Joey Diamond tutto succedeva spontaneamente, quasi istantaneamente, ogni pensiero, ogni emozione, quando ne aveva, ogni sensazione mi coinvolgeva, era tutto così concertato che mi sentivo effetto e causa della stessa sensazione, azione e reazione, ora invece, ero come un direttore d’orchestra senza orchestra, o peggio, come uno spettatore.
Era come andare a una festa senza essere invitato e senza conoscere nessuno, cercando di capire chi fosse il padrone di casa dalle foto sui mobili, dai divani, dai quadri, dalla musica che si ascolta, dalle voci della gente.
Io volevo e dovevo sapere dove ero finito, il nome, l’età, il sesso, le sue origini, chi frequentava, se aveva un lavoro, una famiglia, dei pensieri, dei sogni, degli incubi.
Per fortuna il tempo non mancava, tutto sembrava scorrere lentamente, silenziosamente, i minuti, le ore, i giorni… si sarebbe mai svegliato? Chi lo sa. Bisognava soltanto avere pazienza, piano piano cominciavo ad abituarmi a quella sensazione di usurato che avvertivo intorno a me, si mescolava all’odore della stanza, che percepivo distinto anche in quello stato di incoscienza. L’olfatto! Che meraviglia, tra i cinque sensi è senza dubbio quello più ancestrale, animale, istintivo, che agisce prima ancora che la coscienza ne capisca il motivo. Gli odori, i profumi si annidano tra le pieghe della memoria e possono stare lì per anni, nascosti fino a quando un fiore, una pianta, una ventata di primavera ti riportano indietro di anni in posti lontanissimi. L’olfatto era tanto potente che io riuscivo a sentire l’odore della stanza mentre il mio ospite dormiva, ignaro di tutto; non era alcol, non era candeggina, e neanche profumo di fiori morti, era odore d’ospedale, asciutto, austero e pungente.
Capitolo 4
Si chiama Bill. Il mio ospite si chiama Bill ed è un uomo, dalla nascita. Di questi tempi non si può mai sapere.
Si è svegliato la scorsa notte e finalmente ho cominciato a sentire chiamare, in lontananza, come in mezzo al vapore del mare in un tramonto troppo caldo; all’inizio si avvertiva la voce ma non si distinguevano le parole, poi, piano piano più forte e chiaro, e alla fine era Bill! Bill, il suo nome. C’è voluto del tempo per capire da dove venisse quella voce, minuti, forse ore, per un bel po’ la coscienza andava e veniva, le immagini si confondevano con i suoni, mentre l’odore di ospedale si faceva sempre più forte. Si distinguevano strani bip, come di uno scandaglio, poi note diverse e ripetute e poi ancora voci sovrapposte e risate, ogni tanto una luce schiariva tutto e si confondevano immagini in movimento. Tutto era ovattato come se ci trovassimo in mezzo a una nebbia profonda, o addirittura sott’acqua. Fino a un certo punto, fino a quando in mezzo alla nebbia è spuntato un viso roseo e paffuto, sorridente, con un’uniforme blu, che ripeteva: «Bill, stai tranquillo, va tutto bene!» e intanto qualcosa che doveva essere un aspirapolvere, o giù di lì, armeggiava in bocca alla ricerca di chissà che cosa.
Bill in effetti sta tranquillo, fin troppo per le mie abitudini. Chissà che tipo è questo Bill, ancora non si è guardato in uno specchio, forse per paura di trovarsi diverso o forse semplicemente perché non ce ne sono di specchi; in verità ancora non si è alzato dal letto, probabilmente è ancora troppo debole, ma sento un certo ottimismo intorno, tutti quelli che lo visitano lo trovano migliorato e con una buona cera… speriamo non lo dicano soltanto per tirarlo su.
Intanto comincio a conoscere gli altri. Tra amici e familiari si sono alternate già diverse persone, ancora non ho chiare tutte le relazioni, ma dalle espressioni che fanno quando vedono Bill, dalle frasi di circostanza, dai cioccolatini e dalle lacrime, già si riesce a capire qualcosa: c’è chi è venuto perché doveva, chi per pietà, chi per provare il dolce gusto di vedersi al capezzale di un malato, chi perché era preoccupato, chi stanco, chi cercava una speranza.
La speranza di tornare a vivere
, questo ripetono tutti, come se la mia presenza avesse portato una ventata di buonumore, di positività, come un faro nel mezzo di una bufera, o come nel lento affondare irrimediabile nelle sabbie mobili della sofferenza, un braccio forte a portarti in superficie. Non so ancora come mai, ma molti parlano di me come di una fortuna, di una lotteria, di una salvezza, e devo dire che non mi dispiace. Joey Diamond e i suoi amici non mi hanno mai considerato, neanche quando lui mi metteva a dura prova nelle sue notti brave, neanche un grazie, un segno di riconoscenza, niente; qui addirittura un ragazzino ha appeso uno striscione in mio onore.
Ma Bill ancora non ci crede, l’unico che non riesce a ritrovare la speranza è proprio lui, non vede quello che gli avevano promesso, non può fare quello che vuole, ancora sente dolore, e soffre.
Sì, deve aver sofferto, a lungo, una lunga malattia, di quelle che tolgono il fiato nel vero senso della parola, di quelle che fanno sembrare un anno un’eternità e ogni giorno una conquista, una sofferenza, riflessa negli occhi della gente, nelle pareti, nelle lenzuola, perfino il sole che taglia con lame di luce la penombra della stanza sembra debole, fiacco, triste. Gli occhi di Bill sono tristi; per ora, tutto, persino il bel mazzo di rose variopinte appare come una natura morta, senza vita e senza vitalità, i colori si ingrigiscono e si incupiscono, soltanto il profumo, dolce e delicato, che si spande e copre per pochi istanti l’odore di fondo d’ospedale che impregna i muri, si infiltra nell’anima e crea una piccola breccia di sorriso antico e caldo, familiare.
Forse Bill aveva un giardino, forse amava le rose, forse le coltivava, chissà, non ne ha ancora parlato, ma forse sotto le ceneri del passato c’è ancora un germoglio.
Capitolo 5
È sposato e ha due figlie. La più piccola non avrà più di dieci anni, si vede da una foto sul comodino, tra le pillole e la bottiglia dell’acqua; ogni tanto se la ritrova tra le mani, quasi distrattamente e poi si ferma per accarezzare l’immagine con l’indice, delicatamente, come per paura di rovinare il quadro, sembravano così felici e ignari… La fotografia brilla quasi di luce propria tra le mani di Bill; mentre tutto intorno a lui è intriso di un grigio profondo e mesto, dalla foto quasi trabocca il sole, i colori sono vividi, colmi di gioia, di speranza e le persone, la moglie e le due figlie, sorridono con gli occhi socchiusi, come a proteggersi dalla luce abbagliante. La figlia minore ancora non è venuta a trovarlo, sarà preoccupata, ma è troppo piccola per entrare in un ospedale, nella foto stringe il vestito della madre come per aggrapparsi, per non farla scappare, ma con gli occhi fissa l’obiettivo della macchina, oltre il quale forse c’era proprio Bill, che la guarda come allora.
La figlia maggiore è invece appena andata via, viene a trovarlo spesso, non è più bambina, ma ha quell’aspetto da ranocchio in metamorfosi, con un corpo non ancora da donna e il volto grande con atteggiamenti maturi, sguardo di sfida da adolescente ma con occhi che tradiscono il terrore della separazione: come è lontana dalla bambina ingenua e