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Legame d'ombra (eLit)
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E-book411 pagine6 ore

Legame d'ombra (eLit)

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Info su questo ebook

Unbound 2
Kori Daniels è un'ombronauta, capace di spostarsi in un istante da un posto all'altro nell'oscurità. Imprigionata per aver tradito Jake Tower, il crudele leader dell’organizzazione criminale che controlla parte della città, per tornare libera deve accettare un ultimo, importante incarico: reclutare Ian Holt, il più potente oscuratore in circolazione, o eliminarlo. Ma anche lui ha una missione da compiere. Per salvare il fratello gemello deve uccidere Kenley, la sorella minore di Kori. Così, al termine di una settimana da incubo che cambierà le loro vite per sempre, i due giovani si ritrovano costretti a prendere la decisione più dura: scegliere tra amore e libertà... o rischiare il tutto per tutto per ottenerli entrambi.

LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2023
ISBN9788830547827
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    Anteprima del libro

    Legame d'ombra (eLit) - Rachel Vincent

    Copertina. «Legame d'ombra» di Vincent Rachel

    Immagine di copertina:

    witnu / iStock / Getty Images Plus

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Shadow Bound

    Mira Books

    © 2012 Rachel Vincent

    Traduzione di Erica Farsetti

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Enterprises ULC.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-305-4782-7

    Frontespizio. «Legame d'ombra» di Vincent Rachel

    1

    Kori

    Quando vivi nelle tenebre troppo a lungo, inizi a dimenticare com’è la luce. Come ti fa sentire. Puoi ricordarla in teoria: illuminazione, una possibile fonte di calore. Ma dopo un po’ rimane solo un’idea astratta, inutile quanto la memoria dell’acqua per chi sta morendo di sete.

    Non sapevo da quanto tempo fossi al buio. Abbastanza da permettere al dolore di affievolirsi, lasciando solo qualche livido. Abbastanza da scordare di quale sfumatura di grigio fossero le pareti. Abbastanza da rendere la luce accecante, quando mi investì, sebbene avessi gli occhi chiusi.

    Avevo perso completamente la cognizione del tempo. Non sapevo quando avessi fatto l’ultima doccia o l’ultimo pasto, oppure usato il water che era in un angolo della cella. Non sapevo quando fosse stata l’ultima volta che avevo sentito una voce umana, ma ricordavo quale era stata e adesso sapevo cosa significava quella luce improvvisa.

    Visite.

    In genere non piacevoli.

    La porta si aprì cigolando e di colpo il mio cuore iniziò a battere fortissimo, in preda al panico. Mi aggrappai a quella pulsazione irregolare, cavalcando le forti scariche di adrenalina perché erano le prime cose che sentivo da giorni, a parte il dolore intenso delle ferite.

    Se non fosse stato per il dolore, non avrei potuto giurare di essere ancora viva.

    «Kori Daniels, è ora di alzarsi.» Milligan era in servizio, e ciò significava che era giorno. Fuori, per lo meno. Nello scantinato era sempre notte. Non c’erano finestre e il buio era totale, finché qualcuno non premeva un interruttore.

    Io e il buio eravamo stati amici. Anzi, amanti. Prima, quando ero da sola, mi mettevo a camminare nuda solo per sentirlo sulla pelle, freddo e calmo, più intimo di qualsiasi mano mi avesse mai toccato. Era vivo e seducente. Talvolta non riuscivo a stabilire dove lui finisse e dove iniziassi io, quindi, a un certo punto, avevo deciso che quel confine non esisteva. Io ero il buio e il buio era me, entravamo l’una nell’altro, abbracciandoci, accarezzandoci.

    Nello scantinato il buio era diverso. Falso. Indebolito da raggi infrarossi che non potevo vedere, eppure sentivo bruciare sulla pelle. Mi intrappolava. Mi svuotava. Le ombre erano morte e quando le toccavo sembravano il cadavere freddo di un amante.

    «Kori» disse nuovamente Milligan, e io mi sforzai di concentrarmi su di lui. Sul mio nome.

    Ormai, il cambio di turno delle guardie era l’unico modo per scandire il tempo. Tuttavia il mio orologio mentale perdeva colpi. A volte giornate intere. Se esisteva un orario dedicato ai pasti, alle docce, alle visite, ancora non avevo capito qual era. Loro venivano quando ne avevano voglia. Anche se, per la maggior parte del tempo, non venivano affatto.

    Quando Milligan entrò, non mi alzai. Non aprii neppure gli occhi, perché non ero tenuta a farlo. Non avevo fatto nessun giuramento, nessuno mi aveva ordinato di obbedire, quindi era tutto a mia discrezione. E non mi sentivo molto propensa.

    Mi rigirai sulla pancia, ancora a occhi chiusi, cercando di non pensare a come dovevo essere conciata dopo tutto quel tempo. Deperita, livida, arruffata e sporca. Vestita solamente dell’intimo che indossavo da giorni, perché l’umiliazione faceva parte della pena e non mi era stato concesso il privilegio di avere degli abiti.

    Il ciclo non mi era arrivato, a riprova che le mie non erano tutte fantasie e lì non mi nutrivo a sufficienza; l’acqua arrivava così di rado da farmi pensare che non mi stessero tenendo in vita, ma mi stessero condannando a una morte lenta.

    Ero stata cattiva, molto cattiva.

    «Kori, mi hai sentito?» chiese Milligan.

    All’apparenza, non avevo mai avuto problemi con lui. Mi aveva sempre rispettato. Più che altro, aveva rispettato il fatto che il capo riconoscesse il mio valore. Non mi aveva mai toccato con un dito e si era limitato a qualche sguardo lascivo quando io ero voltata dall’altra parte. Che, nella parte ovest della città, era quasi cavalleria.

    Adesso lo odiavo. Non era stato lui a buttarmi nello scantinato, in quel buco marcio. Però mi ci aveva tenuto, e bastava. Se ne avessi avuta la possibilità – se fossi mai riuscita a uscire e a recuperare le forze – l’avrei ammazzato. Avrei dovuto farlo, solo per dimostrare a Jake Tower che non ero del tutto fuori gioco. Mi aveva piegata, non spezzata.

    Milligan se lo sarebbe aspettato, proprio come avrei fatto io se fossi stata nei suoi panni.

    La porta si aprì un altro po’ e io sprofondai la faccia nell’incavo del braccio, il naso premuto sul materasso lurido. Pronta a spegnermi e a far sparire il mondo. Era l’unico modo per sopravvivere. Convincerti che, qualsiasi cosa loro facciano, a te non importa.

    Come avrebbe potuto essere altrimenti, visto che tu non potevi fermarli e nessun altro voleva farlo al posto tuo? Entravo in un luogo privo di dolore e di pensieri. Non un luogo felice. Se così fosse stato, non avrebbe fatto altro che ricordarmi la mia situazione penosa.

    Un luogo vuoto.

    «Tower sta arrivando» mi avvertì Milligan. «A quanto pare stai per uscire.»

    Non mi mossi, ma avevo il cuore in gola. Di sicuro avevo capito male. Se non stavo attenta, a volte avevo delle allucinazioni e nel buio non c’era niente di più pericoloso di una speranza ingiustificata.

    «Kori?» Stavolta aprii gli occhi. «Esci oggi stesso.»

    Mi alzai piano a sedere, battendo le palpebre furiosamente, con una smorfia di dolore per la ferita da arma da fuoco che avevo alla spalla. Avevo sentito, ma impiegai un’eternità per assorbire le parole, e anche allora non ci volli credere. Poteva essere uno scherzo. Jonah Tower – il fratello di Jake – in passato l’aveva fatto solo per vedermi soffrire una volta scoperta la verità.

    «Se menti, ti ammazzo con le mie mani» dissi, la bocca e la gola totalmente prosciugate.

    «Io non...» Milligan lanciò un’occhiata al corridoio, nel quale riecheggiavano dei passi decisi e regolari. «Eccolo.»

    Trattenni un singhiozzo. Ormai ero convinta che sarei morta da sola, in quel buio falso, tra quelle ombre morte.

    Milligan fece un passo indietro e Jake Tower prese il suo posto. Mi odiai per il sollievo che provai nel vederlo, nonostante fosse stato lui a rinchiudermi lì dentro. Odiavo la camicia e la giacca pulite, i capelli pettinati, la pelle abbronzata. Odiavo l’odore di legno di melo di cui erano impregnati i suoi abiti dopo il barbecue. Odiavo il lieve rossore che gli tingeva le guance, perché aveva accompagnato la bistecca con due bicchieri di rosso, non uno di più e non uno di meno, perché lui non perdeva mai il controllo. Mai.

    Jake Tower era il cuore dell’organizzazione criminale che portava il suo nome. Noi – gli iniziati – eravamo il sangue, ma lui rappresentava il muscolo che pompava nelle vene e nelle arterie del complesso organismo; premeva i pulsanti e tirava i fili e noi gli appartenevamo, eravamo legati da un giuramento inciso nella carne. La nostra vita o la nostra morte dipendevano da lui. E obbedivamo perché era il nostro corpo a chiederlo. Anche quando la mente resisteva, il corpo eseguiva l’ordine, incapace di sottrarsi davanti a una richiesta esplicita.

    Io avevo trovato una scappatoia, però. Pur rispettando l’ordine, ne avevo violato lo spirito e, come punizione, Tower mi aveva scagliato all’inferno. Mi aveva rinchiusa in quella cella, lasciandomi nelle mani di Jonah, ed ero ormai convinta che si fosse dimenticato della mia esistenza fino a...

    Fino a quando?

    Finché non aveva avuto bisogno di me. Quale altro motivo poteva averlo portato fin lì? Perché avrebbe dovuto lasciarmi vivere, se così si poteva chiamare il mio stato?

    Tower arricciò il naso – non avevo un buon odore – poi si richiuse la porta alle spalle e si sedette sul bordo del materasso spoglio, buttato sulla pedana di cemento, che era il mio letto. Mi afferrò il mento e mi girò verso la luce, osservandomi.

    Sapevo cosa stava vedendo, senza bisogno di uno specchio. Lividi. Occhiaie scure e zigomi sporgenti. Labbra rotte. E i danni non si limitavano al viso.

    Sembrava... soddisfatto.

    «Fa male?»

    «Lo sai che fa male, stronzo.» Tutto mi faceva male. Era quello lo scopo. Una volta che la mia esistenza era stata ridotta a paura, dolore, ombre morte, sicuramente non mi sarebbe più passato per la testa di tradirlo. «Le luci?» Non volevo chiedere, ma dovevo sapere. «Un’idea tua?» Jonah non era abbastanza sveglio da pensare a una cosa del genere.

    Fece un piccolo lieve sorriso, come se gli fosse tornato alla mente un ricordo piacevole dell’infanzia. «Un tocco di sagacia che spero tu abbia compreso. Buio assoluto, ineluttabile per l’ombronauta. Imprigionata dalla fonte stessa del tuo talento. Com’è stato?»

    Sono un’ombronauta. Posso tuffarmi in un’ombra e riemergere da un’altra, in qualsiasi luogo desideri, ammesso che rientri nel mio raggio d’azione. Al buio vedo meglio della maggior parte delle persone. Posso guardare dentro un’ombra e vedere cosa c’è dall’altra parte, come se fosse un periscopio o uno di quei telescopi che facevamo da piccoli con i rotoli di cartone.

    Ma il buio dello scantinato era anemico, grazie al reticolo di raggi infrarossi che lo attraversava. Quindi, anche se la cella sembrava completamente buia a occhio nudo, l’oscurità era troppo sottile per permettermi di viaggiare. Le ombre erano morte. Ero intrappolata nell’elemento che era sempre stato il mio alleato, il mio mezzo di fuga.

    Come mi faceva sentire?

    Come se il mio stesso corpo mi avesse tradita. Come se il mondo si fosse dimenticato di me. Come se non esistessi più. Non l’avrei di certo raccontato a Tower, però.

    «Da schifo. Contento?»

    Non rispose. Lasciarmi in sospeso era un altro dei suoi modi per farmi soffrire.

    «Perché? Perché non mi hai semplicemente uccisa?» Aveva ammazzato per motivi molto più futili.

    «Dovevi pagare per le tue colpe, e gli altri dovevano sapere che stavi pagando.» Lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

    «L’hai raccontato?»

    «Sei stata un caso esemplare, Korinne. Ti hanno osservato.» Lanciò un’occhiata alla lastra di vetro oscurato che c’era sul muro, e il sangue mi si gelò nelle vene.

    Iniziai a tremare, senza riuscire a fermarmi. «Li hai fatti guardare?» Mentre mi picchiavano, mi umiliavano e... avevo avuto un pubblico, invitato da lui.

    «Solo chi doveva vedere.»

    «Kenley?» No. Ti prego. Non volevo che avesse tirato in mezzo anche lei. Non volevo che lei sapesse. Se Tower non aveva un briciolo di umanità, Kenley ne era piena e quello la rendeva indifesa. Spettava a me proteggerla.

    Scrollò la testa. «Tua sorella sa solamente che sei viva. È ansiosa di vederti.»

    Espirai lentamente e ricacciai indietro le lacrime, usandole come carburante per la rabbia che cresceva in me. Una furia cieca che non sarebbe esplosa per altri quattro anni, quando sarei stata io a causare sofferenza. Jake Tower avrebbe pagato. Jonah avrebbe pagato. Milligan e le altre guardie avrebbero pagato. Chi aveva guardato avrebbe pagato.

    Mi avrebbero supplicato di farli vivere.

    Tuttavia, per vendicarmi, dovevo sopravvivere e per sopravvivere dovevo fare il gioco di Jake. Era sempre lui a dettare le regole e le uniche carte che io potessi giocare erano penitenza e obbedienza, serbando i miei assi nella manica. Fino al giorno in cui avrei avuto io in mano il gioco.

    «Ho un incarico per te, Korinne» disse Jake. «Un’occasione per redimerti.»

    Tacqui, perché non stava aspettando una risposta. Milligan aveva ragione. Stavo per uscire.

    «Ian Holt.»

    «Chi?» Passai la lingua sulle labbra, ma era troppo secca per inumidirle.

    Adesso che ero sicura di uscire mi riusciva difficile concentrarmi sui dettagli della missione, intenta com’ero a fantasticare sui pasti che avrei fatto, sulle docce, sulla relativa libertà.

    «È un oscuratore di incredibile bravura.»

    «Lo vuoi morto?» Non conoscevo il nome, quindi non era dei nostri. E se qualcuno poteva usarlo contro di noi, automaticamente diventava un nemico.

    «Lo voglio vivo. Possibilmente integro.»

    «Un’altra acquisizione?» Nelle settimane precedenti alla mia prigionia ne avevo portate a termine parecchie.

    «Solo come ultima risorsa. Lo voglio con me. E voglio che lo faccia di sua spontanea volontà.» Perché i vincoli forzati non erano mai forti quanto quelli stipulati spontaneamente. «Holt non ha ancora firmato con nessuno. Anzi, è riuscito a rendersi del tutto irreperibile fino a due giorni fa, quando un maxischermo alla finale nazionale di hockey lo ha ripreso mentre oscurava il campo.»

    «Come fai a sapere che non fosse solo un’interruzione dell’elettricità?»

    «Perché le tenebre hanno inghiottito l’arena dall’esterno verso l’interno, dal perimetro in direzione del ghiaccio, uniformemente. Il pubblico ha pensato che fosse un idiota il quale, avendo notato prima delle telecamere che le luci avevano iniziato a spegnersi, ha finto di fare una magia. Ma io so cosa ho visto, e non sono il solo. Adesso che si è esposto tutti lo vogliono. Gli ho rivolto un invito formale e lui ha acconsentito a venire in città e a incontrarmi. Tu farai da intermediaria. Gli mostrerai i vantaggi che otterrà lavorando per me e farai in modo che firmi.»

    «Io non sono una reclutatrice, Jake. Sono un soldato.» Avevo fatto parte della sua scorta personale. Avevo ucciso. Avevo rapito. Avevo fatto altre cose che desideravo con tutta me stessa dimenticare, ma reclutare richiedeva delle doti specifiche, che non possedevo.

    «Tu sei quello che decido io e, quando Ian Holt arriverà, sarai la sua reclutatrice. Sarai la sua ragazza, la sua migliore amica, la sua terapeuta, sua madre, o l’addestratrice del suo cane, a seconda del caso. Farai tutto il necessario per mettergli una catena sul braccio.» Guardò i due anelli neri intrecciati che avevo sulla pelle, un tatuaggio che mi legava a lui senza possibilità di scampo fino alla scadenza del termine. «Tutto ciò che sarà necessario, Korinne. Capisci?»

    Capivo. «Vuoi che lo scopi.» E se mi fossi rifiutata – se mi fossi rifiutata di fare una cosa qualsiasi – avrei violato il giuramento e il dolore mi avrebbe fatto contorcere tutti gli organi, fino ad ammazzarmi.

    «Voglio che tu gli dia tutto quello che vuole. E se lui vuole te, allora sì, lo porterai a letto e sarà meglio che sia la volta migliore di tutta la sua vita perché, se rifiuta il mio marchio, sarai costretta a portarlo dentro con la forza in modo che io lo possa prosciugare. E se ciò accade, ti ucciderò e tua sorella pagherà per il tuo fallimento, come tu hai pagato adesso. Passerà gli anni che le restano chiusa in questa cella, nelle tue stesse condizioni.»

    Mi si gelò il sangue. «Nessuno toccherà Kenley. Me l’hai giurato quando ho firmato.»

    «E tu hai giurato che avresti messo la mia vita e i miei interessi davanti ai tuoi.»

    Quando lo vidi sbottonarsi lentamente la camicia, sapevo cosa avesse intenzione di fare prima che mi mostrasse la cicatrice rosa, ancora fresca. «I nemici sono entrati grazie alla tua key card. In casa mia, dove dormono mia moglie e i miei figli. La tua pistola ha fatto cilecca e il mio più grande nemico mi ha sparato.»

    «Non intendevo...»

    «Hai fallito» insistette. «Sei venuta meno alla parola data, dunque posso farlo benissimo anch’io. Se Ian Holt non firma di sua spontanea volontà, ti condannerò a morte e tua sorella pagherà il tuo debito.»

    La nausea mi serrò lo stomaco e, se avessi avuto qualcosa da vomitare, l’avrei fatto addosso a lui.

    «Hai due settimane per rimetterti in forma e renderti presentabile. È la tua ultima occasione, Korinne.»

    Quando rimasi sola, ebbi qualche minuto per capire che razza di relitto fossi diventata. Per pensare. Per odiare Jake Tower come non avevo mai odiato in vita mia. Poi, la porta si aprì ed entrò mia sorella, una versione più giovane e più dolce della donna che ero stata.

    Kenley rimase all’istante senza fiato e si portò le mani alla bocca. «Che cosa le avete fatto, bastardi?»

    Milligan era alle sue spalle, lo sguardo basso. «Non l’ho mai toccata. È solo il mio lavoro.»

    «Dove diavolo sono i suoi vestiti?»

    La guardia si strinse nelle spalle. «Me l’ha mandata così. Hai quindici minuti per darle una ripulita.» Indietreggiò e chiuse la porta.

    Kenley si avvicinò, lasciò cadere a terra la borsa di tela e si inginocchiò davanti a me, scostandomi i capelli dalla fronte.

    «Da quanto sono qui?» chiesi, fissando il materasso mentre lei rovistava nella sporta.

    Tirò fuori una bottiglia d’acqua e me la porse. «Quasi sei settimane» rispose.

    «Sto bene.» Tolsi la plastica, impressionata dallo sforzo che mi costò, poi svitai il tappo. Prima di rendermene conto, ne avevo già scolata mezza.

    «Non è vero. Credevo che fossi morta. Jake continuava a dire che eri viva, ma non mi permetteva di vederti. Ero sicura che mentisse, che fosse una tattica per farmi continuare a lavorare.» Le si riempirono gli occhi di lacrime e, a un battito di palpebre, le gocce scivolarono giù per le guance.

    «No. Non piangere, Kenni» sussurrai per non farmi udire. Stavano sempre in ascolto e probabilmente ci stavano osservando oltre il vetro oscurato. Mi leccai le labbra. «Non lasciare mai che quei figli di puttana ti vedano piangere. Se sanno che sei debole, ti spezzeranno, per divertimento.»

    Come avevano provato a fare con me.

    Lei annuì, stringendo i denti e tentando di trattenere i singhiozzi.

    Aprii la bocca per dirle che tutto si sarebbe sistemato. Che io avrei sistemato tutto. Ma all’improvviso mi si rivoltò lo stomaco e dovetti correre al water. Ebbi dei conati fortissimi e rigurgitai l’acqua. Ne avevo mandata giù troppa, troppo in fretta. Sarei dovuta stare più attenta. Da quando le bottiglie non erano più arrivate avevo bevuto solo le poche gocce che uscivano dal retro del serbatoio dello scarico, raccogliendole tra le mani, mentre poco prima avevo trangugiato mezza bottiglia di acqua gelata.

    Kenley mi scostò i capelli dal viso e io mi rialzai, pulendomi la bocca con il braccio.

    «Nessuno sapeva dove ti trovavi.» Mi passò di nuovo l’acqua, mi sciacquai la bocca e sputai nel water, pensando che si sbagliava. Qualcuno lo sapeva. Qualcuno mi aveva visto attraverso il vetro oscurato. «Hanno sparato a Tower e a te, lui si è svegliato e tu sei scomparsa. Cos’è successo, Kori? Nessuno conosce la verità.»

    Cos’era successo? Mi avevano seppellito nello scantinato, alla mercé dei mostri. Ma lei non voleva sapere quello.

    «Liv mi aveva chiesto aiuto e io sono andata. Ma era una trappola. Mi stavano aspettando. Hanno preso la mia key card e l’hanno usata per entrare.» Io ero stata la falla nel sistema di sicurezza, che aveva causato, tra le altre cose, la perdita di uno dei donatori più importanti di Tower, l’unica figlia della mia amica Noelle. «È stato Ruben Cavazos a spararci.» Accarezzai la benda sporca sulla mia spalla.

    Sarei dovuta scappare, fregandomene del rischio. L’avrei fatto, se non fosse stato per Kenley. Non potevo lasciarla da sola con Tower. Sola nell’organizzazione.

    «Sei fortunata che non ti abbia uccisa» disse lei, ma io scrollai la testa.

    «Non può. Ha ancora bisogno di me.» Non avevo la minima idea del perché dovessi essere io a reclutare Ian Holt, ma se non fossi risultata utile a Jake non sarei stata viva.

    «Ora laviamoci.» Kenley si alzò, raggiunse la borsa di tela, prese un flacone di shampoo e si diresse verso la doccia stretta e priva di tendine in un angolo della cella. «Sono stata io a suggellare il vostro giuramento, per questo sei costretta a fare ciò che ti chiede. Per colpa mia.»

    Kenley era una vincolatrice. Una vincolatrice dannatamente brava. Talmente brava che Jake era costretto a tenerla nascosta, per proteggere lei e tutti i contratti su cui aveva apposto il sigillo. Viveva sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro e il capo ci ricattava, costringendo ognuna delle due a controllare l’altra.

    «Stavolta non è andata come credi» ribadii, mentre lei apriva l’acqua della doccia, la quale funzionava solo quando lo decidevano loro. «Liv non ha fatto una richiesta ufficiale e io non ero obbligata. Ci sono andata di mia spontanea volontà.» Perché era la cosa giusta da fare. Ne ero ancora sicura, anche dopo averne scontato le conseguenze.

    «Se sei qui è soprattutto per colpa mia, Kori.» Kenley puntò il getto verso il muro, poi si voltò a guardarmi a braccia conserte e io sospirai. Non ero mai riuscita a spuntarla con lei.

    «Io non lascio che gli altri decidano per me. Siamo entrate insieme nell’organizzazione e ce ne andremo insieme.» O non ce ne andremo affatto. «Quattro anni» sussurrai, appoggiando la fronte alla sua spalla, mentre qualche schizzo arrivava fino a noi. «Ce la possiamo fare per altri quattro anni, giusto?»

    Lei annuì, ma non sembrava affatto convinta. Mi avevano sparato, mi avevano fatto morire di fame, maltrattato e rinchiuso in una cella buia per quasi sei settimane, ma la mia preoccupazione principale era sempre mia sorella. Kenley era fragile e io dovevo essere abbastanza forte per entrambe. E Jake lo sapeva. Conosceva i nostri punti deboli e li sfruttava a suo vantaggio.

    «Fammi vedere la spalla.» Kenley ricacciò indietro qualche altra lacrima e, mentre toglieva il nastro e le garze, mi appoggiai al muro per mantenere l’equilibrio. Avevo fatto del mio meglio per tenerla pulita e avevo preso gli antibiotici che Jonah mi aveva portato nelle prime settimane, quando ancora venivo nutrita regolarmente e potevo farmi la doccia, perché all’inizio lui era la mia punizione. Solo quando Jake aveva capito che il fratello non era abbastanza, erano venuti il buio e l’isolamento.

    «Poteva andare peggio.» Kenley arrotolò le bende e le gettò a terra. «I punti sono stati riassorbiti ed è solamente rimasto un po’ di rossore. Lavati. Tra qualche minuto ci verranno a prendere» disse, mentre io mi toglievo le mutande e gettavo il reggiseno lurido sul pavimento. Con un calcio, li fece volare in un angolo della stanza, poi sentì l’acqua con una mano e fece una smorfia. «Potrebbero almeno mandarla tiepida.»

    Le celle dello scantinato non volevano essere confortevoli. Erano fatte per l’isolamento e per le torture. Erano progettate per ore e ore di buio e silenzio, perché quando non puoi vedere né udire non ti rimane altro che pensare a ciò che hai fatto e a come non lo rifarai mai, mai più.

    Ma era quello il punto. Io l’avrei rifatto mille volte se ne avessi avuta l’occasione. Mi sarei presa il proiettile, il silenzio, il buio e le umiliazioni di Jonah, se fosse servito a fare tornare a casa la figlia di Noelle.

    Entrai nella doccia e l’acqua gelida mi lasciò senza fiato. Mi bagnai i capelli e aprii la bocca per bere, solo un poco, con una mano puntata sulla parete per mantenere l’equilibrio, perché non mangiavo da giorni e la stanza cominciava a vorticarmi intorno.

    Mentre mi lavavo i capelli, mia sorella si mise a bussare sul vetro oscurato. «Ha bisogno di qualcosa di pulito da indossare. Abiti veri, stavolta! E un asciugamano!»

    Strofinai il pezzo di sapone mentre l’acqua e la schiuma scivolavano lungo il mio corpo e finivano nello scolo. Era bello essere puliti, anche se non avrei mai potuto eliminare i segni che portavo dentro di me.

    Cinque minuti dopo, ancora zuppa, con i capelli che gocciolavano su abiti che non erano miei e neppure della mia taglia, uscii dalla cella con un braccio sulle spalle di mia sorella. Né Milligan né gli scagnozzi che Tower aveva mandato per scortarci mi rivolsero uno sguardo. Ma quando la porta sbatté alle mie spalle, chiudendo un capitolo della mia vita che non avrei mai più voluto riaprire, nel corridoio un uomo emerse dall’ombra, incrociando le braccia muscolose sul petto.

    «Questo posto non sarà più lo stesso senza di te, Kori» disse Jonah Tower, la voce venata da una risata sadica. Si avvicinò e mi bisbigliò all’orecchio, troppo piano perché Kenley potesse udire: «Credo che ci rivedremo. E se non riuscirai a soddisfare Jake, dovrò finirti. Allora, io e la sorellina avremo un po’ di tempo per conoscerci a fondo».

    Appoggiò una mano sulla spalla di Kenley, che si allontanò così io mi misi tra di loro, così vicina da respirare l’alito puzzolente di birra di Jonah. «Certo che tornerò, ma tu non mi vedrai arrivare. E se l’avrai toccata anche solo con un dito, te lo taglierò insieme a tutti gli altri, poi te li infilerò in gola finché soffocherai.»

    2

    Ian

    «Ti ho mai detto che sei un idiota?» mi chiese Aaron, guardando attraverso il parabrezza l’alto cancello di ferro e la casa imponente dietro di esso. Sempre che un obbrobrio del genere potesse essere chiamato casa. Sembrava più una fortezza moderna.

    «Circa venti volte da quando sono atterrato.» Tirai giù il parasole e controllai la cravatta.

    «Ancora non ti è entrato in testa?»

    Nell’abitacolo buio, dove le uniche luci erano i numeri luminosi che passavano sul display della radio, gli lanciai un’occhiata. «Le tue stupide frecciate non possono niente contro di me.»

    «In effetti, il tuo cranio è più spesso di quelli della gente normale» disse Aaron, scorrendo le stazioni della radio. «Ma non riuscirà a fermare un proiettile. Sembrano persone civili, in smoking e lustrini, invece sono mostri travestiti da uomini, senza nessuna eccezione. Ti mangeranno vivo, Ian.»

    «Mi auguro di andare loro di traverso.»

    Premette il pulsante per spegnere l’autoradio, insolitamente serio. «Te ne sei andato da più di sette anni, eppure non è cambiato niente. Continui a buttarti nelle cose a capofitto e a pretendere che il mondo ti segua, infischiandotene delle possibili conseguenze.»

    «Non è vero.» Il ragazzo di un tempo era un idealista, ma malleabile. Sveglio, ma ingenuo. Quel ragazzo era rimasto scottato dal mondo – carbonizzato, anzi – ed era risorto dalle proprie ceneri, pronto a sputare fuoco. «Non mi smuovi, e ho ben presente le conseguenze. Come te.»

    «Sei sicuro che non vuoi che ti accompagni? Posso andare a prendere un abito da cameriere ed essere di ritorno in qualche secondo.» Aaron era un ombronauta, dunque poteva saltare dentro l’ombra dell’albero accanto alla macchina e riemergere in camera sua, nel tempo di un respiro. «Avrai bisogno di qualcuno di fiducia che ti guardi le spalle.»

    Sfortunatamente – o per fortuna, a seconda delle prospettive – gli ombronauti erano i talenti più comuni. Aaron vantava un raggio d’azione di poco superiore alla media, ma in quanto a precisione e puntualità lasciava molto a desiderare, soprattutto se non aveva un interesse personale. Perciò, nessuna organizzazione criminale si era mai interessata a lui.

    Era rimasto al sicuro per anni. Così sicuro, che spesso mi ero chiesto se non facesse finta di essere un incompetente. Non sarebbe stato il primo. Anch’io ci avevo provato. Comunque, non era questo il motivo per cui non potevo accettare la sua offerta di aiuto.

    «Grazie, ma no. Se ti fai vedere a casa di Tower, nel giro di un’ora si renderanno conto che sei un indipendente.»

    Sarebbero anche venuti a sapere che ci sapeva fare con i computer ma non con le donne, che era indietro con l’affitto ma sempre il primo a raccontare storielle divertenti, e che aveva una vera e propria dipendenza da quelle mentine che si sciolgono in bocca e si trovano ai matrimoni. La sua vita era un libro aperto, a disposizione di chiunque volesse leggerlo. Come nella maggior parte dei casi.

    Ecco perché solamente io potevo svolgere quell’incarico. Perché non avevo vita. Nessun passato. Ufficialmente, non esistevo neppure.

    «Voglio che tu ne resti fuori, in modo da essere la mia ancora di salvezza se dovesse finire male.»

    «Va bene.» Sembrava in parte sollevato e in parte deluso. Gli piaceva il ruolo dell’assassino senza scrupoli, non i rischi che esso comportava. «Chiamami, se avessi bisogno di fuggire.»

    «Certo» dissi io, mentre lui apriva la portiera del passeggero.

    Sapevamo entrambi che non l’avrei fatto. Non avrebbe potuto aiutarmi a scappare dal palazzo di Tower. Le griglie a raggi infrarossi impedivano a chiunque di intrufolarsi dentro attraverso le ombre. La pesante sorveglianza a ogni uscita rendeva impossibile entrare in modo tradizionale. Una volta all’interno, sarei stato solo.

    «Se sopravvivi a questa impresa da kamikaze, ci meritiamo una cena. E della birra.»

    «Assolutamente.» Un’altra bugia. Avevo intenzione di sopravvivere, sia chiaro, ma non avrei più avuto occasione di uscire la sera come un tempo, anzi, probabilmente non avrei più rimesso piede nel paese e soprattutto in quella città. Se fossi riuscito nei miei propositi, sulla mia testa avrebbero messo una taglia talmente alta che anche preti e boy scout si sarebbero azzuffati per catturarmi.

    «Buona fortuna, amico.» Aaron mi porse la mano e io la strinsi, poi uscì dall’auto a noleggio.

    Lo seguii con lo sguardo mentre si avvicinava agli alberi al lato della strada. Un passo. Due. Tre. Inghiottito dalle ombre.

    Presi un profondo respiro e controllai ancora una volta la cravatta nello specchio: non indossavo un completo da anni e la mia antipatia per gli abiti formali non era cambiata. Poi ingranai la prima e mi immisi in strada, in coda a una lunga fila di auto, tutte dirette nello stesso posto.

    La fila scorreva velocemente, grazie all’ottima organizzazione e all’efficienza degli addetti. Quando arrivai allo sbarramento, a pochi metri dagli scalini che conducevano alla casa, un uomo ritirò le mie chiavi, mentre un altro parlava alla radio fissandomi con uno sguardo fermo ma non invadente, che registrava ogni singolo dettaglio dei miei abiti e del mio portamento. Conoscevano il mio volto.

    Prima che mi allontanassi, una brunetta con un abito lungo e aderente color pesca scese gli scalini venendomi incontro. Sorrideva come una miss a un concorso di bellezza e si muoveva come una cameriera, rapida e servizievole.

    «Signor Holt.» Mi prese a braccetto e mi condusse verso l’ingresso. «Avremmo mandato un’auto a prenderla» disse, e insieme oltrepassammo una porta tenuta aperta da un maggiordomo. Era attenta, raffinata, composta, una bellissima donna, sicuramente esperta nel proprio lavoro.

    Non la persona che avevo richiesto.

    «Non era necessario. Volevo esplorare la città per conto mio.» Mi fermai nell’atrio, e lei non ebbe altra scelta che fare altrettanto. «Scusi, non ho capito il suo nome.»

    «Sono Nina, l’assistente personale del signor Tower.»

    «E sarà lei a farmi da accompagnatrice per la serata?»

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