Stagioni
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Info su questo ebook
Nulla è stabile.
Niente è per sempre.
Tutto passa.
E come per le Stagioni, dopo il freddo dell’inverno, vi è una sola certezza: tornerà a sbocciare la primavera, con i suoi colori e le sue grandi speranze.
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Anteprima del libro
Stagioni - Marcella Ortali
Epilogo
Autunno
L’autunno è lasciare andare.
Lasciare che le foglie cadano, che ciò che non serve più si stacchi dal ramo e voli via. Autunno è liberarsi, alleggerirsi, fare spazio.
Quando non siamo pronti a lasciare andare, autunno è sinonimo di lotta. Lotta interiore, ma non solo. Se non siamo pronti a lasciar andare le nostre paure, le nostre insicurezze, ciò che non amiamo di noi, ciò che non ci rende felici, non saremo mai pronti ad accogliere ciò che di nuovo può entrare.
L’autunno può essere una battaglia contro noi stessi oppure una liberazione.
Tutto dipende da noi.
Marcella
Era il 23 ottobre del millenovecentosettantasei, che scritto in lettere dà proprio l’idea di un tempo lontano anni luce. I Chicago uscivano con il loro nono album, venendo in tal modo considerati come una delle più prolifiche rock band del momento. If you leave me now
passava ormai in tutte le radio, e la stanno passando anche adesso nella radio di una Mini rossa che corre rumorosa e velocissima lungo le strade di una piccola città della Romagna. Per fortuna è sabato e non c’è molto traffico in giro. All’interno di quell’auto sono sedute due persone, una molto più grossa
dell’altra. Quella più grossa
continua a tenersi ben salda alla maniglia per aprire lo sportello dell’auto, ma l’impugnatura è fredda e la mano è talmente stretta attorno a quel metallo liscio che le nocche sono tutte rosse. La canzone non fa in tempo a finire che i due arrivano a destinazione. Non piove e non c’è troppo sole. Non è freddo e nemmeno troppo caldo. Si potrebbe dire un giorno ideale, per partorire. Eccomi qua: quattro chili di ciccia e amore.
Quando sbarchi sul pianeta Terra è tutto un po’ confuso e caotico, non hai proprio il tempo di capire e chiedere il perché. Nel senso, ok sono arrivata, ma il mio compito qual è? Cos’è che devo fare adesso? Ehi! Non mi risponde nessuno?
Simone
Mi aggiro per le corsie del reparto giocattoli carica di scatole, scatoline, scatolette. Di tanto in tanto mi ritrovo a fare gite turistiche nei più svariati negozi di giocattoli, iper, cartolerie e quant’altro. Il tutto per rifornire il mio studio e la mia automobile che, oramai, si è definitivamente trasformata in una sede lavorativa distaccata e vagante, ma con lo stesso quantitativo di oggetti che si può trovare nella mia Sala di Psicomotricità; quella fissa, intendo.
Ah… Ops, dimenticavo di presentarmi, quella carica di buste (o come è più corretto dire in Romagna, mia regione natale: carica di sportine ) sono io: Marcella.
Sono una Pedagogista e Psicomotricista, ovvero trascorro le mie giornate a cercare di far capire agli adulti che genere di figura professionale io sia e che attività svolga, mentre per hobby gioco con i bambini!
Per definire il mio lavoro, rubo la definizione datami da un bambino che ho incontrato in una scuola, durante il mio girovagare romagnolo: Io sono una Maestra dei giochi!
Lontana dall’essere realmente questo, ma contentissima che i bambini lo vivano così.
In ogni caso una certezza c’è, ed è che lavoro con i bambini. In genere mi chiamano quando ce ne sono di particolarmente intensi
da gestire. Amo i bambini intensi, perché ti suscitano emozioni intense, fatiche intense, soddisfazioni intense!
Ma torniamo alla mia spesa. Mi aggiro tra le corsie dell’ennesimo negozio di giocattoli con la mia lista tra le mani:
bolle di sapone (prese)
costruzioni di mais (prese)
colori a dito (presi)
pennelli (presi)
nastri ritmici (viola… erano troppo belli, non potevo non prenderli!)
palla di spugna (per sostituire quella che Giorgio ha preso a morsi fino a farla diventare un tondissimo pezzo di gruviera, presa).
Poi, ovviamente, girando ho trovato altre cose carinissime che proprio non potevo esimermi dal comprare: una piccola cucina di cartone, piattini e pentoline di plastica di ogni forma e colore e una miscela di brillantini ancora più brillante di quella che uso abitualmente. Bene! Direi che per oggi lo shopping è concluso. Camminando verso la cassa come una bilancia che lascia ondeggiare i suoi piatti ricolmi di oggetti, succede ciò che di più scomodo poteva succedere: suona il cellulare. Chiaramente non è concepibile arrivare alla cassa, pagare, riempire le buste, caricarle in macchina e richiamare.
No.
Appoggio tutto per terra nel mezzo della corsia, tra i Mini Pony e le bambole che fanno pipì quando dai loro da bere, e cerco disperata nella borsa il telefono che continua a suonare imperterrito.
Lo trovo.
« Buongiorno! Parlo con la dottoressa Marcella?»
« Sì, sono io» rispondo ansante mentre con la coda dell’occhio osservo le palle che, belle gioiose, escono rotolando dalla busta per cacciarsi in mezzo ai piedi di alcuni clienti.
« Buongiorno sono Laura, maestra di una scuola materna di Castello In Monte. La chiamo perché, se fosse disponibile, le vorremmo parlare di un bimbo che è arrivato quest’anno e ci piacerebbe organizzare qualche incontro con lei.»
E così in quell’esatto momento vengo a conoscenza dell’esistenza di un paesino che si chiama Castello In Monte (più semplicemente abbreviato in Castello), di una maestra di nome Laura, con la quale si sarebbe poi avviata una collaborazione durata anni, e della sua
scuola materna. Che proprio sua non era, ma era come se lo fosse.
Se proprio devo essere onesta con me stessa, pur consapevole che i bambini, le maestre e le scuole materne sono tutti uguali
e non si potrebbero fare preferenze, io ammetto di non esserci riuscita. Una volta varcata quella soglia, ho subito avuto un debole per la scuola materna di Castello e per la concentrazione di bambini intensi che ci stavano crescendo dentro. Era autunno quando andai a parlare la prima volta con Laura e, mentre salivo quelle colline mai visitate prima, mi riempivo di serenità e respiravo a pieni polmoni quell’aria frizzante.
Parcheggio di fianco a qualche gallina che mi osserva continuando a passeggiare nella piazzola attigua alla piazza del paese, affacciata sulla pianura sottostante. Sarei potuta rimanere ore a guardare il panorama, magari ascoltando un bel pezzo dei Massive Attack , invece era ora di entrare. Spengo la radio, chiudo la macchina, attraverso la piazza e mi ritrovo di fronte al portone della scuola materna.
Suono. Mi viene ad aprire una maestra, chiedo di Laura, mentre le grida dei giochi dei bambini riempiono ogni molecola dell’area circostante. È una piccola scuola eppure ha due sezioni miste, i bimbi sono tanti per questi spazi ridotti. Mi sento una Biancaneve moderna entrata, previo invito, nella casa dei nani. Decisamente più di sette.
Arriva Laura: stressatamente magra ma dall’approccio empatico e solare. Mi fa fare subito un giro turistico
della scuola. In pratica, stando ferma nel corridoio di un metro quadrato mi mostra le due sezioni, una accanto all’altra, poi salendo le scale si arriva nella zona cucina, salone, area nanna, ovvero un unico ambiente che all’occorrenza si trasforma per diventare esattamente ciò che serve. E proprio quella sala, in un futuro abbastanza prossimo, sarebbe diventata la Sala Psicomotoria per i bimbi della scuola di Castello.
Laura mi fa accomodare in una delle seggioline dei nani e comincia a raccontarmi di come sono organizzati, quanti bimbi ci sono, quante insegnanti, la cuoca, il pulmino, e via dicendo. Descritto il generale, arriviamo al dettaglio: Simone.
Simone è un bimbo treenne appena inserito. A detta delle maestre, incontenibilmente e aggressivamente intenso
. Mi racconta che non riescono a farlo partecipare alle attività, si rifiuta – non proprio gentilmente – di disegnare o di fare una qualunque attività al tavolo preferendo correre in giro a rovesciare ciò che incontra e nel tempo libero, come hobby, spinge e morde qualche amichetto non troppo felice di questo rapporto. Parrebbe un treenne davvero molto intenso.
Ci accordiamo per partire con il percorso insieme che, però, deve attendere i documenti e il via burocraticamente formale dalla direzione didattica. Tornerò in quella scuola a inverno inoltrato, quando ormai da tempo Babbo Natale avrà lasciato liberi i camini delle case del paese e tutti saranno già in fervente attesa del carnevale.
Cosa faccio nei miei incontri a scuola? Ascolto i bambini e dialogo con loro attraverso il gioco.
Questo è quello che faccio.
I bambini raccontano molto più con il gioco che con le parole, imparano molto più attraverso il movimento, l’esperienza, la condivisione di azioni che con una descrizione dettagliata delle regole condivise.
I bambini imparano assorbendo dalle esperienze quotidiane ciò che serve loro per crescere nel modo più adeguato possibile. Nel gioco il bambino vive relazioni con i coetanei, che per essere soddisfacenti e prolungate nel tempo devono essere adeguate; nel gioco impara senza imposizioni o lezioni teoriche l’importanza delle regole condivise, dei turni, del dare e ricevere, del vincere e del perdere; vive la gioia, la frustrazione, la vittoria, la sconfitta, l’essere protagonista, l’essere comparsa, come componenti egualmente importanti della stessa esperienza. Il gioco per il bambino è una scuola, una palestra dove allenare le emozioni e le relazioni.
Anche noi adulti siamo stati bambini, ma da tempo ormai abbiamo cambiato palestra in cui allenarci. Il gioco non è più la nostra palestra, ma questo non vuol dire che dobbiamo dimenticarci di quanto lo sia tuttora per loro.
Per cui, in genere, entro nelle scuole e lascio che i bambini giochino mentre io, con il mio sguardo attento, li ascolto. Avida di informazioni e di racconti di vita.
Entro nelle scuole sempre carica di borse e aspettative e, in genere, ne esco ancor più carica di parole non dette, di giochi giocati e non giocati, di domande, di pensieri, e sempre delle mie borse!
Nello stesso modo in quel freddo, freddissimo giorno di inverno inoltrato entro nella scuola di Castello. Vado in quella che sta per diventare la Mia Sala di Psicomotricità e preparo l’occorrente: musica, teli colorati e oggetti utili alla prima conoscenza, non troppi da confondere e non troppo pochi da lasciare senza niente da dire
. Mi tolgo le scarpe pronta per toccare con i piedi lo stesso terreno, per sentire nelle mie radici gli stessi passi