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La Dea Delle Origini: Prima di Dio - Dal mito all'archeologia del femminino sacro
La Dea Delle Origini: Prima di Dio - Dal mito all'archeologia del femminino sacro
La Dea Delle Origini: Prima di Dio - Dal mito all'archeologia del femminino sacro
E-book350 pagine3 ore

La Dea Delle Origini: Prima di Dio - Dal mito all'archeologia del femminino sacro

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Info su questo ebook

In una società declinata al maschile, in origine vi era la Dea

Millenni prima dei monoteismi patriarcali, nel cuore del Paleolitico scaturì un culto intriso di spiritualità e sciamanesimo che univa le donne e gli uomini, dalla Siberia fino alle terre oltreoceano.
Era il culto ancestrale della Dea che creava, dava la vita e la morte.
La Dea si manifestava tramite la natura, dava ordine e motivazione all’esistenza: era percepita come un’essenza immanente al mondo, senza tempo, senza volto. In Lei si realizzava l’eterno ciclo magico di “vita-morte-rinascita” che aveva il suo corrispettivo umano nella donna.
Il retaggio spirituale di questo culto si è tramandato nei millenni, tra culture e luoghi distanti sia nel tempo sia geograficamente, senza perdere il suo significato originale.

Con questo libro scoprirai:
  • Che il Femminino Sacro ha origini preistoriche ed è raccontato dalle Veneri del Paleolitico e dalle pitture rupestri
  • Che da Cibele ad Afrodite molti sono gli attributi, i simboli e i nomi con cui si venerava la Dea unica e primordiale
  • Come lo spirito della Dea madre ancestrale fosse già presente prima che si sviluppasse il concetto stesso di divinità
… e molto altro ancora.
LinguaItaliano
EditoreOne Books
Data di uscita16 nov 2022
ISBN9791255280934
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    Anteprima del libro

    La Dea Delle Origini - Stefania Tosi

    Introduzione

    La prima scintilla

    In principio vi era un grembo femminino, sacro e numinoso da cui nacquero il mondo, le stelle e l’umanità.

    Millenni prima dei monoteismi patriarcali, nel cuore del Paleolitico era diffuso un culto intriso di spiritualità e sciamanesimo che univa le donne e gli uomini, dalla Siberia fino alle terre oltreoceano. Era il culto ancestrale della Dea che creava, dava la vita e la morte. Lei si manifestava tramite la natura, dava ordine e motivazione all’esistenza. In Lei si realizzava l’eterno ciclo magico di vita-morte-rinascita che aveva il suo corrispettivo umano nella donna.

    Nelle società preistoriche, meno gerarchizzate e più egualitarie, la donna, sciamana, guaritrice e sacerdotessa, era la manifestazione terrena della Grande Dea, onnisciente e misteriosa.

    La donna-sciamana era una realtà in Siberia, patria dello sciamanismo, dove il dono ereditario si trasmetteva anche per linea femminile¹, mentre in Corea, dove lo sciamanismo è attestato dall’epoca degli Han (dal 206 a.C. al 220 d.C.), gli sciamani indossavano abiti femminili ed erano meno numerosi delle sciamane². Donnesciamane sono altresì attestate in Giappone, in Sud America, in Nord America, in Asia centrale e settentrionale, nel Borneo. Benché dibattuta, da tempo si insiste sull’importanza del Femminino sacro nell’India prevedica, nel Mediterraneo, nell’Europa arcaica e in Anatolia. Dagli albori della civiltà umana, attraverso miti, tradizioni e testimonianze archeologiche si tramanda l’antichissimo culto che tuttora strabilia nella sua multiformità: le splendide pitture rupestri delle grotte paleolitiche, le Veneri steatopigie, le dee egizie e indiane, le sacerdotesse di Cnosso o i templi megalitici di Malta e della Sardegna.

    Queste sono le mille voci del Femminino sacro,

    il culto nato prima di Dio.

    Di recente c’è stato un crescente interesse per le culture del Paleolitico e del Neolitico, il cui sviluppo conterrebbe elementi sinora trascurati in merito alle concezioni spirituali e soprattutto al ruolo della donna nelle comunità primitive.

    Un’antica narrazione giace nella polvere, tra i manufatti silenti di femminili corpi prosperosi, tra decorazioni geometriche e templi megalitici. Dalla metà del secolo scorso, la riscoperta di tale narrazione ha coinvolto molti studiosi e prodotto numerosi testi antropologici e archeologici. L’esplorazione di quel tempo opaco sta rivelando una sensibilità spirituale inattesa e profonda, che spinge a rileggere le certezze sullo sviluppo antropologico dei nostri avi. Gli studi convenzionali guardano sempre con sospetto alle teorie non conformi al modello accettato, come nel caso del periodo anteriore all’invenzione della scrittura, valutato accademicamente in senso primitivistico; tuttavia, lo scenario emerso da ricerche recenti non solo è più vario, ma persino rivoluzionario per quanto riguarda il ruolo della donna e la dimensione spirituale. Numerosi sono i libri scritti al riguardo e ispirati dalle teorie dell’archeologa lituana Marija Gimbutas, che ha sostenuto l’esistenza di un culto femminino e di una società preindoeuropea più egualitaria nei confronti della donna. Le sue conclusioni archeologiche, tuttora oggetto di studio, hanno scosso la visione tradizionale e acceso intensi dibattiti.

    Il valore antropologico di un culto femminino-panteistico, così denominato da chi scrive, è ancora dibattuto, a tratti osteggiato e apertamente sminuito. Tuttavia, le culture pre-storiche presentano costanti straordinarie a livello simbolico e rituale. Eminenti studiosi quali Momolina Marconi, Robert Graves, James G. Frazer, Joseph Campbell, Mircea Eliade, Marjia Gimbutas, Le Roy McDermott, A. Marshak, Uberto Pestalozza, Raphael Patai e molti altri si sono adoperati, in tempi di vedute ristrette e stantie, a riportare alla luce una parte essenziale del nostro passato e hanno avuto il coraggio di avanzare nuove ipotesi per amor di conoscenza e per dignità verso il senso storico. Dai loro studi emerge un quadro storico-sociale più che possibile e caratterizzato da una forte presenza femminile sia a livello sociale che religioso. Come disse Pestalozza³,

    «la dea autonoma, imperiosa, ribelle; la dea che non ebbe madre né padre ed è, nella sua intima essenza, madre e nutrice, non solo, ma generatrice universa»⁴.

    È pur vero che la storia delle origini è stata scritta in un linguaggio simbolico-figurativo di cui ancora non comprendiamo appieno il significato e ciò esclude, per onestà, ogni affermazione categorica al riguardo, sia in un senso che nell’altro. È opinione di chi scrive che il culto del Femminino sacro, intimamente connesso alla Natura, alla fertilità e al ciclo vita-morte-rinascita, non solo sia esistito, ma abbia coinvolto culture in tempi e luoghi diversi. In natura, infatti, la vita veniva in essere in un grembo femminile e pertanto l’Anima del mondo non poteva che essere un’entità femminile: la vegetazione, gli animali, gli astri e gli agenti atmosferici erano la manifestazione dell’immenso grembo divino che trovava un logico corrispettivo nella donna, grembo umano.

    Al contrario, nei sistemi religiosi indoeuropei e patriarcali entrambe le figure della dea e della donna furono progressivamente sminuite. Nel mondo greco-romano e poi con le tre religioni monoteiste – ebraismo, cristianesimo e islamismo – tale concezione socio-culturale ha avuto il suo acme. Proprio il sistema giudaicocristiano stigmatizzò la donna, facendone un demone, una peccatrice e una creatura minorata nel corpo e nella mente.

    Le società patriarcali evidenziarono costantemente l’inadeguatezza del genere femminile. Chiuse nei ginecei, escluse dalla vita politica e dalla cultura, le donne non potevano in alcun modo rendersi partecipi della storia in atto. Considerate adatte solo per la procreazione e incapaci di serie attività intellettuali, le donne sono state sminuite sino a diventare voci afone nella grande narrazione del mondo. I grandi sistemi religiosi, focalizzati sul predominio di una divinità maschile, sono il risultato della transizione culturale che coinvolse tutto il Mediterraneo tra la fine del Neolitico e l’età del Bronzo.

    Zeus, Marduk, Yahweh sono solo alcuni degli dèi

    sorti dopo la caduta della Dea.

    A ben leggere le teogonie, infatti, si può intendere come queste divinità, da principio paredri, si siano successivamente imposte e sostituite a dee dominanti come Era, Tiamat, Asherah. La condizione di subordinazione delle dee si è riflessa su tutte le donne, relegate ai margini della società, umiliate e definite minorate dalla scienza e dalla teologia di stampo patriarcale.

    Eppure, le prime opere d’arte dell’umanità sono state dedicate a donne-dee, non a divinità maschili, e l’arte minoica, anatolica e dell’Europa antica tramandavano l’influenza di sciamane e sacerdotesse in contatto con il divino.

    Perché non si celebrava Dio Padre?

    Perché invece si onorava il Femminino?

    Il presente saggio indaga la ricostruzione storica e archeologica delle società arcaiche, analizza contesti e ipotizza interpretazioni che contribuiscano alla comprensione del Femminino sacro quando, prima di Dio, scintillò l’alba dell’anima.

    Stefania Tosi


    1 M. Eliade, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee, 1992 Roma, p. 20.

    2 Ivi, p. 222.

    3 Storico e studioso milanese, autori di numerosi saggi.

    4 U. Pestalozza, Religione mediterranea. Studi vecchi e nuovi, ordinati a cura di M. Untersteiner e M. Marconi, Bocca editore, Milano, 1951, p. IX.

    1.

    Un genere manchevole e imperfetto

    «Uomo, sei capace di essere giusto? È la donna che te lo domanda. Chi ti ha concesso il potere supremo di opprimere il mio sesso? La tua forza? I tuoi talenti? Osserva la natura in tutta la sua grandezza, a cui tu sembri volerti avvicinare, e dammi, se ne hai il coraggio, l’esempio di questo tirannico potere»⁵.

    Olympe de Gouges

    Non si voltò a guardare la pensione di Madame Mahay. Non lasciava alcunché in quelle stanze smunte. Si sistemò l’abito consunto e in silenzio s’incamminò dietro alle guardie. Salì sul carro e quasi cadde nell’attimo in cui il cocchiere fece partire il cavallo. Sedutasi sulla panca di legno, si strinse lo scialle attorno alle spalle. L’aria pungente del mattino sulla gola esposta le avrebbe certo fatto venire un malanno. Olympe sorrise tra sé per quell’inutile preoccupazione.

    Le avevano rivolto gli appellativi più spregevoli: sgualdrina, traditrice, pazza, ma lei era solo una donna, una donna della Rivoluzione che aveva sostenuto con vivo ardore la missione rivoluzionaria, libertà, uguaglianza, fraternità.

    Con l’ostinazione infantile del suo sesso (come le avevano detto alcuni uomini della Rivoluzione) continuava a credere nei valori che facevano «tutti gli uomini uguali» e allo stesso tempo anche «tutte le donne uguali agli uomini». Ecco il tradimento, lo scempio uscito dalla bocca di una donnicciola! Ancora sentiva addosso gli sguardi infuocati dei deputati e le risatine nervose mentre bofonchiavano tra loro acide invettive.

    Olympe sospirò tra sé. Aveva lottato e sperato. Aveva scritto e manifestato i suoi pensieri con fermezza e onestà, secondo il modo che le era proprio. Aveva accettato la derisione e ascoltato le accuse infamanti, per poi ridicolizzare le loro infamie con la logica serrata delle sue argomentazioni. L’avevano odiata e l’avevano condannata: perché sapeva pensare e sapeva farli diventare piccoli piccoli, loro, sì loro, i grandi uomini della Rivoluzione. Gli stessi che l’additavano chiamandola traditrice della patria.

    Aveva tradito perché si era opposta alla condanna a morte del re o perché aveva propugnato libere elezioni pubblicando il manifesto delle Tre Urne⁶? Oppure il suo più imperdonabile tradimento era stato di aver sfidato pubblicamente l’Incorruttibile, il grande Robespierre, riconoscendo in lui i tratti di un tiranno?

    Quando il Tribunale rivoluzionario perquisì la sua abitazione non vi trovò documenti compromettenti, ma le prove di una sincera vocazione per la Repubblica e la Patria; malgrado ciò, la sentenza fu implacabile.

    Mentre i tetti in ardesia di Parigi la salutavano per un’ultima volta, Olympe capì il tranello in cui era caduta. Dagli strappi delle nubi grigie si sporsero occhi turchesi, che subito si ritrassero alla vista della lama scura e fredda, là nella piazza.

    Socchiuse gli occhi, pensosa. Ormai aveva compreso che la Rivoluzione era egualitaria e fraterna, sì, ma solo per un sesso, quello forte e padrone. L’altro, quello minorato, incapace, inetto, sì, insomma, il sesso femminile, ecco quel sesso era solamente una propaggine dell’umanità maschile. Una propaggine amputabile, come una testa. Molte erano state le donne che avevano avuto un ruolo decisivo nella Rivoluzione, senza ricevere alcun riconoscimento, e la Convezione nel 1793 non riconobbe loro neanche lo statuo di cittadine. Il piccolo calesse imboccò Rue de Rivoli. Là, in fondo, sulla schiena curva di un orizzonte schiavo, si apriva la grande Place de la Révolution. Olympe sentì il cuore accelerare i battiti, fino a sovrastare il rumore degli zoccoli sull’acciottolato. Aveva paura, ma non avrebbe pianto, né supplicato.

    Olympe si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Il calesse si fermò e il cavallo nitrì sommessamente. Scese da sola, senza appoggiarsi a nessuno, proprio come aveva vissuto. A testa alta, in silenzio, compì gli ultimi passi della sua esistenza. Salì i gradini del patibolo, lasciò che la preparassero, senza prorompere in volgarità, accuse o maledizioni. Le liberarono il collo dallo scialle e dai capelli e lei posò la gola nell’incavo dell’asse brunito dal sangue rappreso. Attese a occhi aperti mentre il boia controllava il meccanismo a leva. Forse, come avevano detto gli uomini della Rivoluzione, era colpevole di avere dimenticato le virtù che convenivano al suo sesso, ma aveva ricordato a sé stessa e a chiunque altro avesse voluto ascoltare e intendere che essere umani significava essere liberi ed eguali, senza distinzione di genere. E di tale convinzione non si pentì nemmeno sentendo la lama calare.

    Per la società è sempre stato molto chiaro quale fosse il ruolo delle donne. Antichi sentieri tracciavano la via da tempi immemori; abbandonarli per avventurarsi su altre vie era folle, sconveniente e innaturale. In fin dei conti, perché mai una donna avrebbe dovuto mettere in dubbio il suo destino tradizionale? Le attitudini femminili erano evidenti: gestione del focolare, riproduzione e cura della prole. Si trattava di una vera e propria conformazione naturale. Non solo. Teologi, antropologi e scienziati, nel corso dei secoli, avevano evidenziato una componente più biologica che culturale nella domestica indole femminile. La funzione sociale della donna era di adempiere a precise esigenze sociali e riproduttive.

    Il genere femminile non poteva essere considerato alla pari dell’uomo, da nessun punto di vista né fisico né intellettivo, poiché risultava manchevole di specifiche capacità che impedivano di studiare, formarsi e intraprendere una carriera lavorativa o ricoprire ruoli di potere.

    Persino nel progressista secolo dei Lumi il concetto di donna emancipata, autonoma e libera suonava cacofonico e ridicolo. Difatti, Jean Pierre André Amar, politico montagnardo, espresse il suo pensiero a riguardo in occasione del discorso alla Convenzione Nazionale nel 1793, dichiarando che la donna era fatta specificatamente per accudire e che istruzione, coraggio, politica e ingegno non appartenevano alla natura femminile.

    Tali convinzioni erano più vive e diffuse che mai anche nel Novecento. Si prenda ad esempio Edward Osborne Wilson, il fondatore della sociobiologia, che nel 1975 sostenne nella sua opera La Nuova Sintesi la tesi per cui, tramite spiegazioni in sommaria chiave evoluzionistica, era possibile individuare la base biologica dei comportamenti umani, come l’aggressività, il razzismo, l’androcentrismo e la fragilità femminile. Sostanzialmente Wilson proponeva un’analisi comparativa tra il comportamento sociale umano e quello di svariate specie animali.

    La sociobiologia si propone di comprendere, di spiegare e di modificare la società umana attraverso lo studio della natura biologica degli uomini che la compongono. Secondo essa, solo le società che rispettano le imprescindibili naturalezze individuali saranno in grado di funzionare, risultando stabili nel tempo e scorrendo piacevolmente nella storia dell’umanità. Si tratta – altrettanto naturalmente – di società strutturate secondo criteri di dominazione, dove individui, razze o nazioni occupano posizioni più favorevoli in quanto biologicamente migliori o superiori⁷.

    Il genere femminile rientra nella stratificazione sociale proposta dalla sociobiologia e, secondo la visione di Wilson, si trova in una posizione di subordinazione rispetto all’uomo in base a un fenomeno naturale che deriverebbe direttamente dalla nostra costituzione biologica. Tuttavia, oltre a essere azzardate, le estrapolazioni dal mondo animale a quello umano spesso sono fuorvianti e semplicistiche. Inoltre, tale ipotesi suggerisce l’impossibilità di modificare quei comportamenti umani fondamentali che sarebbero il risultato dell’evoluzione della nostra specie; sostanzialmente Wilson e la sociobiologia suggeriscono un marcato e pericoloso determinismo congenito che travolge tutti, decidendo geneticamente razze padrone, razze inferiori, sesso forte e sesso sottomesso.

    Il destino socio-culturale può davvero essere scritto nei geni? «Donna e uomo» possono essere gerarchizzati per motivi biologici? Charles Darwin, il naturalista autore de L’origine delle specie, al riguardo spiega che

    «la distinzione principale nei poteri mentali dei due sessi è costituita dal fatto che l’uomo giunge più avanti della donna, qualunque azione intraprenda, sia che essa richieda un pensiero profondo, o ragione, immaginazione, o semplicemente l’uso delle mani e dei sensi. Se vi fossero due elenchi di uomini e donne che eccellessero maggiormente nella poesia, nella pittura, scultura, musica [...], storia, scienza e filosofia, con una mezza dozzina di nomi sotto ciascuna disciplina, non ci potrebbe essere confronto. Possiamo concludere che, con la legge della deviazione dalla media così ben illustrata da Galton nel suo libro Hereditary Genius, se gli uomini sono in molte discipline decisamente superiori alle donne, il potere mentale medio dell’uomo è superiore a quello di queste ultime»⁸.

    Anche Darwin, quindi, sosteneva che il sesso maschile era superiore e più dotato mentalmente per natura biologica: «L’attuale diseguaglianza delle qualità mentali tra i sessi non potrebbe essere annullata da una uguale educazione giovanile, né può essere stata causata da una educazione giovanile dissimile»⁹. Le qualità mentali a cui si riferisce Darwin erano prove evidenti di un gap evolutivo che non poteva essere in alcun modo colmato e accertavano una verità lapalissiana: la donna era cerebralmente meno dotata. Tale condizione la avvicinava alle razze inferiori che in quegli anni venivano scientificamente individuate e catalogate.

    Nel 1855 il conte Joseph Arthur de Gobineau scriveva il Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, in cui spiegava con pratico senso civico che il genere umano era organizzato in razze secondo uno schema piramidale al cui vertice si trovava una razza in particolare, quella europoide caucasica, considerata superiore a tutte le altre. Leggi naturali determinavano lo sviluppo, la supremazia e il diritto alla civilizzazione dei bianchi nei confronti di ogni altra razza. Nella sua disamina pseudoscientifica lo scrittore francese affermava che la varietà nera era la più umile e giaceva al fondo della piramide sociale, essendo dominata da una smisurata animalità e scarse attitudini intellettuali; quindi, una razza infima e infida, quasi bestiale, da dovere costantemente vigilare ma abbastanza addomesticabile sotto i colpi della frusta.

    Appena sopra si trovava la razza gialla, che De Gobineau specificava caratterizzarsi per la tendenza all’obesità, all’apatia, alla fragilità mentale e corporea; in sintesi, una razza mediocre, di dubbia utilità se non per semplici lavori manuali¹⁰.

    Il vertice della piramide era occupato dai popoli bianchi: dotati di grande intelligenza, straordinaria potenza fisica, spiccato senso dell’onore, profondità di sentimenti. Le conclusioni a cui era giunto de Gobineau vedevano un preciso disegno evolutivo della storia dell’uomo: tutte le civiltà derivavano dalla razza bianca, in particolar modo da quella ariana, il ramo più illustre della specie¹¹.

    Krafft-Ebing, psichiatra tedesco del XIX secolo, nella sua opera più celebre, Psychopathia sexualis, delineò l’evidente funzione passiva della donna dal punto di vista sia psicologico che sociale; lo psichiatra sosteneva che lo scopo primario del genere femminile era, oltre a garantire una progenie al consorte, soddisfarne il piacere. Molto semplicemente, la donna risultava predisposta per costituzione naturale alla sottomissione psicologica, sessuale e sociale.

    Anche Marco Ezechia Lombroso, medico e antropologo italiano dell’Ottocento, ribadiva l’oggettiva inferiorità femminile anche nei contesti criminali. Lo studioso, divenuto celebre per la teoria dell’atavismo, che legava l’indole criminale a una caratterizzazione anatomica, riconobbe le donne incapaci di atti delittuosi, non perché dotate di uno spiccato senso etico e morale, ma semplicemente in virtù di una connaturale mancanza di coraggio, forza fisica e intelligenza. In sostanza, la femmina non era abbastanza sveglia per compiere alcun crimine.

    Nel celebre La scimmia nuda del 1967, lo zoologo ed etologo britannico Desmond Morris, riprese l’ipotesi di Ebing, rimarcando come lo sviluppo della donna fosse tutta in funzione del piacere sessuale maschile.

    Il pregiudizio sull’inferiorità della donna era ben radicato e supportato dalle varie scienze. Nel paradigma dell’evoluzione umana, rappresentato secondo l’ortodossia scientifica come un percorso che va dalla condizione scimmiesca alla perfezione umana, la donna è stata considerata esclusivamente come accessorio non determinante. D’altronde i protagonisti della Storia erano tutti uomini, ritenuti come rappresentativi dell’Umanità.

    La scienza non aveva dubbi: la donna, di qualunque specie, era una creatura inferiore.

    Nell’introduzione alla Storia delle donne in Occidente, George Duby scrisse che «per molto tempo le donne sono state lasciate nell’ombra della storia. Poi hanno cominciato a uscirne». Per secoli, i luoghi comuni sull’«imbecillità» femminile sono stati sorretti dagli uomini e accettati dalle donne¹²; l’isolamento e la mancanza di istruzione avevano dato forma a pregiudizi sulle capacità delle donne, dimenticando che la condizione di inferiorità era culturale e non biologica. Tuttavia, secoli di oscurità e di silenzio non si scrollano dalle spalle in un attimo. Soprattutto, non si cancellano le abitudini mentali a considerare il genere femminile come inferiore, fragile, inadatto a ruoli diversi da quelli appunto definiti naturalmente da donne.

    I meccanismi che impongono le donne al silenzio, che rifiutano di prenderle sul serio e che le tagliano fuori dai centri di potere affondano nell’antico mondo greco-romano¹³. La parola, specie in pubblico, era una facoltà maschile.

    Il binomio donne e oratoria era sentito come una pura contraddizione in termini. Che cosa avrà mai da dire di interessante una donna? E con quale goffaggine si esprimerà? Senza oratoria non vi era potere e senza potere non vi era prestigio. Tale era il pensiero condiviso nell’antica Grecia, tanto che nel IV secolo a.C. Aristofane vi dedicò una commedia, ridicolizzando l’ipotesi per cui le donne potessero un giorno governare la polis, partendo dalla congenita incapacità femminile di parlare in pubblico. Esse, di fatto, vivevano ai margini della società, essendo prive di diritto politico e con scarsissima indipendenza economica e sociale¹⁴. D’altronde la società antica era fortemente gerarchizzata e l’applicazione della discriminazione di genere e di razza era la norma. Si pensi ad esempio all’orgoglio spartano per la purezza del loro sangue e al disprezzo tributato alle razze inferiori come gli Iloti. È una forma mentis che nei secoli ha guadagnato pensatori prolifici, le cui opere hanno scientificamente illustrato perché fosse giusto classificare il genere umano in razze o genere secondo capacità intellettive e morali.

    Persino la Rivoluzione francese, ispiratrice dei valori di fraternità, uguaglianza e libertà, rimase sorda alle istanze di equità sociale avanzate dalle donne francesi. Olympe de Gouges fu autrice, con inchiostro

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