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Se non fossi più lì
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E-book204 pagine3 ore

Se non fossi più lì

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Info su questo ebook

Un viaggio attraverso nuovi meravigliosi personaggi che vi faranno sorridere, riflettere, commuovere. Donne e uomini alla ricerca di una via di fuga come Neonati strappati dal mondo a caldi ventri materni, verso un’esistenza che, nel suo complesso, altro non è che la continua ricerca d’un punto debole dove poter affiorare.”
Storie d’infedeltà, incomprensioni, incapacità di fronte a una vita che sembra sempre più spesso indecifrabile e alienante. Una donna svegliata all’improvviso nel cuore della notte da un suono insopportabile e insistente giungerà a una scoperta sconvolgente che la riguarda da vicino.
Uno scienziato che indaga le origini del cosmo dovrà arrendersi di fronte alla natura controversa del suo io e del suo rapporto con la moglie.
Con uno stile incalzante e intenso, a tratti ironico, Cavalieri indaga ancora una volta l’animo umano alla ricerca dei suoi lati più oscuri e seducenti.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2020
ISBN9791220237345
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    Anteprima del libro

    Se non fossi più lì - Roberto Cavalieri

    scale)

    Se non fossi più lì

    I

    Il tempo è fondamentale, ci definisce, dà forma ai nostri pensieri, ai ricordi, ai progetti, ai risultati, agli obiettivi mancati e ai dettagli mancanti. Forse è proprio questo a renderlo così importante, per il potere che ha di rivelarci le ripetizioni, le allusioni, le sovrapposizioni, le debolezze. Se è vero che è l’anello debole della catena a determinarne la tenuta e la rottura, allora possiamo pensare che il tempo sia la variabile dominante, superiore allo spazio (a cui pure è legato a filo doppio come dentro il DNA), alle persone che incontriamo, alla salute, al denaro…Il tempo le attraversa tutte, come i neutrini nell’Universo, come lo sguardo di una madre per i suoi figli; tutto sommato, pensa Julia, è ciò che più ci rende consapevoli come esseri umani.

    Dal finestrino dell’aereo che sorvola a bassa quota la verde campagna inglese, emergono via via una chiesa, un’autostrada, un ponte, un fiumiciattolo, anonimi capannoni e piccoli agglomerati di bifamiliari con i tetti rossicci. Sono passati più di quindic’anni da quel suo primo viaggio a Londra e non ricorda neanche bene se l’aeroporto fosse lo stesso o un altro. Eppure, scrutando quel paesaggio immerso a tratti nella foschia, cerca di ritrovare un’emozione, un pensiero, il nodo allo stomaco che l’aveva accompagnata quella prima volta durante l’atterraggio. Non è rimasto molto della ventenne incasinata che un giorno aveva deciso di punto in bianco di prendere un biglietto aereo per Londra con il ritorno aperto. Allora, la vita le sembrava inconsistente e imprevedibile, leggera e senza fine. Se le avessero chiesto dove si vedeva da lì a dieci anni, molto probabilmente li avrebbe mandati a quel paese. Aveva deciso di partire subito dopo aver dato l’esame di macroeconomia, a metà settembre, quando tutti si preparavano a seguire i nuovi corsi e a ricominciare il solito tran tran. Suo padre non era molto entusiasta, sua madre nemmeno, anzi, aveva cercato in tutti i modi di farle cambiare idea, prima con le buone, poi con l’unica arma che ancora possedeva: far leva sul suo senso di colpa. Una volta fatto i conti con quello, schivare l’altra bordata, ovvero il taglio dei fondi, era stato relativamente facile: avrebbe usato i soldi che aveva guadagnato con un anno e passa di ripetizioni.

    A quel tempo stava con Massimo, un ragazzo che aveva conosciuto all’Università; più un tipo che bello, il tipo di ragazzo che sua madre considerava inadeguato, ma era intelligente e la faceva ridere. Quando lei gli aveva detto che sarebbe partita, lui l’aveva guardata con quella sua aria un po’ triste e le aveva solo chiesto quando sarebbe tornata.

    Quando finisco i soldi, era stata l’ovvia risposta, ma la verità era che non lo sapeva.

    Ora invece lo sa: lunedì mattina alle dieci dev’essere in ufficio per una riunione col suo capo e i clienti tedeschi, quindi prenderà l’ultimo volo di ritorno da Heathrow per Linate domenica sera alle 20.05. Marco le aveva chiesto se voleva che l’andasse a prendere, ma lei con finta nonchalance gli aveva risposto che non era il caso, che si sarebbero visti in ufficio lunedì mattina, e lui non aveva più insistito.

    Non è la prima volta che atterra a Heathrow, ma ogni volta, invariabilmente, quell’aeroporto le sembra diverso: i banchi dei check-in, i ristoranti, i pub, le insegne con le indicazioni per i voli in transito o per il controllo passaporti. Ciò che invece riconosce immediatamente è l’odore: un misto di cibo, di hamburger, patatine fritte, di profumi di marca, di gente proveniente da tutte le parti del mondo.

    S’avvia alla stazione della metro senza neanche passare dal ritiro bagagli; per un weekend da sola, un trolley e una borsa sono più che sufficienti, anche se siamo a novembre e ci sono otto gradi. Ha appuntamento con Mary, la sua amica londinese, per il giorno dopo alla Tate Modern, quindi ha tutto il tempo di arrivare in hotel, farsi una doccia, e decidere con calma se uscire a cena da sola o mangiare qualcosa al ristorante dell’albergo.

    In coda per il biglietto della metro una donna davanti a lei si fa aria con un ventaglio ricamato, un po’ insolito -pensa Julia - vista la stagione. La mano è piccola e ben curata, le dita fino al dorso ricoperte da misteriosi disegni fatti con l’ hennè , all’altra estremità unghie lunghe e scure come scaglie di cioccolato fondente si chiudono con delicatezza attorno alle sottili bacchette laccate di rosso. Non deve avere più di trent’anni; l’ovale del viso incastonato in un velo di seta nera, incornicia occhi color caffè definiti da un leggero tratto di matita scura. Ciglia e sopracciglia, delicate e sinuose, sembrano disegnate da un antico liutaio di Cremona.

    Di tanto in tanto, si gira noncurante rivelando il profilo del naso piccolo e perfetto, le labbra carnose lasciano intravvedere appena gli incisivi lucidi e bianchissimi, e dal cappotto indaco, aperto sul davanti, spunta una tunica verde malachite che fascia la pancia incinta di parecchie settimane. L’uomo che l’accompagna, in elegante completo grigio, è più basso di lei di due o tre centimetri e più vecchio di quattro o cinque lustri. Trascina mollemente due giganteschi trolley che sembrano aver fatto un paio di volte il giro del mondo; dita tozze e inanellate stringono i manici allungabili come un pappagallo sul trespolo. Non parlano e non si guardano, lui si limita a trascinare i valigioni e lei incede di pochi centimetri alla volta senz’altro gesto che quel ritmico movimento della mano, flessuoso ed elegante come una volèe sotto rete di Federer a Wimbledon.

    Anche Julia sa di essere una bella donna; nel corso degli anni non le sono certo mancati riconoscimenti e apprezzamenti da parte sia di uomini che di donne. L’azzurro dei suoi occhi sembra quello del cielo d’inverno in una giornata di sole in montagna, schietti e trasparenti come uno short di tequila alle tre del mattino. Le labbra sono morbide e piene, e quando sorride le vengono due splendide fossettine ai lati della bocca, molto sexy, a detta di tutti. Alla soglia dei quaranta, sa di avere ancora frecce al proprio arco ma anche che la faretra si sta svuotando velocemente.

    Prima di allontanarsi, la donna fa per allungare la mano libera verso la maniglia di una delle due valigie, lui però subito l’anticipa dicendole qualcosa in tono gentile ma deciso, senza alzare la voce o far trapelare un’emozione, senza una nota di disappunto o un sorriso. Se ne vanno così, lui davanti a farsi largo tra la folla e lei dietro, a piccoli passi misurati.

    Man mano che il treno procede verso il centro della città la carrozza si riempie, le persone entrano ed escono a decine, il bilancio però è sempre positivo, forse regolato dalla stessa legge che nell’Universo fa aumentare la densità di un sistema man mano che si procede dall’esterno verso il centro, sia esso una galassia, una vena aurifera, il profumo d’un fiore. Julia ricorda di aver letto che secondo alcuni studi, lo spazio vitale intorno a noi è di circa un metro, quindi pensa allo sforzo che deve fare tutta quella gente per non sentirsi a disagio, osservata, stipata, annusata. Persone come molecole: più le comprimi in un volume ridotto più aumenta lo stato di agitazione.

    Fino a un certo punto, se proprio non è una calca opprimente, lei in mezzo alla gente ci sta bene, anche in mezzo ad estranei, anche quando si trova a passeggiare per le strade di una città che non conosce. Suo padre era così. Ricorda i racconti di quando tornava a casa dopo un viaggio di lavoro. Parlava delle città che aveva visitato descrivendo più che altro le abitudini della gente, le stranezze, i piccoli vizi. Riusciva a trasmetterle un senso di libertà, di partecipazione, di appartenenza ad un’unica grande comunità, un po’ ingenuo forse, ma che sembrava autentico e confortante. Sono sei mesi che è morto e ancora non sa se gli manca di più adesso o quando da bambina se ne andava via settimane intere per lavoro.

    La scritta sul cartello pubblicitario di fronte a lei dice:

    You are not alone.

    e sotto un trafiletto in inglese che tradotto dice più o meno:

    Ci sono momenti nella vita in cui succede di aver bisogno di qualcuno con cui parlare. Ecco perché dovresti conoscere uno di noi.

    È la pubblicità di una società che presta soldi e Julia non può trattenere un sorriso che si spegne solo un paio di fermate più avanti quando, controllando il display del cellulare, vede il pop-up di una chat di Marco che chiede: Tutto bene?. Ora però non ha voglia di aprirlo né di rispondere, lo farà più tardi, in albergo, dopo una bella doccia calda e magari una birra.

    La prima volta che conobbe Mary fu nei pressi del Tower Bridge. Si erano ritrovate entrambe col naso all’insù a guardare quel tizio chiuso in una scatola di plexiglass appesa al braccio d’una gru a una decina di metri d’altezza sopra una delle due sponde del Tamigi.

    Dopo averlo osservato per un po’, ognuna per i fatti suoi, si erano guardate ed erano scoppiate a ridere. Mary aveva una risata particolare, molto acuta e singhiozzante, come se da un momento all’altro stesse per avere un attacco d’asma; ad ogni inspiro emetteva un suono simile al canto d’un gallo o al grugnito di un maialino, o tutt’e due insieme. Dopo aver rotto il ghiaccio, avevano cominciato a chiacchierare, anche se l’inglese di Julia non era buono per niente e Mary veniva da Dalston, un quartiere a Est di Londra dov’era nata e cresciuta e dove viveva ancora coi suoi mentre studiava arte al Camberwell College of Arts. Aveva un anno più di Mary e una massa informe di capelli raccolti sopra la testa stile Amy Winehouse bionda.

    Venne fuori che il tizio nella scatola si chiamava David Blaine, un illusionista americano di trent’anni che si era fatto chiudere lì dentro dal 5 settembre senza cibo e con la sola acqua che gli arrivava da un tubo di gomma collegato con l’esterno. Mary le aveva raccontato che lì attorno erano in pochi a credere che stesse facendo sul serio, che forse insieme all’acqua gli passavano anche vitamine e sali minerali. In quei giorni, verso fine settembre, lo scetticismo aveva lasciato il posto alla pura e semplice presa per il culo. Alle chitarre, ai tamburi, ai sax che suonavano giorno e notte per tenerlo sveglio, si erano aggiunte ragazze vestite da hamburger coi seni di fuori, uomini pieni di piercing e tatuaggi, ubriachi, che si calavano i pantaloni per mostrargli il sedere.

    C’era stato pure un tizio in giacca e cravatta che, con un cesto di palle, una mazza da golf e la pipa, aveva cominciato a sparargli drive per cercare di rompere il vetro. A quel punto la polizia aveva raddoppiato i turni, ma i lanci, anziché cessare erano aumentati; oltre alle palle da golf si erano messi a lanciare anche uova, pomodori, proiettili di vernice, merda di cane. Uno addirittura, era arrivato con un piccolo elicottero telecomandato con cui aveva fatto cadere sulla gabbia di plastica un cheeseburger unto e bisunto.

    Julia e Mary, dopo quel loro incontro al Tower Bridge, avevano continuato a vedersi, la sera, nei locali, o nei pomeriggi in cui Mary era libera dalla scuola. Avevano parlato di ragazzi, di famiglia, di università, di arte, musica, ed erano anche tornate a trovare David, altre due o tre volte, mischiandosi alla gente che nel frattempo era aumentata e lo teneva d’occhio cercando di scoprire il trucco.

    A un certo punto un giornalista riuscì a impossessarsi delle sue urine e le fece analizzare. Si scoprì che stava digiunando veramente e che le sue funzioni vitali si stavano riducendo al lumicino. Nonostante questo, il ping-pong tra sostenitori e maniaci dello scherzo era andato avanti praticamente fino all’ultimo, fin quando cioè verso metà ottobre quel messia un po’ pazzo e un po’ ingenuo non si decise a scendere accolto da un applauso fragoroso e liberatorio.

    Il giovane David non s’era lavato per quarantaquattro giorni di fila, aveva fatto i suoi bisogni in un tubo, dietro un tendaggio sempre più liso. Aveva patito il mal di schiena, i crampi, il freddo di notte e il caldo soffocante di giorno, emicrania, dispepsia, tachicardia, sbalzi di umore, il tutto per un non meglio definito ideale e per il milione di sterline che Sky gli aveva promesso come diritti televisivi.

    Julia era tornata in Italia una settimana dopo e da allora era sempre rimasta in contatto con Mary. Ogni tanto, come questa volta, riuscivano perfino a vedersi e a fare due chiacchiere in una lingua che è un misto tra inglese e italiano, visto che poi anche Mary ha deciso di studiare l’italiano e soprattutto di trovarsi un marito di San Marcello, provincia di Pistoia.

    II

    Quando la vede arrivare, di fronte all’ingresso dell’ex centrale termoelettrica, Julia è intenta a leggere il pieghevole di una delle mostre temporanee che s’è ritrovata in mano dopo aver curiosato un minuto all’interno del museo. Sono quasi due anni che non si vedono, da un Capodanno organizzato all’ultimo momento dopo che Marco aveva tergiversato per due settimane adducendo scuse insulse e impegni di lavoro. Alla fine s’era stufata e aveva comprato il biglietto aereo solo per lei e prenotato una delle ultime camere d’albergo rimaste su Booking. Quando lui l’aveva saputo, aveva fatto pure l’offeso dicendole che era sempre la solita, ma poi era corso a comprare il biglietto pagandolo di più e senza la possibilità di scegliere il posto a sedere. Il risultato fu che viaggiarono separati sia all’andata che al ritorno.

    Il sorriso di Mary sbuca tra i volti delle persone che sopraggiungono alla spicciolata da Holland Street quando è ancora a più di trenta metri; allarga le braccia in una specie di body shake da villaggio vacanza e a piccoli passi saltellanti le corre incontro per abbracciarla. Julia si abbandona alla stretta sincera dell’amica, ma non riesce a nascondere un certo imbarazzo, una stupida rigidità che sperava proprio d’aver lasciato a Milano prima di salire sulla scaletta dell’aereo. Quando si staccano, rivede ancora il viso della ragazzina che l’aveva accolta in casa sua tanti anni prima: gli occhi vispi, i denti un po’ sporgenti, i capelli ancora ingestibili nonostante ora li porti più corti e di un colore decisamente meno blond. Vorrebbe dire qualcosa ma l’emozione la trattiene, quindi tocca a Mary prendere l’iniziativa:

    Oh, come on…

    Julia prende le mani dell’amica tra le sue e prova a ricambiare il suo entusiasmo con un sorriso che vorrebbe avere la forza di spazzar via tutto, come la brezza che soffia sopra il Tamigi e che spinge verso il mare le nubi color cemento. Ha tante cose che vorrebbe dirle, è venuta soprattutto per quello, per vedere se è possibile ritrovare un po’ di quella complicità, di quella leggerezza che da qualche tempo manca nella sua vita, come un miraggio, un’oasi nel deserto, un sogno nel sogno, riflesso nel finestrino di un aereo.

    Che bello vederti.

    Anche per me – risponde Julia. – Sei in formissima.

    Anche tu, darling. Sei sempre uguale. You’re so beautiful.

    Prima la mostra o prima some food? – chiede Mary.

    Mah, non so. Che dici…? Some food?

    Right! L’arte si gusta molto meglio a stomaco pieno. – e così dicendo, prende Julia sottobraccio e l’accompagna chiacchierando verso gli ascensori della Tate.

    Dalle vetrate del ristorante, la vista sulla città è magnifica: i grattacieli, il fiume, Millenium Bridge, la cupola di Saint Paul. Dopo che il cameriere le ha fatte accomodare, Julia indugia per un momento sullo skyline finché Mary non richiama la sua attenzione schiarendosi la voce:

    Ehmm…So, darling? Come stai?

    Julia la guarda per un attimo poi abbassa rapidamente gli occhi sulle mani che giochicchiano con il tovagliolo bianco di cotone spesso. Se non fosse Mary a farle quella domanda, probabilmente avrebbe già risposto con la prima cosa che le veniva in mente:

    Bene, tu? Io bene. Il lavoro bene, Marco ok, mio padre è mancato da poco, mia madre così così; no, io niente figli, troppo impegno, poco tempo, sai, ormai…

    Mary allunga la mano sinistra tra i bicchieri accoccolandosi sul dorso della destra di lei che rimane a guardare i pollici vicini, due amanti impacciati che s’inseguono e si sfiorano senza sapere bene fin dove possono spingersi.

    Quando solleva di nuovo lo sguardo, gli occhi grigi e un po’ malinconici di Mary sostengono i suoi come le braccia di una madre che guida i primi passi del suo bambino, senza giudicare, senza chiedersi il significato di nulla, aspettando e basta. Consolatorio e disarmante allo stesso tempo.

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