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Le infradito nel fango
Le infradito nel fango
Le infradito nel fango
E-book488 pagine6 ore

Le infradito nel fango

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Info su questo ebook

Thriller - romanzo (373 pagine) - Qual è il limite? Quale il punto in cui il contatto con se stessi va perduto? Superarlo può essere una scelta consapevole, ma in ogni caso gli effetti si manifesteranno.


Attorno a sé Fulvio ha solo silenzio. Il lavoro lo ha cambiato, lo ha costretto a rinunciare a molto. Eppure, nonostante tutto, decide di giocarsela fino in fondo.

Saranno esperienze e viaggi, alienazione. Odore acre e fango rosso, mentre lo sbirro insegue attento i richiami del suo io.

Un thriller mozzafiato e struggente, scritto da un poliziotto che conosce bene le procedure di indagine, secondo capitolo della trilogia iniziata con il romanzo Nessun respiro (Delos Digital) e che si concluderà con il terzo libro, intitolato I bambini non ci vogliono stare.


Eduard Orselli è nato in Veneto nel 1982. Laureato in scienze politiche, da un decennio si occupa di attività investigative lavorando in una delle forze di polizia italiane.

Autore esordiente, è stato mosso dalla voglia di riportare in lettere le sensazioni che provano i professionisti durante le indagini condotte, mettendone a nudo i limiti e la reale umanità.

La trilogia su Fulvio Negri è il suo primo lavoro.

LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2018
ISBN9788825405873
Le infradito nel fango

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    Anteprima del libro

    Le infradito nel fango - Eduard Orselli

    9788825405507

    Alla mia famiglia,

    al nostro tavolo da quattro

    la domenica.

    Uno

    Camminavo, solo.

    Era una mattinata grigia di settembre, una di quelle in cui ci si rende conto che le vacanze sono finite, almeno per la gente normale. Le carnagioni marroncino post-abbronzatura erano ancora evidenti, indossate e sfoggiate dalle donne a passeggio seminude nonostante il fresco.

    Anch’io ero abbronzato, e anche le mie ferie si erano esaurite. Avrei ricominciato a lavorare proprio quel pomeriggio, abbastanza rilassato dopo un paio di settimane al mare. Quando l’aereo era atterrato, riportandomi al grigio della città, ero stato attraversato da una moltitudine di sensazioni.

    Alzando gli occhi sopra la pista di atterraggio avevo ritrovato il colore grigio delle nuvole. Il colore grigio di quella città, di tutte le città.

    Tristezza. Immediata nostalgia. Ansia.

    Tristezza. Nell’accorgermi di come i colori erano più plumbei di quanto ricordassi, in quelle tinte scialbe che abbracciavano i palazzoni del centro.

    Immediata nostalgia. Del senso di libertà che avevo percepito in piedi sulle scogliere al tramonto. Nostalgia di quel sentirmi ricco, o meglio, al pari di tutti gli altri vacanzieri che avevo incrociato. Nonostante le dialettiche, i modi di fare e la postura, in spiaggia eravamo tutti un branco di esseri umani che si rinfrescavano nelle acque. Piuttosto denigrante e degradante come immagine, ma era proprio l’interpretazione che avevo assaporato nelle spiagge più affollate. Anche se, a pensarci bene, di spiagge affollate ne avevo visitate ben poche.

    Infine ansia. Nel pensare che tutto ciò che avevo dato per scontato, dimenticato, chiuso nel cassetto, era di nuovo lì, pronto ad assalirmi. Come una seconda pelle. Sarei arrivato al lavoro e avrei salutato tutti. Poi avrei aperto l’armadietto, il cassetto. E in un secondo le vacanze, le spiagge, i culi e le tette che avevo guardato, sarebbero diventati un lontano e vago ricordo destinato alla polvere.

    L’ultimo giorno di ferie era stato pesante. Come ogni volta la cerimonia del rientro incombeva sulla mia psiche e sulla mia stabilità. Ore di attese, di volo, di attese, di spostamenti, di attese. In mezzo alla marmaglia di gente che rientrava, di bambini che gridavano. Di genitori con le occhiaie che pulivano nasini e rincorrevano palloni. Di baci, abbracci, di gente con la pelle screpolata e le foto da guardare nel tablet unto dalla crema solare.

    Straziante.

    Dopo giorni di benessere, era stato straziante. In quei momenti, dopo l’atterraggio, avrei semplicemente voluto chiudere gli occhi e materializzarmi sul mio divano una volta riaperti.

    Avevo accelerato, puntando dritto e senza soste fino al mio garage.

    Bramavo arrivare, eppure una volta a casa ero rimasto impressionato e allarmato dal silenzio. Fino a un secondo prima di aprire la porta blindata non avevo avuto altro desiderio che quello di essere lì. Ma a quel punto tra le pareti giaceva solo una casa vuota. Nessuno ad aspettarmi. Nessuno che parlava. Anche i muri sembravano ispessiti e totalmente isolanti dai rumori del mondo.

    Avrei chiamato volentieri mia madre ma, pensando potesse essere a casa con qualche amica, avevo temuto che sarebbe stata poco propensa ad ascoltarmi.

    Questo ero io. Questo sono io. Una contraddizione romantica. Uno che fino a un’ora prima pigiava sull’acceleratore per arrivare veloce al suo deserto. Infognato in una triste pianura senza emozioni, in cui i luoghi piatti non aiutano l’animo, costringendo le persone sensibili a cercare ausilio in sé stesse. A fondo.

    Rientrato, immerso tra i palazzi, non avevo più possibilità di emozionarmi di fronte a uno scoglio, a una cima. Al mare in burrasca. Niente. Tutto finito. Il sole, il caldo estivo. Il mare. Le corse in moto. Era tutto già tristezza, nostalgia. Il chiasso dei compagni di viaggio e il monotono ripetersi delle affermazioni non mi sembravano più così fastidiosi come erano apparsi qualche ora prima.

    Mi ero affacciato alla finestra, guardando il mio misero scorcio di città immobile.

    Dietro gli spessi vetri era silenzio. Un universo improvvisamente imploso.

    Al risveglio, la mattina seguente, le cose erano andate meglio. La puzza di mare, il profumo di mare, era svanito. Lo smog era di nuovo inodore. Insapore.

    Ero di nuovo nei miei panni, nei panni di Fulvio Negri. Ero di nuovo nell’habitat naturale dei predatori come me.

    Camminavo, solo, senza una destinazione apparente.

    Avevo delle bollette da pagare, e come sempre la cosa mi infastidiva. Ancora non conoscevo bene il centro cittadino anche se, sotto sotto, tutte le città in cui avevo vissuto erano intimamente gli specchi l’una dell’altra.

    Mentre ero in coda all’ufficio postale sentii il telefono vibrare nella tasca dei pantaloni. Attesi un attimo. Da quando avevo comprato, obbligato dagli eventi e dalla vita, un telefono di ultima generazione, avevo dovuto imparare a riconoscere le diverse modalità di vibrazione. Di suono. Social network, messaggerie varie, chiamate, media inviati, media ricevuti. Mi ci stavo abituando al punto che avrei faticato non poco a farne a meno. E la cosa di certo non mi piaceva. Avevo odiato dipendere dai genitori, dai capi, dalle fidanzate. Anche dipendere da un cellulare era una situazione che odiavo. Ma si sa, i tempi obbligano l’uomo a stare al passo.

    Dalla vibrazione mi resi conto che si trattava di un messaggio. Continuai imperterrito la fila, senza afferrare l’aggeggio. Avrei guardato più tardi. Apprezzare le comodità e le possibilità offerte dal telefonino era una cosa, farsi schiavizzare completamente da esso e da quella assurda brama comunicativa un’altra. Farsi schiavizzare era intollerabile.

    Durante le ferie li avevo visti tutti.

    Quelli che pensavano a fare le foto ai paesaggi e a farsi costanti autoritratti da postare. Quelli che in mezzo alla natura passavano le ore a guardare e commentare qualsiasi cosa gli amici avessero pubblicato.

    Quelli che messaggiavano. Gli uomini che si allontanavano per telefonare all’amante o per scriverle. Le donne che si allontanavano per telefonare all’amante o per scrivergli. I fidanzatini che rompevano le palle a tutti con il loro scusi ci potrebbe fare una foto?. Le donne sirenette che si facevano fare duecento scatti in posa a mezzo busto nell’acqua, semi-nascoste da un cazzo di scoglio.

    Avevo spento il telefono quando ero partito per le vacanze, e lo avevo riacceso solo dopo l’atterraggio, al ritorno. Nonostante questa presa di posizione mi ero comunque sentito patetico e stupido, quando ero stato pervaso dalla curiosità di vedere quanti mi avessero cercato.

    Quante richieste di amicizia. Quanti messaggi. Quanti commenti.

    Pochi. Pochissimi. La legge dei social network: o ci sei dentro, o non ci sei. E io, ovviamente, non c’ero.

    In coda alla posta avvertii nuovamente quella stupida curiosità, quella voglia di vedere chi mi avesse contattato. Afferrai il telefono e lessi il messaggio in primo piano.

    Animale, cerca di non dimenticarti che devi lavorare oggi! A dopo

    Patrizio era un collega, e da qualche mese lavoravamo insieme. Sorrisi, era proprio ora di ricominciare.

    Due

    Erano otto mesi che mi trovavo in quel reparto. Vittima autolesionista dell’instabilità, negli ultimi dieci anni avevo cambiato un sacco di ubicazioni lavorative. Quella che era la mia natura, ormai sbocciata e al culmine della fioritura, mi costringeva a rincorrere i miei limiti cercando di raggiungere l’apice, quello che pensavo fosse l'apice. O di farmi ammazzare, una volta per tutte.

    Nove mesi prima avevo chiesto di essere trasferito nella squadra dove a quel punto mi trovavo. Ero stato accontentato senza problemi, da una parte perché nel vecchio reparto avevo risolto una bella indagine, dall’altra perché non ero mai stato granché simpatico ai miei precedenti colleghi.

    Dopo tanti anni di lavoro ero cambiato, diventando uno sbirro con la faccia triste e ruvida. Uno bravo, uno che si era calato nel personaggio talmente bene da non avere quasi possibilità di uscirne.

    Avevo militato nei reparti ordinari, facendo una bella gavetta. Poi, notato per le mie capacità, ero stato impiegato quale investigatore. Mi trovavo da qualche mese al vertice dei reparti investigativi, mimetizzato tra i mastini che si dedicavano alle indagini più articolate e incasinate. Alle indagini che toccavano i pezzi più grossi, con risvolti spesso internazionali.

    La sezione era divisa in tre gruppi da nove persone che rispondevano a un unico capo. La mia squadra si occupava di droga. Di ogni tipo di droga, con la prerogativa unica di arrivare alla sorgente. Niente consumatori, niente piccoli spacciatori. Niente pusher. Arrivare alla fonte era l'unico obiettivo.

    Dopo un periodo di prova ero stato chiamato dal capo della sezione, un uomo dai tratti somatici morbidi, in netta contrapposizione a un carattere apparentemente totalitario e intollerante.

    – Si sieda, Negri. Allora: qui non siamo alle elementari. Non giochiamo. Non abbiamo nulla di cui vantarci, anche se siamo i migliori di questo settore. Per funzionare qui uno sbirro deve smettere di sembrare uno sbirro, cercando di ricordarsi di esserlo. E questa cosa, mi creda, non è facile. Non ho altro da dirle. Per quanto ci riguarda, lei è dei nostri. Se accetta l’incarico da oggi il suo nome sarà Ascia. Altrimenti, è stato un piacere. Il suo referente le farà firmare l’assegnazione o il rifiuto. Arrivederci.

    Dopo quelle parole ero rimasto zitto. Non avevo nulla da dire, come del resto il secco discorso non sembrava permettermi alcuna replica.

    Firmai, accettando la proposta. Se me l'avessero fatta anni prima avrei gridato di gioia per mesi, ma quel giorno non venni pervaso da alcuna sensazione del genere. Era il mio lavoro, e non ero più un ragazzino. Accettavo l’incarico sapendo ciò a cui andavo incontro, senza sogni e senza ambizioni, semplicemente convinto e fiducioso di approdare in un’isola che mi fosse congeniale.

    Ascia.

    Tra noi esistevano solo soprannomi, assegnati dai capi-squadra per qualche motivo sensato ma ignoto. Una specie di trapasso, o di battesimo.

    I primi tempi era stato tutto strano, non ci capivo granché di tutte quelle tecnologie, delle tecniche usate. Venni passato di settimana in settimana da un incarico a un altro, in modo da avere un’infarinatura completa del settore.

    Droga. A tutto tondo.

    Partivamo dalla base, recuperando i dati forniti dai reparti più piccoli, studiando le modeste piazze di spaccio e, lentamente, risalivamo la corrente. Ogni volta che c’era qualcosa da verificare, che avevamo notizie su traffici in corso, delegavamo altri reparti più piccoli che subito si precipitavano con arresti e sequestri. Il nostro lavoro rimaneva nell'ombra, almeno fino al momento in cui la scalata era terminata e rimaneva da appendere all’amo il trofeo massimo.

    Per arrivare a ciò usavamo un sacco di strumenti tecnici. E, soprattutto, il reparto infiltrava il personale nelle organizzazioni criminali. Tutti avremmo voluto fare gli infiltrati, almeno a parole.

    In realtà, sotto sotto, nessuno avrebbe voluto fare l’infiltrato.

    Prima di diventare Ascia avevo valutato bene la cosa, decidendo che poteva andare, che avrei potuto tentare anche quell’esperienza. Ma sapevo benissimo che la parola tentare non era tollerabile in quel tipo di attività. Tentare era sinonimo di lasciarci le penne, di fallire. Avevo fatto quella scelta perché mi sentivo sprecato nel precedente incarico, convinto di poter dare di più. Di poter essere uno sbirro migliore. Di potermi permettere di arrivare fino in fondo.

    Di certo non lo avevo fatto per potermene vantare, visto che non avevo nessuno con cui vantarmi della cosa.

    Nei primi mesi avevo parlato con tutti i miei nuovi colleghi, imparando a conoscere i loro strani nomignoli. Patrizio, con cui avevo stretto amicizia fin da quando mi trovavo nel precedente reparto, era stato battezzato Civetta.

    Durante quello svezzamento seppi tante storie, ascoltai tanti racconti. Alcuni riguardavano colleghi diventati leggende dell’ambiente, che avevano trascorso mesi, a volte anni, infiltrati nelle peggiori organizzazioni criminali del pianeta. Della mia squadra, da quel che avevo capito, erano in due a vantare esperienze di quel tipo.

    Tra noi c’era una sola donna, Amelie. A guardarla non era nemmeno male, mia parigrado. Un bel culo e delle forme generose. L’accento era marcatamente lombardo e nei rapporti coi colleghi appariva più maschio di altri. Da bravo cazzone ci avevo pensato, per qualche istante, alle cosce della collega. Ma ero subito rinsavito, allontanandomi dall’idea e riportando ogni considerazione a un piano strettamente professionale.

    Nella squadra eravamo tutti single. Scapoli. Separati. Single. La esse ricorrente. Mi ero reso subito conto che quello status era l’inevitabile conseguenza del lavoro, dei nostri orari incogniti e anomali.

    All'inizio ero riuscito a mantenere, in qualche modo, un rapporto sentimentale, una specie di storiella con un avvocatessa della città in cui avevo vissuto fino all’anno prima. Ma la distanza, seppur non così impossibile, mi aveva portato a liberarmi dal giogo affettivo. Beatrice ci era rimasta male, pensando che nella mia vita ci fosse spazio solo per il lavoro, ma da donna intelligente e intraprendente se ne era fatta subito una ragione.

    A distanza di mesi, nelle nottate più silenziose, l’avevo risentita. L’avevo rivista. Ci ero tornato a letto, rendendomi conto di come ogni contatto con lei fosse deleterio, come raccogliere i cocci di qualcosa di impossibile da aggiustare. Se avessi avuto il tempo di andare in cerca di donne l’avrei presto dimenticata. Invece, appena arrivato in quel nuovo ambiente, avevo avuto solo voglia di imparare i nuovi schemi di lavoro, costringendomi a dimenticare le esigenze personali. Come sempre.

    Con i colleghi stavo bene. Erano tutti particolari, tutti con strane fissazioni e peculiarità caratteriali. Tutti degli universi a sé stanti, ma di positivo, rispetto al mio vecchio incarico, erano emancipati e carismatici al punto di essere tutti allo stesso piano. Nessun regnante, nessuna prima donna. Almeno così sembrava. Il mio fegato, pesantemente provato in precedenti situazioni, si stava riprendendo dalle violente incazzature.

    Mi chiesi come mai mi avessero chiamato Ascia. Ma la regola, a proposito dei nomignoli, era ferrea: niente domande in merito.

    Tre

    Quel pomeriggio arrivai in anticipo rispetto al turno. Si notava che le ferie erano appena finite nella rilassatezza con cui i colleghi si rapportavano tra loro.

    Salutai tutti. Dovetti ripetere, con crescenti doti riassuntive, l’andamento delle vacanze, ascoltando di rimando le avventure degli altri. Alcuni, i più sfigati, erano rimasti a lavorare, inchiodati alle indagini in corso.

    Nessuno sembrava dedicarsi al lavoro, fino a quando Corsaro irruppe in corridoio, chiedendo se avessimo letto l’avviso in bacheca. Nel corridoio, in un grande pannello di sughero, erano appesi mille appunti. Di tutti i tipi. Operativi e non. In centro spiccava un foglio con scritto Briefing ore 15.

    Mancavano un paio di minuti all’orario indicato. Operosi e tranquilli entrammo nella sala riunioni e sedemmo. Il capo, Quercia, entrò pochi istanti dopo. Tutti tacemmo, in autonomia, senza bisogno di elementari richiami.

    – Ragazzi, allora. Bentornati a quelli che sono tornati. L’operazione HOL è in conclusione. I nostri paritetici in Olanda sono pronti. Chiuderanno i rubinetti domani nel loro paese. Noi abbiamo confermato, insieme ai tedeschi, per domani. Rimangono i francesi, ma dubito che gli interessi avvisarci sulla cosa. Comunque… abbiamo una divisione dei compiti precisa, e entro un’ora partiranno le comunicazioni per tutti i reparti sul territorio. Abbiamo una cinquantina di arresti e due carichi da bloccare. A noi rimangono solo i carichi, per il resto raccogliamo solo gli atti. Corsaro provvederà a fornirvi una cartellina con le istruzioni personali. Grazie e buon lavoro.

    Ci alzammo, in segno di marziale rispetto. Quercia lasciò la stanza, tornando al suo lavoro, isolato dai suoi sottoposti.

    Corsaro distribuì le cartelle. Presi e aprii la mia; poi, senza parlare, lessi l’incarico che mi avevano assegnato:

    – unitamente a Corsaro e Geremia – in sede per raccolta dati da vari reparti territoriali relativi gli arresti e l’attività in corso. Aggiornamento continuo situazione. Preparazione materiale per trasmissione atti finale.

    – Fanculo.

    Nove mesi che ero lì e sembravo recluso, nessun blitz all’aria aperta, non per me. Non un pedinamento. Nulla. Solo attività di gestione, ascolto delle telefonate o mille altre menate. Noie. Noie. Noie. E anche quella volta Quercia aveva deciso di lasciarmi al riparo.

    L’operazione HOL era partita dall’Olanda, dove era stata scoperta un’organizzazione che si occupava della produzione di stupefacenti sintetici, spedendoli poi verso vari stati europei. All’operazione avevano aderito Italia, Francia e Germania, collaborando attivamente. La mia squadra aveva monitorato le ordinazioni partite dall’Italia e atteso le consegne.

    L’indomani, in concerto con gli altri paesi, avremmo proceduto arrestando una cinquantina di acquirenti, intercettando anche un paio di camion in cui sapevamo avrebbero trasportato lo stupefacente.

    Io, da quanto disposto, sarei rimasto in ufficio a fare telefonate, ricevere mail e informazioni su come stava andando la festa.

    – Fanculo.

    Sapevo di doverlo accettare. Me la cavavo bene anche tra le scartoffie, questo il capo lo sapeva. Ma non si capiva se fosse una prova di forza a sfinimento, se stesse attendendo che perdessi la pazienza e bussassi al suo ufficio incazzato.

    In ogni caso, sapevo di doverlo accettare.

    Era un po’ che mancavo dall’ufficio, così sedetti alla scrivania e cominciai a leggere la documentazione relativa l’indagine HOL che mi ero perso durante le ferie. Il mio apporto era stato marginale, altri colleghi più anziani avevano portato avanti il grosso dell’attività.

    La sera, dopo lavoro, andai a cena con Civetta e Amelie. Una pizza. Un sacco di chiacchiere. Amelie non era ancora andata in ferie ed era elettrica, cosa che sembrava compensare la mia nostalgia del mare. Dopo un paio di birre ci sentimmo tutti più leggeri. Stavamo formando un bel gruppo, niente invidie o scazzi. In fin dei conti nel nostro reparto c’era solo un capo, solo Quercia, noi eravamo semplici api operose.

    Una volta rincasato mi sentii di nuovo addosso l’angoscia da rientro. Mi appoggiai sul divano, bevendo a canna da una bottiglia d’acqua mezza piena. Assetato dalla pizza, appesantito dalla birra.

    Era un po’ che era lì quell’acqua. Ma del resto, l’acqua non scadeva.

    Quattro

    La mattina mi svegliai all’alba. Dovevo essere in ufficio alle sei e mezza. Non mi piaceva alzarmi presto, ma mi bastavano pochi istanti per attivarmi.

    Dopo l’ultimo trasferimento avevo iniziato a spostarmi in moto. Avevo comprato da un collega una bicilindrica inglese un po’ datata, poche prestazioni ma un bel rumore. Una moto con personalità. Mi aveva lasciato a piedi un paio di volte, ma per mia stessa incuria: un gingillo preistorico ha bisogno di attenzioni.

    Accesi il motore nel garage interrato, elargendo un rumore cupo e grottesco nello spazio asettico. Mi stropicciai le palpebre, indeciso se fosse il caso di indossare gli occhiali da sole. Era buio, ma con il casco senza visiera l’aria in faccia sarebbe stata fastidiosa.

    Nella semi-oscurità della mattina sfrecciai fuori dalla rampa. Raggiunsi l’ufficio, a un paio di chilometri da casa. L’appartamento preso in affitto era stato scelto proprio per l’esigua distanza. Odiavo perdere tempo nel traffico, al volante. Soprattutto nell'insensato e illogico traffico cittadino.

    Nonostante il breve tragitto i vestiti avevano già preso un pungente odore di benzina combusta. La cosa non mi dispiaceva, ma dava un’aria di trascuratezza che non sempre apprezzavo. Buttai le mie cose alla rinfusa sopra la scrivania, iniziando a chiacchierare con Geremia.

    Geremia era il più giovane di tutti, e il più basso in grado. Era toscano e il suo accento era talmente marcato che si notava anche quando stava in silenzio. Alto e magro parlava sempre di calcio. C’ero uscito qualche volta a far bisboccia, ma il giovane collega era troppo ammaliato dal mondo universitario e dalle sue giovani studentesse. Sebbene molte fossero appetibili e interessanti non era il mio genere. Preferivo le donne alle ragazze.

    La parola donna, per me, non atteneva l’età anagrafica. Ero da sempre propenso a cercare persone che avessero già scelto chi erano, o chi volevano essere, nella vita.

    – Speriamo che vada tutto liscio senza inghippi, che stasera ho la festa di una tipa di giurisprudenza.

    Nonostante fosse l’alba Geremia era già appeso al telefonino, attratto dai suoi interessi mondani.

    Diedi un occhio al lavoro che dovevo fare. Avrei aspettato la risposta di tutti i reparti interessati, sparsi sul territorio nazionale. Ogni risposta avrebbe contenuto dettagli circa le persone arrestate, o denunciate, i quantitativi e le tipologie di sostanze sequestrate. Una volta acquisiti tutti quei dettagli avrei dovuto preparare un sunto sull’andamento dell’attività, confrontato con gli obiettivi prefissati. Quel sunto sarebbe stato inviato ai superiori per una valutazione e per la condivisione con le altre forze di polizia europee interessate.

    Un lavoro di analisi che richiedeva tempestività e precisione, ma pur sempre di analisi. Gli altri invece, quelli fuori, avrebbero bloccato i camion e sequestrato lo stupefacente. Da quanto si sapeva, e le notizie erano certamente esaustive e precise, non ci sarebbero stati inconvenienti durante l’azione. I soggetti-obiettivo non erano pericolosi né propensi a reagire.

    L’operazione sarebbe scattata alle sette e mezza, per tutti. E così fu.

    Iniziarono a piovere telefonate di delucidazione, colleghi che chiedevano precisazioni su quello che dovevano fare con il materiale sequestrato e così via. Ordinaria amministrazione.

    Rispondevo in continuazione al telefono, alternando le conversazioni a continui appunti. Sembravo una segretaria da call-center, solo con la voce grossa e i modi sgarbati. Geremia e Corsaro avevano altri compiti: il primo era il raccordo fisico tra le squadre operative e il comando, mentre il secondo scaricava le mail e aggiornava sistematicamente i dati in rete.

    Quercia si fece sentire spesso, dal suo ufficio, talvolta apparendo silenziosamente per osservare l’andamento del lavoro.

    – Bene ragazzi. Continuate così. Speriamo che non facciano cazzate in giro.

    Verso il pomeriggio ero a pezzi, mi bruciavano gli occhi e a forza di stare seduto la schiena mi doleva. Avevo mangiato un paio di piadine con i colleghi, senza allontanarmi mai dal computer.

    Scrissi il mio sunto senza risparmiarmi, cercando di sintetizzare la vicenda pur riportandone i particolari più minuziosi. Gli obiettivi erano stati tutti centrati. Quarantacinque arresti. Una decina di denunce a piede libero. Sette chili di stupefacenti sequestrati dai reparti in autonomia, e duecento nei camion fermati. Nessun collega era stato ferito.

    Tutto liscio, come l’olio.

    Cinque

    Seduto nel piccolo, traballante e mediamente sporco tavolo di una osteria cittadina sorseggiavo una birra, bevendola direttamente dalla bottiglia. Guardavo distratto verso la piazza antistante, gremita di gente che si affrettava a rincasare, rispettando la discesa del sole.

    Sul vetro del tavolo il cellulare vibrò. Era un messaggio del capo, Quercia.

    Abbiamo un contatto che ha delle informazioni fondamentali. Deve consegnarci un’agenda. Gli altri non sono ancora rientrati, meglio se vai tu. Ore 23 alla fine del vicolo stretto dietro la zona di Piazza Cavalli. Troverai un tizio pelato, alto e sovrappeso. Prendi l’agenda. Ci vediamo domattina.

    – Cazzo.

    – Che palle cazzo.

    Sempre io. Potevano andarci quelli che si erano divertiti a fare i blitz, a fare gli arresti. Non credevo che non fossero ancora rientrati. Per l’ennesima volta mi sentii imprigionato in quella noiosa sorta di gavetta.

    Non ero felice di fare il fattorino. Ma come sempre, nella storia della mia esistenza, ero l’ultimo arrivato. Avevo appena finito di scribacchiare dati e cazzate, eppure toccava ancora a me. Feci un bel respiro, tra un sorso e un altro. Poi afferrai il telefono.

    Ok, ci penso io. A domani.

    Il fegato mi diede una piccola stretta. Avevo provato, negli anni precedenti, una miriade di brutte situazioni lavorative. Nel precedente incarico, in una piccola squadra di indagine, non avevo fatto altro che cocciare contro la dura realtà dei gruppi di lavoro, immerso in situazioni comportamentali che rasentavano il patologico. Quando avevo cambiato reparto non mi ero guardato indietro nemmeno per un secondo.

    Ero certo di aver fatto la scelta giusta. L’ambiente lavorativo era più sereno, meno competitivo. I colleghi non erano propensi alla gelosia o al pavoneggiarsi. In più, elemento essenziale, chi comandava manteneva un distacco che rendeva tutti vulnerabili alla pari, senza permettere sputtanamenti o comportamenti da prima-donna.

    Nonostante l’ambiente fosse sano faticavo ancora a fidarmi, memore delle pregresse scottature.

    Quella sera, dopo molto, mi sentii di nuovo all’angolo, di nuovo bandito dai giochi da adulti ai quali sembravo non invitato a partecipare. Ordinai un’altra birra, concentrandomi a guardare i sederi delle ragazze che passavano, cercando di allontanarmi da inutili pensieri.

    Fidarsi del prossimo è difficile. Per uno sbirro, a questa difficoltà, va aggiunta la supponente brama indagatrice, la necessità perversa di avere qualche mistero da risolvere. La bastarda sensazione che chi ti sta attorno abbia qualcosa da nascondere. È essenziale non confondere questo punto con una mania di persecuzione, serve piuttosto comprendere come ogni fatto abbia oltre al suo soggettivo aspetto una storia da raccontare. Un maglione bucato non è solo un indumento lacero, piuttosto è un indumento che per qualche motivo si è lacerato. Lo sbirro cerca sempre di capire quale sia quel motivo.

    Presi il portafoglio dalla tasca della giacca militare che indossavo e ne sfilai dieci euro. Sotto la giacca non avevo nient’altro che una maglietta di cotone: niente pistola, niente manette, niente distintivo. Era raro, piuttosto improbabile, che andassi a fare un incontro di lavoro disarmato, ma la calma totalitaria del messaggio mi tranquillizzava. In più non avevo nessuna voglia di rientrare in ufficio a prendere il ferro.

    Nei mesi passati i colleghi mi avevano spiegato che meno portavo addosso e meglio era, che meno ero sbirro e meglio era. Tutti ripetevano la stessa lezione. Dovevo essere uno sbirro senza esserlo. Un randagio. Difficile, visto che fino a poco prima avevo vissuto in simbiosi con i classici strumenti di lavoro. La prerogativa massima era il totale anonimato.

    Fulvio Negri era Ascia. E Ascia non si sarebbe mai dovuto far scoprire. Questo sapevo. Se qualcuno avesse intravisto nel mio fianco una pistola avrebbe dovuto pensare a un delinquente, non a uno sbirro.

    Pensai a tutte quelle storie. A quelle chiacchiere. A quelle esperienze raccontate dai colleghi. Era giusto e sensato dar loro ascolto.

    Cambiai osteria e ordinai un’altra birra, scambiando qualche parola con la cameriera. Era simpatica e affabile, ma di certo non la più bella del reame. Presi anche un panino, cibandomi come un primate. Feci una passeggiata, guardando le vetrine di orologi di lusso e di vestiti alla moda, poi lentamente mi diressi verso Piazza Cavalli. Erano quasi le ventitré e in giro non c’era più nessuno. L’aria stava cambiando, ripetendo agli increduli volti abbronzati che l’estate se n’era andata.

    Sei

    Mi strinsi nella giacca e mi incamminai nel vicolo, che a quell’ora sembrava più buio e angusto del solito.

    Un passo, due passi, dieci passi. Ormai lontano dalla piazza guardavo dritto davanti a me, intravedendo alla fine della via un tizio che poteva corrispondere alla descrizione data dal capo. Affrettai il passo.

    Il primo lo notai arrivare come un’ombra alla mia destra. Il secondo, che arrivò da sinistra, forse da una porta del vicolo, non lo vidi proprio. Il terzo, quello che avevo pensato potesse essere il contatto, arrivò per ultimo.

    Il primo mi afferrò al collo da dietro, bloccandomi il fiato. Il secondo mi centrò all’addome con un pugno. Il terzo intanto cercava di afferrarmi le gambe.

    Non ci capivo un cazzo, anche se non c’era granché da capire.

    Soprattutto non serviva capire, serviva sopravvivere. Quello era il primo obiettivo.

    Finsi di cedere un secondo con la testa in avanti e poi, dopo pochi istanti, lanciando la nuca all’indietro colpii il primo aggressore al volto. Questi mollò la presa, lasciandomi cadere col culo per terra. Da quella posizione svincolai le gambe. Pesantemente rallentato dal poco ossigeno mi buttai avanti colpendo con due pugni al volto il secondo aggressore, facendogli sballottare la testa prima a sinistra e poi a destra. Poi centrai il terzo. Regalai ai miei aggressori tutti i calci e i pugni che avevo. Uno dei tre, probabilmente il primo aggressore, rimase a terra. Nonostante i miei sforzi, dopo qualche minuto, ebbero la meglio e mi bloccarono.

    Non sentii subito gli aggressori urlare. Ero chiuso nel mio mondo, in cui avrei speso tutte le energie per cercare di uscire da quella situazione. Non sentivo nulla, pensavo solo a come salvarmi. In quella condizione ci misi un po’ a capire che la loro azione violenta era finita, mi stavano solo tenendo fermo. E chi mi teneva strette le gambe stava ripetendo le stesse parole, con aria ormai implorante.

    – Siamo colleghi!

    I miei occhi sbarrati erano immobili e fissi verso quell’interlocutore, i muscoli non allentavano la contrazione. Il collega continuò a ripetere meccanicamente la sua nenia.

    – Calmo, ora ti mettiamo giù e non succede niente. Nessuna agenda, nessuno ti fa male. Calmo. Ok?

    Feci un cenno di assenso svelto, continuando a guardare l’unico degli aggressori che vedevo in faccia. Non ero convinto.

    Appena mi misero a terra, liberandomi dalla presa, arretrai e mi misi in piedi alzando i pugni in guardia.

    – Ascia giusto? Basta mo… incontro concluso, se tiri un altro pugno spariamo.

    Sapevano il mio nome. Erano davvero colleghi. Abbassai i pungi e mi sedetti a terra, malfermo sulle gambe e senza fiato.

    – Ma che cazzo fate?

    Sette

    I miei nuovi amici si presentarono con i loro nomignoli, ma nonostante l’impegno non ne ricordai uno. Mentre mi scorrazzavano per le vie cittadine su un vecchio fuoristrada raccontarono vecchie storie leggendarie di altri colleghi che, come me, erano passati per la buia viuzza di Piazza Cavalli.

    Solo a quel punto mi resi conto, senza chiedere nulla, che ero stato vittima di un rito di passaggio, di una specie di prova da superare.

    – Ascia, ti dobbiamo fare una domanda precisa a questo punto. E puoi rispondere solo si o no. Riguardo a quello che è successo stasera hai qualcosa da dire, qualcosa da lamentare gerarchicamente? Pensaci bene, o si o no. Niente ripensamenti.

    Nessuno mi guardava in faccia, tutti guardavano avanti. A parlare era stato l’autista. Avevo capito bene la domanda: i colleghi sapevano che quella specie di usanza era poco ortodossa e che avrei potuto fare una relazione disciplinare sui fatti accaduti. Non era normale farsi menare in quella maniera, così come non era previsto dai regolamenti nessun rituale del genere.

    La risposta per me era ovvia, avendo da sempre accettato le regole assurde di quella strana carriera.

    Fissando avanti a me pronunciai un secco no.

    – Basta che non vi lamentiate degli occhi neri.

    Il guidatore era il più grosso di tutti e si mise a ridere. Nell’aggressione era stato il terzo uomo e, rispetto agli altri due, non aveva preso alcun colpo violento. Solo un pugno mal tirato. Il ragazzo accanto a me si teneva un fazzoletto di carta premuto sotto il naso, era quello che aveva cercato di bloccarmi dal collo. Nessuno si lamentava, ma escluso il guidatore nessuno aveva parlato.

    Dopo una decina di minuti la vettura venne parcheggiata di fronte a una casa a schiera appena fuori città, in un bel quartiere residenziale. Scendemmo.

    Mi accorsi di essere piuttosto acciaccato, in particolare al gomito sinistro. Non sembrava nulla di allarmante. Intanto, mentre ci incamminavamo verso uno dei cancelletti pedonali, il guidatore continuava a ridere. Fu lui a suonare.

    Una voce atona disse di entrare.

    Nel buio della sera la porta blindata, di colore rosso bordeaux, fece scorgere la figura di una bambina di una decina d’anni. Subito, dietro di lei, il comandante ci invitava ad entrare. Quercia fece cenno di seguirlo. Nella casa, poco illuminata, si sentiva un buon profumo di cibo. L’uomo si diresse verso una scala interna e scese, conducendoci nella taverna, preceduto dalla bambina.

    Sotto c’erano Corsaro e gli altri due colleghi anziani ad attendere la combriccola. Corsaro era riverso su un caminetto e stava girando delle fiorentine. Il guidatore della jeep, ridendo fragorosamente, irruppe come un boato nella taverna, sfoggiando una cadenza romana.

    – Ao, la bistecca de Leone non gliela cucinare, che se l’appoggia negli occhi. Questo mena ragazzi.

    Lentamente, vedendo delle facce conosciute, mi calmai, riprendendo i ritmi normali. Mi scusai, senza arroganza, per aver colpito i colleghi. Mi dispiaceva avergli fatto male, ma ero felice di aver mostrato il mio valore senza fare figuracce. La cosa era stata istintiva, non mi ero mai trovato in una situazione di quel tipo né mi ero preparato per affrontarla.

    Uno dei colleghi, che esibiva un vistoso ematoma sullo zigomo sinistro, rimase silenzioso tutta la sera: per lui la parte ferita era l’orgoglio. Ero dispiaciuto ma continuare a chiedere scusa, o cercare di interagire, non avrebbe fatto altro che rivangare quella specie di sconfitta.

    La bambina, che seppi essere la figlia di Corsaro, aveva stemperato gli animi pretendendo attenzioni e costringendo i burberi sbirri a comportarsi da gentiluomini. Corsaro era separato e nelle serate in cui poteva stare con la bambina se la portava appresso ovunque. L’essere lì a quella cena, che appariva come un incontro tra guerrieri, faceva capire quali erano stati i motivi della sua separazione. Si vedeva quando parlava del suo passato, dei suoi anni migliori. Si vedeva da come gli brillavano gli occhi.

    Arrivati al caffè Quercia, il grande capo, iniziò a parlare. Tutti tacquero e capii che era il momento delle spiegazioni ufficiali, era il momento di sapere di quale club esclusivo ero diventato membro. Mi ero chiesto se quel trattamento fosse riservato a tutti i colleghi del reparto investigativo ma non lo credevo possibile: se così fosse stato anche gli altri ragazzi avrebbero partecipato. Poi non si poteva di certo menare Amelie.

    – Ascia, ci sono tanti momenti che vanno ricordati nella vita. Questo è un momento particolare, deciderai tu se varrà la pena di ricordarlo. Qui dentro ci sono solo amici, solo gente che è stata all’inferno e in qualche

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