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La versione di Carl: Biografia romanzata
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La versione di Carl: Biografia romanzata
E-book348 pagine4 ore

La versione di Carl: Biografia romanzata

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Info su questo ebook

Carl Gustav Jung (1875-1961) fu un archeologo dei labirinti della mente umana. Ampliò i confini della psicologia del profondo, oltre gli orizzonti della psicanalisi freudiana, raggiungendo territori inesplorati. Ha proposto un modello inedito, ancora oggi attuale, di vita umana aperta all’infinito. Si può condividere o rifiutare Jung ma non se ne può fare a meno. La versione di Carl non è un saggio sulla psicologia analitica, ma un viaggio alla scoperta del mito del grande psichiatra, scienziato e filosofo, attraverso la tecnica del romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2020
ISBN9788892950979
La versione di Carl: Biografia romanzata

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    Anteprima del libro

    La versione di Carl - Andrea Pamparana

    Pamparana

    Capitolo 1

    Il sole, quella mattina del 6 giugno 1961, si stagliava a est e piano piano risaliva le erte colline che dominavano il lago, la superficie increspata da un venticello proveniente da nord che rendeva l’aria ancora frizzante, nonostante l’imminente inizio d’estate. Era un martedì e i giornali riportavano sulle prime pagine articoli e fotografie sulla ricorrenza dello sbarco in Normandia del 1944.

    L’uomo seduto sulla vecchia poltrona di pelle guardava fuori dalla finestra leggermente socchiusa, per far entrare aria fresca dopo la notte. Oltre il lago si intravedevano le prime case e la chiesa con il campanile gotico di Kusnacht, cittadina svizzera di poco più di diecimila abitanti, nel Canton Zurigo, distretto di Meilen, a poco più di quattrocento metri sul livello del mare. La parte occidentale della città costeggiava un tratto del lago di Zurigo, nella sua parte più stretta, a nord.

    Da quando la moglie Emma era morta nel 1955, l’orizzonte gli sembrava più opaco, confuso. Lui, l’uomo che aveva ampliato i confini della psicologia del profondo, che aveva raggiunto col suo pensiero territori della mente fino ad allora mai esplorati, che aveva proposto al mondo intero un modello di vita umana integra inedito, totale, aperto all’infinito, l’uomo che aveva, di fatto, influenzato anche chi non condivideva le ipotesi teoriche che erano alla base della sua opera, sentiva che a ottantacinque anni la sua vita stava volgendo al termine. No, non avrebbe raggiunto il prossimo 26 luglio il suo ottantaseiesimo compleanno, nonostante amici e parenti gli avessero fatto capire che volevano organizzare una grande festa in suo onore.

    Guardò verso la superficie del lago, cercò di seguire le evoluzioni regolari delle increspature. Chi guarda nell’acqua, vede, è vero, la propria immagine, ma ben presto dietro di essa emergono esseri viventi; sono probabilmente pesci, innocui abitatori del profondo, innocui se il lago non rappresentasse per molti un incubo. Sono esseri acquatici di tipo speciale. Talvolta un’ondina, pesce femminile semiumano, rimane impigliata nella rete del pescatore. Le ondine sono questi incantatori:

    Per metà lei lo tirò, per metà egli affondò. E nessuno lo vide più.

    Il vecchio lasciò che il suo pensiero ritornasse al passato: «Ma non ricordo più bene il resto del mio girovagare nel labirinto della mente, ah se Emma fosse ancora qui, quanto mi sarebbe di aiuto».

    Ora avvertiva un poco di freddo. Una nuvola bianca come spuma appena formatasi nel cielo azzurro oscurava il sole sempre più alto a est dietro la collina, proiettando la sua ambigua ombra sulla superficie increspata del lago. Un vaporetto transitava sbuffando al centro dello stretto corso d’acqua, diretto su a nord, verso la città di Zurigo.

    Quanto amava i laghi. Tutti pensano al lago come a una distesa di acqua placida, tranquilla, quasi inerte. Non immaginano quali spaventose tempeste possano invece scatenarsi dalle profondità. E non è così anche nella mente umana?

    Il lago di Costanza, Kesswill, la sua casa natale. Le immagini originarie, quegli archetipi, contenuti inconsci che fungono da produttori e ordinatori di rappresentazioni, una sorta di modello presente in modo innato nella psiche dell’essere umano.

    Ah, che fastidio quel dolore che da tempo lo trafiggeva, squassando quelle vecchie ossa che avvertivano ogni giorno di più l’umidità che saliva dalla spiaggia sul lago e entrava nella vecchia grande casa di pietra, dove all’ingresso campeggiava la scritta incisa Dio ci sarà.

    Quale Dio? E soprattutto un dio o un demone? Due anni prima, intervistato dalla tv inglese BBC, alla domanda se credesse in Dio, il vecchio aveva risposto: Non ho bisogno di credere. Adesso lo so.

    La grande biblioteca, la fucina creativa e la veranda stracolma di suppellettili e ricordi provenienti dai suoi viaggi in Africa alla ricerca del Naturwolker.

    La nube spumosa mise in ombra la facciata della casa, scivolò sull’iscrizione e sembrò soffermarsi sul busto di Voltaire: il dubbio critico, l’ironia. Su un comodino la sua immancabile pipa, da tempo spenta. E una fotografia un po’ ingiallita, un vecchio con una casacca sgualcita e uno scalpello, un martello e occhialoni da saldatore, mentre scolpisce sulla pietra, come volesse riportare alla luce fantasie e visioni.

    La sera prima aveva preso in mano uno dei suoi preziosi e amati incunaboli di alchimia, alla quale aveva dedicato anni di appassionati studi. Quella torre, «un luogo dove è possibile essere ciò che fui, sono e sarò». Oltre alla sua bellissima casa familiare a Kusnacht, aveva fatto costruire una torre in pietra con l’aiuto di alcuni operai e artigiani della pietra italiani, a Bollingen, sempre sul lago. Andava spesso in quel luogo, soprattutto nei fine settimana, per «ricoverarsi dalla futilità delle parole». Gli piaceva portarci gli amici più intimi e naturalmente la moglie Emma e i figli.

    Dovevo riuscire a dare una qualche rappresentazione in pietra dei miei più interni pensieri e del mio sapere. O, per dirla diversamente, dovevo fare una professione di fede in pietra.

    Davanti alla spiaggetta di selci, oltre il cancelletto della casa, passò una barca a vela, due ragazzi si stavano allenando, cercavano di portare a termine una corretta strambata. Il vecchio sorrise. Anche lui, un tempo, veleggiava sul lago e si cimentava in lunghe nuotate. Emma sorvegliava da riva le evoluzioni del marito e dei ragazzi. Una fitta più violenta delle altre. Proprio lì nel petto. «Qualcosa dell’uomo sopravvive alla morte».

    Era stato un brutto inverno. Non era nemmeno riuscito ad andare a Bollingen né a fare le vacanze invernali in Canton Ticino. Ogni tanto si scordava qualcosa: «Toh, te l’avevo detto che sto diventando senile».

    Alle quindici e tre quarti di quel martedì 6 giugno del 1961, il suo cuore si fermò. La sua personalità numero uno, come l’aveva definita, era morta. Ma la numero due rimase immutata. Carl Gustav Jung era già nella storia. Ora è nel mito.

    Capitolo 2

    Nel sangue scorrono stille di freddezza svizzera e quindi poteva apparire come un uomo rigido nei principi e parco di emozioni, e Paul Achilles Jung lo era senza alcun dubbio, ma quel lunedì mattina del 26 luglio 1875 anche lui camminava nervosamente lungo il corridoio antistante la camera da letto matrimoniale nella quale le levatrici stavano aiutando la moglie, Emilie Preiswerk, a dare alla luce il primogenito, Carl Gustav.

    L’eternità presente nella mia infanzia. Vi era un mondo eterno lì.

    La casa di Kesswill, villaggio di poche anime nel Cantone di Turgovia, distretto di Arbon, si affacciava sul lago di Costanza, alimentato dal grande fiume Reno, al confine tra Germania, Svizzera e Austria.

    Papà Paul Achilles era un pastore protestante calvinista, ma in quei concitati momenti, non riusciva a concentrarsi nella preghiera, la sua attenzione rivolta solo a quella porta dalla quale ogni tanto usciva una levatrice con catinella e bende insanguinate, mentre Emilie gridava e spingeva con quel poco di forza che ancora le restava.

    Kesswill era un villaggio di contadini e allevatori. Composto da piccoli ma compatti nuclei familiari che si radunavano nella locale chiesa per le funzioni religiose. Una piccola e tranquilla comunità rurale, con usi e costumi immutati da secoli. Compresa una forma di religiosità arcaica, e di una antica consuetudine con il soprannaturale.

    Il babbo di Paul Achilles, nonno del nascituro Carl Gustav, si era da tempo trasferito a Basilea per sfuggire alle persecuzioni del governo prussiano nei confronti dei movimenti liberal-nazionalistici figli degli ideali della Rivoluzione francese.

    L’Europa di quei giorni era protesa a dare vita all’imperialismo coloniale, la Germania si espandeva in Africa centrale e meridionale e nella lontana e sperduta Oceania. Ma tutto questo a Kesswill era soltanto un lontano e quasi impercettibile rumore di fondo, sovrastato dallo scampanellio delle mucche nei verdi pascoli e dallo sciabordare delle limacciose acque del lago di Costanza.

    Non ho mai dimenticato quel momento, che illuminò in un baleno l’eternità presente nella mia infanzia.

    La balia tedesca uscì dalla stanza della casa tenendo tra le braccia, avvolto in una coperta di lana, il piccolo Carl Gustav. Forse fu quello l’unico momento in cui dagli occhi di Paul Achilles sgorgarono due lacrime di commozione, subito però trattenuta.

    Nella famiglia della moglie c’erano stati sei pastori protestanti. Paul Achilles era un calvinista, con altri due fratelli anche loro pastori.

    Tra quella gente era cosa buona e giusta pregare, seguire rigidi principi, parlare sottovoce, non bestemmiare, le commozioni anche per eventi naturali come nascite o morti dovevano essere trattenute, composte, interiori. E così fu quel lunedì, quando Paul Achilles e Emilie strinsero tra le braccia il loro figlio, Carl Gustav Jung.

    «Emilie, la mia Bibbia dove è stata riposta? Che confusione cara».

    «Paul Achilles Jung, cerca di essere paziente. La tua Bibbia è dove deve essere un libro quando si è appena compiuto un trasloco. In una delle casse poste nell’andito della canonica».

    La famiglia Jung desiderava festeggiare quanto prima i sei mesi da poco compiuti da Carl, non prima però di avere sistemato la nuova abitazione. Paul Achilles aveva trovato un piccolo castello erto su una rupe, con una annessa canonica, a Laufen, villaggio nei pressi delle cascate del Reno. Si trovava, nel 1875, nel cantone di Berna. Era un villaggio abitato da una discreta comunità protestante, il resto della popolazione invece era a maggioranza cattolica.

    Il castello non distava molto dalle cascate più grandi d’Europa, il cui fragore era aumentato dalla gola in cui le acque si gettavano per proseguire lungo il confine svizzero tedesco. Ventitré metri di salto per una lunghezza di oltre centocinquanta. Sugli argini si potevano talvolta scorgere le carrozze dei visitatori provenienti, con un viaggio di alcune ore attraverso la campagna svizzera, da Zurigo.

    Paul Achilles aveva deciso di trasferire la famiglia lontano dal lago di Costanza a Laufen, nel tentativo di far tornare il sorriso e la voglia di vivere alla moglie Emilie, donna eccentrica e con periodiche crisi depressive che si erano accentuate dopo la nascita di Carl Gustav.

    Il castello era più che altro una antica costruzione medievale che aveva subito nel corso dei secoli diverse ristrutturazioni, abbattimenti e conseguenti ampliamenti. Paul Achilles viveva e studiava, e spesso dormiva, da solo, nella canonica. Emilie talvolta badava al giardino, dava disposizioni alla servitù per il bucato. Il sagrestano si divideva tra la chiesa e la sua piccola fattoria. Poco dopo la imponente cascata di Sciaffusa, al centro quasi del corso del Reno, sorgeva un isolotto, sul quale era stato costruito il castello di Worth, dal quale si potevano osservare dal basso le cascate e prendere le barche per avvicinarsi allo scoglio. La massa d’acqua passava attraverso tre imponenti rocce che emergevano dal mezzo della cascata. Una cittadina dalle tipiche abitazioni dipinte di colori vivaci e con le caratteristiche finestre a bovindo.

    Una calda giornata d’estate. Carl Gustav aveva compiuto da poco due anni e trascorreva le ore del primo pomeriggio seduto in una carrozzina, che la madre Emilie aveva posto sotto l’ombra riparatrice di un albero nel giardino. Il cielo era azzurro, di quell’azzurro intenso che fa della Svizzera una sorta di quadro, quando un refolo di vento proveniente da est pulì da ogni nube e rese uniforme la volta celeste come un’unica pennellata di un improvvisato pittore. Attraverso le foglie dell’albero raggi di luce come stelle cadenti illuminavano a tratti la copertina leggera che la balia aveva steso prudenzialmente, nonostante il caldo, sul corpicino di Carl. Il mantice della carrozzina era alzato, Carl si era da poco svegliato, l’aria tranquilla e serena di chi si godeva quei momenti di luce, calore, armonia.

    Si udiva ininterrotto lo sciabordio impetuoso delle cascate, lo scorrere delle acque del Reno, la vista del castello di Worth al centro del fiume, le rocce che dividevano la caduta delle acque in tre grandi flussi spumosi, illuminati dal sole, creando un magico effetto come di brillanti lanciati da una mano misteriosa.

    La mamma di Carl, Emilie, leggeva un libro seduta su una panca di pietra, a pochi passi dall’albero sotto cui sostava la carrozzina con il bimbo appena svegliatosi. Emilie Preiswerk era la figlia minore di Samuel Preiswerk, nato nel 1799, fabbriciere, funzionario che si occupava di amministrare beni ecclesiastici, di Basilea, e della sua seconda moglie, figlia di un pastore protestante, Faber. Ebbe tredici figli.

    Amministratore della cattedrale di Basilea, diceva di essere in grado di comunicare con gli spiriti. Uomo intelligente e colto, studioso appassionato della linguistica ebraica.

    Emilie si lasciò incantare dal gioco delle luci tra il fogliame dell’albero e la spuma delle cascate all’orizzonte. Inconsapevolmente, in quell’istante di quel caldo giorno d’estate, madre e figlio, seppur a breve distanza l’uno dall’altra, condividevano la medesima meraviglia per la bellezza del mondo, racchiuso in quel giardino assolato, pieno di colori, di profumi e di suoni armoniosi.

    Capitolo 3

    L’uomo con la casacca sgualcita e la pipa era seduto allo scrittoio. Il calendario riportava una imprecisata data dell’anno 1957. Aveva compiuto da poco ottantatré anni e il suo cuore malandato continuava a procurargli seri problemi. Stava scrivendo una lettera a un vecchio amico dei tempi della scuola. Fuori il vento dell’imminente inverno scuoteva le poche foglie ancora attaccate ai rami, il lago si stava increspando, non c’erano barche alla vista, tranne un vaporetto che risaliva il corso d’acqua diretto verso l’imbarcadero di Zurigo. Il cielo era plumbeo, non prometteva nulla di buono, il vecchio scriveva alla luce di una lampada anche se era ancora pieno giorno.

    … Hai ragione. Quando si è vecchi si è costretti – per motivi intimi ed esteriori – a rivolgersi al passato, ai ricordi della giovinezza.

    … Il destino ha voluto – e per me è sempre stato così – che tutti gli aspetti esterni della mia vita fossero contingenti.

    … Forse queste esperienze esterne non furono mai in alcun modo essenziali, o lo furono solo in quanto coincidevano con fasi dell’evoluzione interna…

    Una sera d’estate, lontana nel tempo.

    «Vieni Carl, ora ti mostrerò qualcosa». Il bambino prese la mano della donna e si lasciò condurre fuori dalla casa, lungo la strada che portava a Dachsen, un piccolo comune del Canton Zurigo, con una Cappella riformata eretta nel tardo Medioevo, il campanile a guglia esagonale di mattoni rossi, le mura dipinte di bianco, il tetto spiovente. Circondata da verdi pascoli e sovrastata da un imponente abete. È quasi sera e il sole al tramonto incendiava le Alpi in lontananza.

    La donna era una vecchia e cara zia di Carl Gustav, che parlava al nipote nel dialetto locale: «Guarda lassù, Carl, le montagne sono tutte rosse. Domani tutti i bambini del villaggio andranno in gita scolastica allo Uetliberg, vicino a Zurigo. Però, mi spiace, tu non potrai andarci perché mi hanno detto che i bambini piccoli non saranno ammessi senza l’accompagnamento di un adulto e io non ti ci posso portare».

    L’uomo con la casacca sgualcita e la pipa posò la penna stilografica e abbandonò per un momento l’amico cui stava scrivendo. Ripensò a quell’istante, apparentemente insignificante: una mancata gita causata dall’impossibilità della zia di accompagnarlo. Che stranezza: Uetliberg e le splendide montagne, quelle Alpi ammantate di neve e quella sera incendiate dal magnifico tramonto, erano diventate per il vecchio una terra di sogni, irraggiungibile.

    Carl Gustav Jung osservava affascinato l’acqua del lago con le sue onde, rilasciate da un battello, che lente arrivavano fino a riva come solchi tracciati da un invisibile aratro nella terra fertile. Cercò di vivere sempre in riva a un lago.

    La famiglia rimase nel castello con la canonica a Laufen, presso Sciaffusa, per tre anni. Nel 1879 Paul Achilles decise di trasferirsi in un sobborgo nei pressi di Basilea, stante anche il graduale peggioramento delle condizioni di salute psichica della moglie, Emilie, i cui attacchi di depressione erano sempre più frequenti.

    «Presto, venite. I pescatori hanno trovato un cadavere portato giù dalla cascata e vogliono metterlo nella nostra lavanderia!». Paul Achilles cercò di calmare la povera ragazza scioccata da quell’evento e comunque acconsentì che il corpo ripescato nel lago venisse portato in lavanderia. Il piccolo Carl Gustav era naturalmente eccitato e incuriosito da un evento così insolito. Emilie, la madre, lo portò però lontano e si oppose con fermezza a che il figlio si recasse in giardino per assistere all’orribile scena. Carl obbedì alla madre, poi però, approfittando dell’inevitabile trambusto e del via vai di persone sfuggì all’attenzione degli adulti e si rifugiò in giardino, proprio nei pressi della lavanderia.

    La porta del piccolo edificio era chiusa, Carl prese un sentiero che circondava la casa e vide, nel canale di scolo che scorreva in pendenza per far scivolare via l’acqua del bucato, un rivolo di acqua mista all’inconfondibile colore del sangue. Non aveva ancora compiuto quattro anni.

    Posso fare solo dichiarazioni immediate, soltanto raccontare delle storie; e il problema non è quello di stabilire se esse siano vere o non vere, poiché l’unica domanda da porre è se ciò che racconto è la mia favola, la mia verità.

    La famiglia di Carl Gustav Jung proveniva da Magonza, in Germania. Il patriarca era un medico, cattolico, ed ebbe un matrimonio infelice con Sophie Ziegler. Il fratello Sigismondo ricoprì l’incarico pubblico di Cancelliere della Baviera. Sophie soffriva di melanconia psicotica. Dotata di una forte personalità artistica conobbe Goethe e i pettegolezzi dell’epoca riportavano la voce che avesse avuto un figlio dal celebre scrittore.

    Il nonno era Carl Gustav Jung, da cui prese il nome. Di origine tedesca era assai noto a Basilea perché dopo la conversione al protestantesimo si laureò in medicina a Heidelberg e divenne rettore dell’Università di Basilea. Tredici figli e tre matrimoni: un uomo brillante, spregiudicato, un riformatore. Dall’ultima moglie nacque Paul Achilles, il padre di Carl. Nel 1857 fondò un istituto per giovani con grave ritardo mentale.

    Samuel Preiswerk, teologo ed ebraista, era il nonno materno di Carl. Poeta, musicista, letterato, anche lui ebbe una vita sentimentale impetuosa. Dalla prima moglie ebbe un solo figlio, dalla seconda, Augusta Faber, anche lui tredici figli. E di Augusta Faber, nonna di Carl, si diceva che fosse dotata di straordinarie capacità parapsicologiche.

    Paul e Emilie nell’agosto 1873 ebbero un figlio che morì poche ore dopo il parto.

    Il 17 luglio 1884, nove anni dopo la nascita di Carl, nacque Johanna Gertrud, che visse tutta la vita all’ombra del fratello. Morì a Zurigo il 30 maggio 1935.

    Carl aveva ormai cinque anni. Ma il suo girovagare non aveva fine, visto che il padre si trasferiva spesso, sia per i problemi psicologici della moglie, sia per il suo ruolo di pastore protestante.

    La famiglia Jung lasciò dunque il castello di Laufen per trasferirsi a Klein-Huningen, un villaggio di poche anime, per lo più pescatori, sulle rive del Reno. Un villaggio rurale con un’unica scuola per i figli dei contadini e dei pescatori. Anche lì il piccolo Carl Gustav trascorreva gran parte del suo tempo nella canonica, in una tipica casa di un pastore di campagna. Un ambiente solitamente spazioso e silenzioso, adatto allo studio e alla contemplazione, alla preghiera e alla preparazione da parte del padre dei suoi sermoni domenicali.

    Carl Gustav soffriva di eczema. Nel 1878 i genitori, con la scusa di questa patologia, si separarono per un certo periodo, affidando il bambino alle cure di una zia, Gusteli, di origini nobili e più vecchia di circa venti anni rispetto alla madre. Emilie non stava affatto in buona salute e passò alcuni mesi in un ospedale a Basilea. Era spesso depressa e a molti appariva evidente che non fosse felice del suo matrimonio con Paul Achilles, uomo intelligente, colto ma a detta delle persone che lo frequentavano anche molto noioso.

    … Ho sempre sentito con diffidenza la parola amore. Il sentimento legato alla donna fu per molto tempo di naturale sfiducia.

    Capitolo 4

    Forse è nell’arte che va cercato l’ultimo mistero della mente?

    L’uomo con la casacca sgualcita e la pipa, i bianchi e radi capelli scompigliati dal vento, aveva appena terminato un disegno a carboncino.

    La sua attenzione era ora rivolta a uno scalpello e a un martello posto in una cesta poco fuori l’ingresso della vecchia casa. Non aveva più la forza di un tempo, che gli appare davvero troppo lontano. Le bizze del suo cuore da cardiopatico non gli consentivano più ampi gesti coi quali abbattere il martello sulla sommità dello scalpello per spaccare la pietra. Depositò per un istante la pipa, si ravvivò i capelli, pulì con meticolosa cura le lenti degli occhiali protettivi da saldatore, cercò un gilet di fustagno con il quale coprire la casacca prima di uscire nel giardino, dove un venticello proveniente da nord rinfrescava l’aria già autunnale e increspava di ondine la superficie del lago.

    Il vecchio uscì dalla casa e si avviò lungo il patio verso un pezzo di pietra, un sasso sul quale continuerà a scolpire per dargli una forma intellegibile e al contempo simbolica. Una profonda intimità tra scultura e psicologia. Del resto fu proprio il suo mentore e amico Sigmund Freud a scrivere che entrambe le discipline utilizzano la stessa tecnica di lavoro estrattiva. Cosa fa in fondo la psicoanalisi se non scavare nella mente umana per riportare in superficie la personalità genuina e unica dell’individuo?

    In quel giardino di quella torre di Bollingen acquistata nel 1922, Carl Gustav si soffermava spesso a guardare con interesse scientifico i lavori direttamente scolpiti da lui nella pietra. Le immagini interiori alle quali cercava di dare forma.

    Acquistò quel terreno dopo la morte della madre. Nel 1923 costruì una torre a due piani, una struttura in pietra in cui si poteva soggiornare. Dalle alte finestre a bovindo si intravedevano il villaggio di Bollingen e le rive del bacino Obersee del lago di Zurigo.

    Aveva deciso di festeggiare i settantacinque anni in maniera insolita. Era il 1950. Convinse figli e parenti a lasciargli costruire un cubo di pietra sul lago, a ovest della torre, scrivendo su tre lati.

    Un lato riportava un’epigrafe in latino del Rosarium philosophorum:

    Qui si trova la media, scomoda pietra del filosofo, di prezzo molto economica. Più è disprezzata dagli sciocchi, più amata dai saggi.

    Su questo stesso lato del cubo era riportata una dedica:

    In ricordo del suo 75 compleanno, C.G. Jung l’ha creato con gratitudine e lo ha preparato nell’anno 1950.

    Il secondo lato del cubo raffigurava un Telesforo, un piccolo uomo che porta una lanterna e indossa un cappuccio, circondato da un’iscrizione in greco antico:

    Il tempo è un bambino – giocando come un bambino – giocando un gioco da tavolo – il regno del bambino. Questo è Telesforo, che percorre le regioni oscure di questo cosmo e si illumina come una stella fuori dalle profondità. Lui punta la strada alle porte del sole e alla terra dei sogni.

    Il secondo lato del cubo raffigurava un mandala¹ con quattro parti di significato alchemico. Il quarto superiore del mandala era dedicato a Saturno, il quarto inferiore a Marte, quelli di sinistra e destra rispettivamente al sole Giove maschile e alla luna Venere femminile.

    Il terzo lato del monolite era quello che si affacciava direttamente sul lago. Presentava una serie di iscrizioni in latino:

    Sono un orfano, solo; tuttavia sono stato trovato ovunque. Io sono uno, ma sono contrario a me stesso. Io sono gioventù e vecchio allo stesso tempo. Non ho conosciuto né padre né madre, perché ho dovuto essere estratto dal profondo come un pesce, o caduto come una pietra bianca dal cielo. Nei boschi e nelle montagne vagabondo, ma sono nascosto nell’Anima più intima dell’uomo. Sono mortale per tutti, ma non sono toccato dal ciclo degli eoni.

    Il vecchio con la casacca sgualcita fece cadere il martello e lo scalpello che diventavano con il trascorrere dei minuti sempre più pesanti, difficili da gestire. Sul prato, incastonato nel terreno verde, lo scoglio che attirò la sua attenzione per gran parte della vita. Informe, imponente, con tracce di erba umida e profondi solchi che portavano alla luce l’anima rossastra della pietra, in parte levigata dalla pioggia e dal vento, quell’ammasso duro che per lui rappresentava una sorta di vero trono.

    Ritornò a quei giorni in cui la madre, Emilie, era ricoverata a Basilea. Ripensò a zia Gusteli e al turbamento che gli procurava la prolungata assenza della madre. A prendersi cura del piccolo Carl c’era anche una domestica. La donna teneva in braccio il bambino e lui poggiava la testa sulla sua spalla, i capelli neri, il colorito olivastro, così diversa dalla madre.

    Una bella giornata d’autunno. Una ragazza molto carina, bionda, occhi azzurri. La famiglia aveva deciso di fare una passeggiata lungo il fiume Reno oltre le cascate, vicino al castello di Worth. Il paesaggio era dominato da aceri e castagni che rifulgevano illuminati dai raggi del sole, sullo sfondo l’imponente frastuono delle cascate. Il prato era ormai quasi totalmente ricoperto dalle foglie ingiallite cadute in quelle settimane a cavallo tra l’estate e l’autunno. La giovane accompagnatrice aveva una grande

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