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L'identità in questione: Saggio di psicoanalisi ed ermeneutica
L'identità in questione: Saggio di psicoanalisi ed ermeneutica
L'identità in questione: Saggio di psicoanalisi ed ermeneutica
E-book589 pagine8 ore

L'identità in questione: Saggio di psicoanalisi ed ermeneutica

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Info su questo ebook

Chi siamo? Che cosa forma la nostra identità? Come è possibile la coesistenza, in noi, di una dimensione fluida, in divenire, con una dimensione salda, profonda? C’è differenza tra identità e personalità? E che cosa rende un individuo persona e fa sì che tale resti nel tempo, al di là dei cambiamenti? Gli autori propongono un itinerario di ricerca tra psicoanalisi e filosofia, e si inoltrano nell’esplorazione della questione dell’identità, muovendo dall’idea ricoeuriana di identità narrativa, per giungere a proporre quella di identità traduttiva e a dare rilievo, sulla scia del pensiero psicoanalitico contemporaneo di derivazione bioniana, al concetto di trasformazione, secondo un modello corrispondentista trasformazionale. La psicoanalisi e la filosofia ermeneutica sono così chiamate a collaborare a un processo di costruzione dell’identità di cui pure riconoscono il carattere inafferrabile: l’identità resiste, persiste, ma come un processo che non ha mai fine e che si svolge tanto a livello dell’inconscio, nella atemporalità e nella molteplicità identitaria, quanto della coscienza, ove il tempo torna ad esistere e il sé, pur con le sue incertezze, a riemergere.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita16 nov 2020
ISBN9788816802445
L'identità in questione: Saggio di psicoanalisi ed ermeneutica

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    Anteprima del libro

    L'identità in questione - Vinicio Busacchi

    PSYCHÉ

    Psyché

    F. Petrella, L’ascolto e l’ostacolo. Psicoanalisi e musica, 2018, ult. ed. 2019

    P. Ricoeur, Attorno alla psicoanalisi, 2020

    V. Jankélévitch, La musica e l’ineffabile, 2020

    V. Busacchi, G. Martini, L’identità in questione. Saggio di psicoanalisi ed ermeneutica, 2020

    R. Panikkar, Il pensiero psicoterapeutico, 2021

    G. Stanghellini, M. Broome, A. Vincent Fernandez, P. Fusar-Poli, A. Raballo, R. Rosfort (a cura di), Oxford Handbook di psicopatologia fenomenologica, 2021

    Vinicio Busacchi, Giuseppe Martini

    L’IDENTITÀ IN QUESTIONE

    SAGGIO DI PSICOANALISI ED ERMENEUTICA

    © 2020

    Editoriale Jaca Book Srl, Milano

    tutti i diritti riservati

    Prima edizione italiana

    settembre 2020

    Copertina e grafica

    Break Point / Jaca Book

    Redazione Jaca Book

    Impaginazione Elisabetta Gioanola

    eISBN 978-88-16-80244-5

    Editoriale Jaca Book

    via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520

    libreria@jacabook.it; www.jacabook.it

    Seguici su

    INDICE

    INTRODUZIONE

    Vinicio Busacchi / Giuseppe Martini

    1.Un dilemma classico

    2.Modelli dell’identità (ancora) oggi prevalenti

    3.Procedimento e itinerario del saggio

    Ouverture 1

    SOGGETTO E FONDAMENTO

    Vinicio Busacchi

    1.Problema dei termini e termini del problema

    2.La rete concettuale della soggettività

    3.Dal problema del fondamento del soggetto al problema dell’identità personale

    Ouverture 2

    IDENTITÀ E DELIRIO

    Giuseppe Martini

    1.Parla il re di Francia

    2.Il delirio sfida la filosofia post moderna

    3.Forme del de-lirare

    4.Schizofrenia: la sfida più radicale alla questione dell’identità

    5.Persona e delirio

    6.Il delirio come ricerca d’identità

    Capitolo 1

    IDENTIFICAZIONE E COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ

    Giuseppe Martini

    1.La psicoanalisi come deflagrazione dell’identità

    2.L’identificazione come base per l’identità: contributi della letteratura psicoanalitica

    3.La questione del soggetto: personazione e soggettivazione

    Capitolo 2

    LE DECOSTRUZIONI DELL’IDENTITÀ

    Vinicio Busacchi

    1.Dallo scacco del principio di individuazione alla via decostruzionista

    2.Dell’assioma della decostruzione

    3.Dalla concezione derridiana dell’uomo alla decostruzione dell’identità

    Capitolo 3

    IDENTITÀ E DISSOCIAZIONE

    Giuseppe Martini

    1.Il caso del seminarista ammutolito

    2.Disturbi e meccanismi dissociativi: la parola alla psicoanalisi

    3.Esiste una dissociazione sana?

    4.La parola alla psicopatologia

    5.Piccolo compendio dei disturbi della medesimezza

    6.Quando la dissociazione affiora dall’inconscio alla coscienza

    INTERMEZZO

    Giuseppe Martini / Vinicio Busacchi

    Capitolo 4

    NARRAZIONE E RICOSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ: PARADIGMI CLINICI

    Giuseppe Martini

    1.Cosa significa narrare

    2.Narrazione e psicoanalisi

    3.Narrazione e psichiatria

    Capitolo 5

    IDENTITÀ NARRATIVA E FILOSOFIA DELLA NARRAZIONE

    Vinicio Busacchi

    1.Tra psicologia e filosofia

    2.Il teatro dell’identità umana

    3.L’identità narrativa

    4.Una concezione dell’uomo centrata sulla persona

    5.Excursus 1. I saperi e il narrare

    6.Excursus 2. Il problema dell’unificazione speculativa e l’ermeneutica critica

    Capitolo 6

    L’IDENTITÀ CORPOREA

    Vinicio Busacchi / Giuseppe Martini

    1.Modelli mente-corpo

    2.L’iscrizione degli altri nel sé e l’iscrizione della mente nel corpo

    3.Corpo materia e corpo simbolico nella genesi dell’identità

    4.Il corpo postmoderno tra onnipotenza e dislocazione

    Capitolo 7

    IDENTITÀ E TEMPO

    Giuseppe Martini / Vinicio Busacchi

    1.Una tematica evanescente e sostanziale

    2.Corpo e tempo

    3.Il tempo, la realtà, l’esistenza

    4.L’enigma del tempo

    5.Tempo e trasformazioni identitarie

    Capitolo 8

    FILOSOFIA DELLA TRADUZIONE

    Vinicio Busacchi

    1.Steiner oltre Steiner

    2.Ricoeur: il paradigma della traduzione

    3.Ricoeur oltre Ricoeur

    4.Tradurre la sofferenza

    Capitolo 9

    LA PSICOANALISI VERSO UN’IDENTITÀ TRADUTTIVA

    Giuseppe Martini

    1.Il paradigma della traduzione nella letteratura psicoanalitica

    2.Le tre fasi della traduzione nel processo psicoanalitico

    3.La questione dell’interlingua nel setting psicoanalitico

    4.Interrogazioni

    5.Traducibilità e intraducibilità dell’immagine

    6.Il paradigma della traduzione a confronto con la psicosi

    7.L’identità traduttiva nel lavoro psichiatrico

    8.Qualche nota a proposito di psicoanalisi ed etica della traduzione

    Fuga

    DELLE TRASFORMAZIONI DELLA MATERIA AFFETTIVA

    Vinicio Busacchi / Giuseppe Martini

    1.Al di là del fondamento e della narrazione: l’apporto della traduzione

    2.La psiche emerge dal bios?

    3.Le trasformazioni della materia affettiva

    4.Trasformazioni e traduzioni nella formazione dell’identità personale

    Glossario

    Bibliografia

    Filmografia

    INTRODUZIONE

    Vinicio Busacchi / Giuseppe Martini

    1. Un dilemma classico

    Quid est homo? Il dilemma dell’identità umana forma sin da tempo immemorabile un intricato nodo di riflessione, investigazione e sfida dialettica per uomini di religione e cultura, di filosofia e scienza, di arte e azione. Sin dagli albori della ricerca riflessiva emerse un quadro tanto ricco in valori, significati e implicazioni quanto, al tempo stesso, frastagliato e difforme; denso di dissonanze e motivi di assonanza (persino tra ambiti e tradizioni culturali e di ricerca distanti e diversi); tendenzialmente produttivo nell’incedere storico, ma pure labirintico, chimerico e forse, anche, unendlichen. Il dilemma dell’identità – antico (e, probabilmente, eterno) terreno di scontro tra fedi e credenze, scuole e visioni del mondo – si è disperso negli innumerevoli rivoli dei quesiti paralleli, di interrogativi interni agli itinerari concettuali e teorici di scuole, dottrine, tradizioni.

    Che cosa è l’uomo? Cosa ne costituisce l’identità? Che cosa è l’identità? Vi è differenza tra identità e personalità, e se sì, quale, come, perché? Che cosa rende un individuo persona, e che cosa è la persona? Quale ruolo giocano l’esperienza, la volontà, il carattere, la natura, l’ambiente, la società, la cultura, i valori, la fede, il destino? Cosa fa sì che una persona persista tale nel cambiamento? E di che natura è questo ‘cambiamento’: è pura maturazione, evoluzione e progresso, o parabola trasformazionale o che altro? E quali fattori lo determinano (se ‘lo determinano’), quali forze entrano in campo (se appropriato parlare di ‘forze’), e come cogliere, comprendere e spiegare tutto ciò nel modo più giusto e vicino alla realtà? Non siamo forse già-sempre imbrigliati in un relativismo delle prospettive, ossia troppo ‘culturalmente angolati’, troppo ‘conformati dalle’ e ‘ingabbiati nelle’ nostre credenze, conoscenze e pratiche, figli di una cultura e di un tempo, membri più o meno aperti di questa o quella comunità di ricerca, di idee, di credo, di interessi?

    Di certo, non si può che prendere atto dello sconvolgimento che comporta l’ingresso in scena della psicoanalisi, nell’attestare un’incertezza, una non padronanza, una scissione come costitutive dell’identità umana.

    Come sostengono Gabriella Baptist e Angelomarco Barioglio nell’introdurre un recente volume che vede filosofi e psicoanalisti discutere intorno al tema della soggettività intesa nelle sue multiformi declinazioni

    Se originariamente con il termine persona si è detta la maschera o il ruolo, se il subjectum classicamente moderno è stato pensato sempre insieme e contro quella substantia dalla quale doveva distinguersi e se il Sé contemporaneo è attraversato dall’altro fino al rischio della propria stessa perdita nell’alienazione, allora è intatta l’urgenza di rilanciare l’antica insidia e chiedere di nuovo Chi sei? nei registri di posture diverse, ma sempre almeno doppie o triple o quadruple, come quelle evocate dall’indovinello antico (2018, p. 5).

    Ora, procedendo dal riconoscimento di una costitutiva, invincibile, frammentazione dell’unità del conoscere e dire sull’uomo¹, emerge in tutta evidenza che la ricerca di una sintesi unificata e piana risulta meno produttiva e argomentativamente solida di una ricerca (ri-)problematizzante, di una dialettica tensionale tra conoscenze disciplinari di diversa natura e conformazione, di un lavoro di confronto comparativo e critico tra tradizioni, teorie e prospettive di differente collocazione storica, culturale, e persino disciplinare, miranti a una ripresa, approfondimento e ritrattazione della questione dell’identità umana. Il presente saggio è lontano da voler portare una pronuncia olistica, comprensiva della totalità degli apporti di saperi diversissimi. Intende, piuttosto, offrire un contributo specifico di ricerca interdisciplinare operante tra psicoanalisi e filosofia. Vuole portare sul tema/dilemma dell’identità umana una nuova comprensione di carattere teorico e speculativo; un contributo basato (1) su specifici elementi di avanzamento nel campo della ricerca psicoanalitica e della ricerca filosofica e (2) sull’effetto stesso di contraccolpo di questi avanzamenti su intendimenti e conoscenze, e quadri concettuali e prospettici, acquisiti in momenti e contesti diversi, antecedenti o paralleli. Per tanti versi, l’operazione si giustifica da sé: anzitutto, per la lunga tradizione di reciproca frequentazione tra psicoanalisi e filosofia; in seconda battuta, per la produttività e potenzialità implicita dell’apertura di un progetto di ricerca non nel solo campo della teoria scientifica né nel solo campo della speculazione filosofica, bensì in quello, prossimo a entrambe, di ricerca teorico-scientifico-speculativa. Questo campo, tanto essenziale quanto di confine, risulta inevitabile allorquando specialista clinico e studioso di filosofia si ritrovano, per vie diverse, impegnati in uno sforzo di comprensione, concettualizzazione ed esplicazione del tutto nuovi. Attraverso un itinerario di difficile raffronto dialettico, di reciproche incursioni interdisciplinari, di gesti di approssimazione e distanziazione, di ancoraggi e riferimenti a scuole e tradizioni determinate, i due poli discorsivi e disciplinari giungono al punto di un nuovo inquadramento teorico-speculativo del problema dell’identità personale. Tra breve vedremo il progetto e disegno del saggio – lasciando inteso che l’esito più significativo del lavoro dovrà essere raccolto dal lettore in prima persona attraverso il proprio itinerario di riflessione, lettura e interpretazione.

    Ora giova, anzitutto, inquadrare con esattezza lo specifico prospetto di problematizzazione attraverso il quale gli autori riprendono il dilemma classico dell’identità ed entro il quale lo sviscereranno per mezzo dell’armamentario tecnico, di conoscenza e di comprensione proprio della psicoanalisi e della filosofia contemporanea. Questo prospetto di problematizzazione è dato dal tema dell’identità personale, ovvero della costituzione e maturazione del sé e della persona. Da qui sorge l’immediata utilità di una migliore precisazione dei concetti in campo, cioè dell’intendimento a partire dal quale l’intero studio procede.

    Un principio di coerenza obbliga a non correre su concettualizzazioni predefinite ma a lavorare già in sede di introduzione a far emergere ‘da sé’, a partire dai discorsi scientifici e scientifico-filosofici contemporanei, l’inquadramento concettuale meglio rappresentativo, maggiormente valido nell’economia di una ricerca che mira a un punto conoscitivo ulteriore attraverso una nuova dialettica interdisciplinare sul tema dell’identità. Per far ciò, occorre a fortiori passare – anche se per rapidi cenni – per la tematizzazione dei modelli dell’identità oggi prevalenti – di matrice classica o di formazione contemporanea – con un’attenzione particolare per quelli che ancora oggi si rivelano ‘euristicamente’ efficaci, validi e (variamente) produttivi. Vediamo.

    2. Modelli dell’identità (ancora) oggi prevalenti

    Identità come processo. Il modello paradigmatico dell’identità intesa come processo si ritrova nell’hegeliana Fenomenologia dello spirito (1807), espressiva di una visione teleologica che si presta a intendere lo sviluppo dell’identità personale attraverso una dialettica di affermazione-negazione-superamento per tappe, figure e momenti progressivi (del Geist) incardinati nel processo dialettico stesso in quanto processo logico-ontologico. La Fenomenologia di Hegel presta appoggio all’idea di una processualità dello sviluppo personale, della maturazione di abilità espressive, della conquista/assunzione di dimensioni esperienziali, valoriali e di senso per il passaggio attraverso il ‘negativo’ – il ‘negativo’ (1) degli ostacoli ambientali, (2) dei limiti esperienziali e di capacità, (3) dell’‘oscurità’ interiore (paure, insicurezze, spinte contraddittorie, distruttività innata), (4) della sofferenza, (5) del confronto con l’altro e con l’‘alterità’. È modello utilizzato diversamente – per esempio, nella chiave di dialettica interrelazionale del riconoscimento (Alexandre Kojève, Axel Honneth et alii) e nella chiave di dialettica-dinamica, in sintesi miste, leganti hegelismo e freudismo (Jean Hyppolite, Paul Ricoeur et alii). Ma, al di là delle diverse formulazioni di impiego, resta confermato il principio ideale della progressività e, di conseguenza, della possibilità di intendere l’identità umana come processo. Si tratta di un modello paradigmatico sul quale possono essere fatte confluire, in un modo o nell’altro, anche quelle teorizzazioni direttamente o indirettamente collegate alla filosofia di William James, il quale ha contrapposto al sostanzialismo cartesiano una visione della coscienza e dell’identità come «flusso». In altro senso, la categoria della processualità può ritrovarsi anche in quei modelli con riferimento (naturalistico-biologistico) all’evoluzionismo, modelli che, in filosofia, sono presenti prevalentemente nel pragmatismo e neopragmatismo (anche qui in formulazione mista, come ad esempio nel caso del biologismo evoluzionistico e fenomenologico di John Searle). In un senso ulteriore, ancora, il concetto di processualità (mescolato a ‘dialettica’ o ‘relazionalità’) può applicarsi/ritrovarsi su determinati progetti di tipo fenomenologico-ermeneutico, entro un’ampia fascia che va dal disegno fenomenologico di Emmanuel Lévinas al progetto dei neurofenomenologi Francisco J. Varela, Evan Thompson e Eleanor Rosch (1991), fino all’enattivismo di Alva Noë (2009).

    Identità come dinamica. Referente princeps del modello ‘dinamico’ dell’identità è, senza dubbio, Sigmund Freud, il quale ha costruito un intendimento del soggetto facendo riferimento alla dimensione mista della realtà neurobiologica e della realtà psichica, dunque combinando meccanicismo ed energetismo in una visione, in qualche modo, già subito dinamica, ovvero collegante il meccanismo neurobiologico ai movimenti di carica-scarica libidica registrati nella vita psichica. Il passaggio da una prima prospettiva teorico-antropologica – incentrata sulla teoria degli impulsi, ovvero della dialettica conflittuale tra le istanze dell’io e le pulsioni libidiche – a una seconda – incentrata su un più profondo dinamismo tra pulsioni di vita e pulsioni di morte – conferma la persistenza e centralità dell’elemento della dinamica nell’intendimento freudiano. Anche questo è modello utilizzato diversamente, pure in formulazione ibrida, come nel caso del già menzionato intreccio con l’hegelismo, ovvero con la dialettica (Hyppolite, Ricoeur…). È, in ogni caso, il conflitto l’elemento dinamico essenziale posto dalla psicoanalisi a fondamento dell’identità, elemento dinamico che a sua volta si combina con la paradossalità enigmatica di un soggetto non più padrone in casa propria, che però non significa negazione del soggetto, se dove era l’Es dovrà subentrare l’Io (Freud, 1922). È questo a rappresentare lo specifico contributo della psicoanalisi allo smantellamento del soggetto come fondamento. In questo senso già il testo freudiano è interamente percorso da una tensione dialettica che gli consente di decostruire e ricostruire il soggetto – tensione che viene persa nella misura in cui esso viene negato o enfatizzato, nell’ambito di quegli orientamenti che, curiosamente richiamandosi al post-moderno, in modo implicito o esplicito, si attestano, in Europa, sulla sua negazione (il pensiero debole, lo strutturalismo francese, il lacanismo) e, oltreoceano, con la Psicologia del Sé, l’intersoggettivismo, l’interazionismo, nel suo recupero talora acritico².

    Non va, però, sottaciuto l’equivoco che potrebbe generarsi laddove il soggetto scisso di Freud in quanto paradigma universale (e non riferito alla sola psicopatologia) favorisca un disinvolto passaggio del discorso dall’ambito clinico a quello filosofico. Infatti, il soggetto del filosofo o del narratore che riflette sulle proprie fratture, per quanto nevroticamente lacerato, è, a tutti gli effetti, un soggetto forte che nulla ha a che fare con la non-integrazione borderline o con il vuoto schizofrenico e neppure, forse, con la carenza del Sé narcisistico³.

    Identità come costruzione sociale. Numerosissime esperienze di ricerca filosofica e psicologica sono, per una via o per l’altra, giunte a confluire sull’idea della centralità, nel processo formativo e costitutivo dell’identità umana, della realtà e dimensione sociale e, di conseguenza, nello sforzo di una teorizzazione espressiva di tale visione. In campo filosofico il nome e modello che spicca è quello di George H. Mead – sebbene sia più corretto riferirlo a un campo scientifico e speculativo, essendo stato, Mead, filosofo pragmatista e psicologo comportamentista. Il suo Mind, Self and Society (1934) rappresenta la quintessenziale sintesi di un’interpretazione dell’identità in chiave di psicologia e filosofia sociale stando alla quale se, da un lato, è vero che «la società umana non potrebbe esistere senza menti e , dal momento che tutti i suoi tratti più caratteristici presuppongono che i suoi membri individuali posseggano menti e », da un altro lato, è altrettanto vero che «i suoi singoli membri […] non possederebbero menti e se questi non fossero sorti all’interno del processo sociale umano nei suoi livelli inferiori di sviluppo» (Mead, 1966, p. 235)⁴. Insomma, premessa e fondamento dello sviluppo dell’identità personale è, in prima istanza, il processo sociale: esso «deve essersi verificato prima che negli esseri umani esistessero menti e , allo scopo di rendere possibile da parte degli esseri umani lo sviluppo di menti e all’interno o nei termini di quel processo» (ibidem). Percorso e prospettiva accostabili sono quelli realizzati, intorno agli stessi anni, da Lev Vygotskij che, battendo la via di un’indagine incentrata sul rapporto mente-linguaggio, è giunto a teorizzare la centralità della dimensione linguistica e comunicativa – ergo, della dimensione relazionale e sociale – nello sviluppo psicologico e umano. Anche Vygotskij, come Mead, sottolinea la colleganza e dipendenza dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori e della maturazione della coscienza con la/dalla internalizzazione di codici, funzioni e regole d’ordine sociale (Vygotskij, 1934). Non pochi sviluppi teorico-speculativi contemporanei hanno accolto e approfondito questo punto di vista: in chiave comunicativa (Habermas), in chiave di teoria dell’informazione e della computazione (Bateson, 1972; Chalmers, 1966 et alii), in chiave psicoterapeuticamente cibernetica (Wazlawick, Beavin, Jackson) e altro ancora.

    Identità come intersoggettività. Significativamente imparentato al modello precedente è il modello dell’identità come intersoggettività, espressivo di una genesi mista, in ampia parte collocabile tra Hegel e Mead. Le categorie filosofiche e sociologiche necessarie a inquadrare gli assi portanti di questa concezione sono le nozioni di linguaggio e interazione sociale, di reciprocità e di riconoscimento. Parliamo di concetti chiave tanto nello studio scientifico e critico-speculativo delle dinamiche dei gruppi – a partire dal discorso delle forme di interazione (Luhmann) – quanto nell’analisi e studio della formazione psicologica e dell’identità personale. Si è già fatto cenno al discorso meadiano della centralità del sociale nella formazione della mente e del Sé, ma il suo interazionismo simbolico evidenzia anche come sia il linguaggio a fungere da mediatore tra l’esperienza, la realtà sociale, la formazione del Sé e l’interazione umana – in quanto è nel linguaggio che esperienza e mondo sociale trovano una decodificazione segnica e simbolica suscettibile di reciproca comprensione e condivisione. Questo è processo che va in parallelo con lo sviluppo della capacità di ‘riconoscere’ l’altro e di assumere (per via prevalentemente emozionale) il punto di vista dell’altro. Laddove Mead – che riconosce la centralità delle emozioni – tende a porre l’accento sul discorso dell’interazione simbolica (piuttosto che comunicativo-linguistica), altri autori pongono al centro il discorso della dialettica interrelazionale o dialettica del riconoscimento – un ibridismo la cui produttività si vede bene nei lavori dei già menzionati Honneth (Lotta per il riconoscimento, 1992) e Ricoeur (Percorsi del riconoscimento, 2004), oppure il linguaggio e la comunicazione, come in Jürgen Habermas (Teoria dell’agire comunicativo, 1981), secondo il quale l’emancipazione personale e il riconoscimento sono, fondamentalmente, questione di partecipazione, appartenenza e azione critica sociale, ovvero dialettica comunicativa tra attori sociali. Non è semplicemente la forma dei rapporti [genericamente] intersoggettivi a determinare il grado di emancipazione e maturazione individuale e sociale, piuttosto la qualità dei rapporti comunicativi. Qui di nuovo entra in gioco la psicoanalisi con le sue correnti interpersonaliste e intersoggettiviste e con la Psicologia del Sé, di derivazione kouthiana. Non sono certo da misconoscere i vantaggi teorici e clinici che a tale disciplina sono derivati dall’introduzione dell’idea di Self, necessaria forse proprio nella misura in cui ha acquisito rilevanza anche l’idea dell’Altro, sia nelle teorie dello sviluppo infantile, sia cliniche (laddove l’altro è prevalentemente inteso nell’accezione di partner della relazione analitica). Tuttavia, vien da chiedersi se proprio le concettualizzazioni del Sé della psicoanalisi contemporanea – è noto quanto questo termine sia appesantito da un troppo vasto alone semantico – finiscano col correre il rischio di mettere tra parentesi l’incompiutezza originaria, la non padronanza. Una tale concettualizzazione rappresenta infatti un indebolimento dell’idea di frattura o decentramento, specie in quanto presuppone, come una sorta di a priori, l’idea del Sé come «struttura psicologica tramite la quale l’esperienza di sé acquista coesione e continuità» (Stolorow e Atwood, 1994, p. 62). Ma non bisogna dimenticare altri vertici teorici da cui cogliere la dinamica intersoggettiva all’interno della relazione analitica: ad esempio, quelli che valorizzano i piani vincolati alla sensorialità e allo scambio pre-riflessivo, oppure che fanno riferimento, con Donald W. Winnicott da un lato e Wilfred R. Bion dall’altro, all’idea dell’analista contenitore che necessariamente, a differenza della metafora dell’analista specchio, implica l’entrata in gioco di una dimensione fortemente relazionale⁵. Né può essere dimenticata una linea più tradizionale che pure conduce a prender atto della soggettività dell’analista: è la linea che passa attraverso la valorizzazione del controtransfert inteso in senso globale e dunque, nei fatti, come co-transfert⁶. Ciò che è peculiare della scoperta della soggettività attraverso il controtransfert – e che non andrebbe assolutamente abbandonato – è la rilevanza che assume la presa d’atto da parte dell’analista dei propri conflitti e delle proprie lacerazioni interiori, con cui egli si cala inevitabilmente all’interno dello scambio analitico. C’è infine l’idea di una soggettività dell’analista in quanto persona che entra in gioco nel modello interazionista e interpersonalista, in cui la stessa si manifesta attraverso un’attenzione particolare alle relazioni reali. Esse mettono in gioco l’analista da un lato in quanto corporeità, richiamandosi al livello più basilare e immediato di tale realtà, dall’altro in quanto dotato di un proprio ruolo, di una propria posizione sociale, di una propria capacità decisionale⁷.

    Identità come struttura. Il modello dell’identità centrato sull’idea di struttura è modello anti-identitario dell’identità personale. Definitosi con la svolta linguistica, trova espressioni paradigmatiche (come è noto) tanto nell’opera antropologica di Claude Lévi-Strauss con la sua tesi della «dissoluzione dell’uomo» quanto di Jacques Lacan. La nota tesi lacaniana che «l’inconscio è strutturato come un linguaggio» non sembrerebbe infatti riferirsi al solo piano teorico e pratico-terapico dell’interpretazione del freudismo e dell’inconscio, ma a un’idea che rischia di marginalizzare lo spazio di uno sviluppo autonomo e unico dell’identità personale. Essa fa leva sulla concezione della strutturazione linguistico-antropologico-culturale dell’identità umana, piegando ogni espressione peculiare, soggettiva a questa impalcatura strutturale.

    Identità come vita simbolica. Il modello dell’identità come vita simbolica è in parte modello che fa da contraltare allo strutturalismo, perché sviluppatosi e rafforzatosi prevalentemente nel solco dell’ermeneutica filosofica contemporanea. Referenti principes, in filosofia, sono Gabriel Marcel e il Paul Ricoeur di Finitudine e colpa (1960) e Della interpretazione. Saggio su Freud (1965), in campo psicoanalitico (come è noto) Carl Gustav Jung. Ben nota la prospettiva tratteggiata da quest’ultimo, secondo il quale,

    intenzione e volontà non bastano perché la psiche si evolva, occorre il simbolo dotato di forza di attrazione, il cui quantum di valore superi quello della causa. E la formazione del simbolo non può verificarsi prima che la psiche abbia indugiato a sufficienza sui fatti elementari, ossia fin quando la necessità interiore o esteriore del processo vitale provochi una trasformazione di energia. Se l’uomo vivesse in maniera puramente istintiva e automatica, le trasformazioni potrebbero ubbidire a leggi puramente biologiche (Jung, 1980, pp. 39-40).

    Per certi versi, la concezione junghiana può riassumersi nell’aforisma «quando ha dato alla luce il suo significato, […] il simbolo muore» (Jung, 1921, p. 526), che sembrerebbe implicare la natura non ermeneutizzabile del simbolo stesso. James Hillman (1984), riprendendo la questione in relazione al sogno, fenomeno simbolico per eccellenza, suggerisce, con accenti analoghi, che un sogno non può essere interpretato, perché in tal caso non sarebbe più un sogno. Questa concezione ha corrispettivi anche in campo filosofico, come ad esempio in Raimon Panikkar: «quando il simbolo ha bisogno d’essere spiegato è finito: ha smesso d’essere simbolo» (1981, p. 60).

    Nella psicoanalisi di derivazione freudiana, inizialmente vincolata con Ernest Jones e con Freud stesso a un certo riduzionismo agli antipodi della concezione junghiana, è stata in seguito valorizzata la necessità di una distinzione tra l’Io e il mondo oggettuale, e dunque di una differenza, al fine di consentire l’accesso al simbolo. È soprattutto per merito del gruppo kleiniano – e della Hanna Segal (1957) in particolare – che viene sottolineata l’appartenenza della funzione simbolica all’Io: solamente nel momento in cui l’istanza egoica si costituisce, è possibile riconoscere la realtà come altro da me e dunque distinguere il simbolo, di pertinenza dell’Io, dalla cosa simbolizzata. In un diverso contesto teorico, Alfred Lorenzer (1971) suggerisce l’opportunità di distinguere il «centro della formazione del simbolo», che va ricercato nell’Io, dalle sue «fonti di stimolo», fra cui va annoverato l’Es. Questa tensione può ancora meglio intendersi alla luce dei contributi bioniani: se esiste uno stato di non-pensiero, da cui pure si genera il pensiero, e se questo stato si caratterizza per una dimensione di infinito, che tuttavia può essere espressa solo nel momento in cui è ridotta a finitezza, cioè diviene pensabile, allora possiamo intendere la funzione simbolica come il trait d’union tra queste due dimensioni, come il regolatore di un flusso di comunicazione permanente che consente alle idee di essere produttrici di senso ulteriore, oltre che portatrici di un senso definito⁸.

    Per ragioni analoghe, ha poco senso parlare di simboli come oggetti, figure retoriche o tropi del linguaggio. Piuttosto occorrerebbe sempre riferirsi al processo o alla funzione simbolica. La funzione simbolica può allora essere intesa come connessione tra l’inconscio arappresentazionale, la rappresentazione inconscia, e il pensiero cosciente soggetto alle restrizioni dell’ordinamento logico. Il processo simbolico verrebbe in tal modo a configurare il complesso percorso del pensiero (che pure attraversa inevitabilmente quelle tre aree) che connette il simbolo (o meglio, l’immagine simbolica) all’oggetto simbolizzato.

    Per addivenire a una concezione integrata del simbolo, che mette in guardia dal duplice rischio del riduzionismo e dell’eccedenza, laddove il simbolo «o si degrada a segno o si annichila nella silenziosa notte del mistico» (Trevi, 1990, p. 26), occorre riconoscere che

    l’insignificabilità del simbolo non abolisce il tentativo insopprimibile di assegnare un significato a questo significante sospeso sul vuoto o proiettato su un futuro indistinto. Ma tale operazione di attribuzione di significato dovrebbe essere così accorta da rimandare, ogni volta che si conclude, ad un’altra operazione consimile, a sua volta limitata e aprentesi ad un’ulteriorità di significazione inedita. Il simbolo non ha significato ma sopporta (e trascende) innumerevoli processi di significazione (p. 22).

    Assumendo queste premesse è allora effettivamente possibile parlare di un’identità che si costruisce, si trasforma ed evolve attraverso i processi di simbolizzazione.

    Identità come narrazione. Il modello con riferimento paradigmatico alla dimensione della narrazione si pone in stretta colleganza dialettica con il precedente perché largamente definitosi entro il solco dell’ermeneutica filosofica e (in aggiunta) in dialettica produttiva con quella parte della tradizione psicoanalitica che ha saputo porre nel giusto rilievo il ruolo di linguaggio, espressione comunicativa e narrazione nei processi auto-interpretativi affermativi o ridefinitori dell’esperienza vissuta e nei processi interazionali terapeutici e clinici. Se riferimento filosofico importante è qui la figura e l’opera di Paul Ricoeur (Tempo e racconto, 1983-1985; Sé come un altro, 1990), in campo scientifico non può non evidenziarsi e riconoscersi la centralità dell’opera di Jerome Bruner (La mente a più dimensioni, 1986). Questo tema ha coinvolto certamente anche la psicoanalisi, ove sono stati soprattutto Roy Schafer e Donald Spence a enfatizzare il ruolo della narrazione⁹, ma spesso purtroppo senza quel rigore critico che ritroviamo nel filosofo francese, certo non propenso a indulgere al narrativismo o a ignorare la pulsione referenziale del discorso¹⁰.

    La critica nordamericana alle posizioni di Schafer, Spence e altri ha soprattutto focalizzato il rischio di condurre la narrazione a trasformarsi nella «cocreazione del passato dell’analizzando da parte della relazione attuale analista-analizzando» (Hanly, 1999, p. 427), inducendo alcuni a parlare criticamente di creazionismo (Ahumada, 1994, p. 695). A differenza di quella nordamericana, la critica di marca francese alla narrazione si è rivolta invece non tanto contro il suo distanziamento dalle idee di storia, verità e realtà psichica, quanto piuttosto contro la sua pretesa di coerenza ed esaustivit๹.

    Un altro orizzonte di pensiero è quello di Antonino Ferro, per cui «l’arte dello psicoanalista sta proprio nel regolare la ‘respirazione’ del campo analitico: dall’insaturazione-inspirazione, che espande il campo, alla saturazione-espirazione, che collassa il campo in una scelta interpretativa» (2002, pp. 125-126)¹².

    In questo panorama non dovremmo certo dimenticare il fenomeno dell’après coup, cioè della significazione a posteriori e della trasformazione del valore dell’esperienza attraverso il ricordo, che Freud aveva colto già nel 1896 (la Nachträglichkeit) e che tutt’oggi rimane di grande rilievo non solo per la teoria psicoanalitica, ma anche per la narratologia. Tutto ciò fa sì che la narrazione non possa che situarsi tra scoperta e creazione del significato, anzi sia proprio finalizzata al tentativo di interconnettere questi due momenti. È proprio in questa trasmissione di una significatività ulteriore (ma a partire da un significato!) che si gioca in buona parte l’analisi, permettendo all’indicibile, all’irrappresentabile, al dato sensoriale informe di farsi linguaggio e di costituirsi come emozione e come pensiero. Ma ciò comporta l’inevitabile confronto con i limiti stessi della narrazione, la quale finisce paradossalmente col segnalare l’irriducibilità dello scarto che li lega, la persistenza di un altrove rispetto al racconto e al linguaggio. Ciò significa che la narrazione risulta strettamente correlata non solo con la rappresentazione, ma anche con l’irrappresentabile, in quanto finalizzata a connettere il paziente con la magmaticità del proprio mondo emozionale, e insieme, poiché lo fa attraverso lo strumento del linguaggio, anche a consentirgliene l’opportuno distanziamento (Martini, 2005). C’è dunque un aspetto singolare e paradossale della narrazione in psicoanalisi (e anche in psichiatria): il suo fine principale, parafrasando quanto George Steiner e Paul Ricoeur sostengono a proposito del linguaggio, non è tanto la chiarezza e la coerenza, e tanto meno la completezza, quanto piuttosto aprire una finestra sull’inenarrabile.

    Identità come meccanica neuro-funzionale. Infine, anche se con generalizzazione/approssimazione si può riassumere sotto il paradigma meccanicistico/materialistico del funzionamento neuro-biologico tutto quel variegato insieme di modellizzazioni emergentistiche, riduzionistico-monistiche, dualistico-interazionistiche che definiscono e/o ri(con)ducono l’identità personale ai termini del funzionamento del cervello. Anche questo è modello o insieme di modelli paradigmatico/i, dunque di grande rilevanza nelle ricerche interessate alla questione dell’identità personale. Se Karl Popper, John C. Eccles e Wilder Penfield figurano come tra i più moderati nell’area della centralizzazione del cerebrale (in quanto dualisti interazionisti), possiamo ancora richiamare i nomi più polarizzati (dei fisicalisti riduzionisti, scienziati e/o filosofi): Jean-Pierre Changeux (1983), Daniel Dennett (1991), Gerald Edelman (1987), Owen Flanagan (1992); e possiamo richiamare anche quelli di fascia eliminativista (più radicalizzata): Paul e Patricia Churchland (1979), Stephen Stich (1983).

    Attraverso tutti questi modelli – per passaggio diretto o indiretto, per assunzione o contrapposizione, per utilizzazione (concettuale, procedurale, teorica) o per contrapposizione critica – la ricerca del presente volume si troverà a svilupparsi e definirsi.

    3. Procedimento e itinerario del saggio

    Come già detto, questa ricerca inquadra il problema dell’identità personale in quanto problema di carattere scientifico e speculativo – più precisamente, psicoanalitico ed ermeneutico. Non pochi i passaggi per diversi ambiti teorici – diversi per orizzonte disciplinare, culturale o di metodo e scuola. Tante le problematiche e prospettive critico-teoriche toccate e attraversate; e diverse le tensionalità cercate e mantenute – ‘cercate’ in forza dell’interesse ad attualizzare pienamente la questione dell’identità personale sotto la luce di punti di vista e conoscenze determinate e angolate, ‘mantenute’ per l’insuperabile distanza e differenza in fondamenta e tradizioni di discipline come l’ermeneutica filosofica e la psicoanalisi. Prova di ciò, l’impianto stesso del libro, espressivo dell’andamento della ricerca che lo ha formato – un andamento di dialettica interdisciplinare, con reciproche incursioni, qualche momento dialogico e ampi spazi di manovra critica e argomentativa intradisciplinari, sviluppati con un occhio alla controparte, per così dire. Se, infatti, Introduzione, Intermezzo e Fuga (conclusione) possono e devono leggersi come le fasi più evidentemente dialogiche, già i due passaggi di apertura Ouverture 1 e Ouverture 2 danno segno di un doppio binario o registro della ricerca qui svolta – essendo, rispettivamente, dedicati alla problematizzazione filosofica della questione dell’identità sul focus concettuale delle nozioni di subjectum e fundamentum e alla problematizzazione psicoanalitica della medesima questione sul binomio identità/delirio. Un doppio binario/registro, però, non svolto semplicemente ‘in parallelo’ ma, appunto, in dialettica. Infatti, fatta eccezione per i capitoli sull’identità corporea (infra, capitolo 6) e su identità e tempo (capitolo 7) – che, per motivi di forte prossimità (così intesa dagli autori) tra lettura psicoanalitica e lettura fenomenologico-ermeneutica di corpo/corporalità e temporalità, si sono resi lavori di sintesi a quattro mani – ogni altro si sviluppa internamente in autonomia disciplinare e allo specchio di un percorrimento, anticipante o seguente, l’altra disciplina. Così, fa da contraltare al capitolo psicoanalitico su Identificazione e costruzione dell’identità (capitolo 1) il capitolo filosofico sulla Decostruzione dell’identità (capitolo 2), oppure, al capitolo dedicato alla Filosofia della traduzione (capitolo 8) il capitolo che sonda la possibilità per la psicoanalisi di procedere al di là dell’interpretazione per configurarsi piuttosto come traduzione (capitolo 9). Questo movimento è in certa parte palesato nel gioco delle titolature stesse (come si vede), in altra parte è da ricercarsi tra le pieghe più interne degli svolgimenti argomentativi dei capitoli, in un gioco di approssimazione (come nel caso della dialettica tra l’identità narrativa [capitolo 5] e l’identità corporea [capitolo 6]) oppure di distanziamento (come nel caso della dialettica tra la tematica filosofica della decostruzione dell’identità [capitolo 2] e la questione psicoanalitica del rapporto identità-dissociazione [capitolo 3], due dimensioni diversissime, che pure si richiamano a vicenda tanto che si potrebbe sostenere che la dissociazione sia in qualche modo se non fondativa¹³ comunque costitutiva dell’identità).

    Tanti – ancora – i termini acquisiti, riproposti, ridefiniti entro una rete di analisi e argomentazione in certa parte ‘ferma’, in certa altra ‘mobile’ e ‘tensionale’ – frutto di un incontro che, al di là della sua ampiezza e delle sue aperture e contaminazioni, si rivela, comunque, riferibile a un orizzonte prevalentemente circoscrivibile entro le coordinate della psicoanalisi di derivazione freudiana (oggi articolate in un panorama composito che va dalle psicoanalisi dell’irrappresentabilità alle psicoanalisi dell’intersoggettività¹⁴), della psicologia comprendente jaspersiana e della fenomenologia ermeneutica di ascendenza husserliana. Variazioni che richiedono non pochi momenti di chiarificazione e (ri-)definizione, persino tecnico-semantica, di cui dà prova l’ampio glossario, composto di 44 lemmi, posto in coda al lavoro, al quale si dà di volta in volta rimando, nel testo, attraverso un asterisco. Ma variazioni inevitabili, utili e produttive. Nello sforzo di tematizzare e far interagire modelli e punti di vista differenti, gli autori hanno intravisto la via per evitare ogni deriva ideologica e unilateralizzante, ovvero quella specie di attitudine dogmatica, espressiva forse dello Zeitgeist contemporaneo, la quale spinge, come una sorta di istanza irrazionale, il ricercatore, lo scienziato e il filosofo a dichiarare il proprio credo (biologismo, evoluzionismo, spiritualismo ecc.; oppure, monismo, dualismo, emergentismo* ecc.), e difenderlo ancor prima di esporre i dati, i contenuti, il metodo impiegato, la strutturazione teorica e le problematicità/criticità irrisolte. Quasi mai, anzi, queste ultime, le si rende note; piuttosto si nasconde e si corre all’applicazione, alla generalizzazione, alla pronuncia totalizzante: ed ecco che il neurobiologo riduzionista/eliminativo si preoccupa di pronunciarsi sulla cultura, sui valori etici ed estetici, sull’arte… per riportare tutto al cervello, e dimostrare, in tal modo (?), verità, forza euristica e giustezza della propria visione… Insomma, non siamo molto oltre i casi di chi vede negli astri o nelle mani i segni del destino personale o nelle cose quotidiane l’opera dello Spirito Santo – senonché questi ultimi casi mantengono pieno margine di ragionevolezza e validità se/quando collegati all’ambito della fede religiosa o del credo privato.

    Ancora, nello sforzo di tematizzare e far interagire modelli e punti di vista diversi, gli autori hanno visto l’unica via di rispecchiamento della complessità e multisfaccettatura reale dell’identità umana in quanto fatto. Per giunta, la restituzione, la precisazione e l’approfondimento filosofico di diverse dimensioni e prospettive concettuali e teorico-teoretiche rappresenta un’importante occasione di ridefinizione, limitazione e riflessione (auto-)critica circa ogni uso del filosofico in campo psicoanalitico (sovente produttivo, sovente ridondante e disinvolto). Di contro, il processo legato al lavoro psicoanalitico di riconsiderazione teorica e riflessiva (di idee, interpretazioni, modelli e concezioni) forma un decisivo strumento di controllo, correzione, orientamento e ripensamento per l’indagine orientata da interessi/finalità filosofico-speculative. Questo gioco di reciproca guida e reciproca funzionalità critica lo si vede bene considerando il caso del delirio – per il cui intendimento lo psicoanalista si avvale tanto della sua disciplina quanto dei mezzi analitici e concettuali dell’ermeneutica (rappresentazione, pensiero simbolico, traduzione ecc.). Allo stesso modo, esso si configura come dilemma/paradosso riflessivo per il filosofo (disfacimento dell’identità come mira alla ricostruzione dell’identità…). Si può anche considerare il caso del concetto fenomenologico di pre-intenzionale – destinato, senza l’apporto della lezione freudiana, a restare concetto astratto della filosofia husserliana (in quanto non esattamente inquadrabile nella realtà bio-psico-fisica) e, contemporaneamente, nuovo termine-chiave nella ricerca di un punto di raccordo o snodo tra la dimensione espressiva di pulsionalità e affettività e la via inconscia/pre-conscia dell’espressione rappresentazionale e simbolica.

    Oggi il registro neuro-biologistico si candida sempre più a esser ‘unico registro’. Ma se, da un lato, è vero che il ‘mio’ codice di

    DNA

    definisce in modo inequivocabile e unico la mia sola ‘identità’ è altrettanto vero che io non sono solo il mio codice di

    DNA

    ; e se, da una parte, il patrimonio neurobiologico supporta ogni funzione psichica e dell’interiorità, dall’altra, la mia esperienza di vita, le mie scelte di valore, di gusto e di azione non possono dirsi/dimostrarsi unilateralmente determinate dal solo funzionamento neurobiologico; e, ancora, se pure risulta vero che la dinamica mente-cervello condiziona e orienta significativamente l’espressione dei bisogni e delle emozioni, le scelte, i motivi di impegno e di azione, altrettanto vero risulta il ruolo condizionale degli altri, della realtà sociale e storica in cui si vive, della cultura e valori che si abbracciano, delle occasionalità e imprevedibilità del quotidiano e via discorrendo. Tutto ciò concorre alla formazione trasformativa dell’identità personale. Perché l’essere umano è creatura complessa – non solo essere animale che abita la biosfera ma essere di cultura, di tecnica e di spirito, che entro la biosfera ha edificato e continua a edificare (certo, spesso contro i propri interessi vitali) sfere sempre più ampie e incisive di tecnica (tecnosfera), strutture sociali (sociosfera), normative (nomosfera), valoriali e via discorrendo. Di questa complessità e ricchezza oltre il cerebrale è forse prova quintessenziale il caso dello schizofrenico, il quale, al di là della sua condizione, resta persona, con una sua identità, una sua storia di vita, un suo status sociale, una sua rete di rapporti, una sua quotidianità fatta di impegni, idee, azioni, motivi, progetti, doveri ecc. La complessità del suo percorso riabilitativo, per la cui riuscita è essenziale il reinserimento nel tessuto sociale a partire da una condizione iniziale che è spesso di chiusura autistica, testimonia del resto come anche gli altri, anche la realtà concorrono essenzialmente a istituirci persone.

    Spinte regressive / spinte progressive, continuità / discontinuità, avanzata / arresto, esperienza e possibilità, affermazione e disconoscimento, affettività e iniziativa, carattere e progetto, azione e responsabilità, supporto e relazione: tutto ciò forma la ‘sostanza magmatica’ della realtà dell’identità personale e del fatto di essere e diventare persone. Sì, perché individui si nasce, mentre persone si diventa – come si vedrà e discuterà nel volume.

    L’essere umano è complesso; di conseguenza, una sua trattazione deve riflettere questa complessità, persino a costo di mettere in crisi l’unità discorsiva, la coerenza procedurale, il rigore degli usi terminologici¹⁵. Gli autori non credono di fare ‘dichiarazione di debolezza’, con ciò, piuttosto il contrario: non solo pensano di poter mostrare l’evidenza di uno sforzo genuino di ricerca e approfondimento interdisciplinare, ma rimarcano l’inevitabilità dell’effetto tensionale e mobile su una materia difficile e multidimensionale. Il lettore potrà comprendere la significatività dei passaggi per aree disciplinari differenti; e potrà anche afferrare la valenza del doppio andamento metodologico, descrittivo-critico e teorico-speculativo, della ricerca prodotta.

    Una nuova prospettiva teorico-speculativa non forma né una nuova teoria scientifica né una nuova filosofia; piuttosto, una nuova base o nuovo punto di (ri-)partenza per un avanzamento teorico-scientifico e per un avanzamento in campo filosofico. Senza dubbio, una certa difficoltà della lettura del libro nel suo insieme è da mettere in conto, soprattutto per la differenza disciplinare di psicoanalisi ed ermeneutica. Gli autori hanno introdotto delle brevi note di sintesi orientativa e di raccordo tra un capitolo e l’altro, utili particolarmente nel caso in cui il lettore privilegi i capitoli filosofici (Ouverture 1, capitoli 2, 5, 8) oppure i capitoli psicoanalitici (Ouverture 2, capitoli 1, 3, 4, 9). In entrambi i casi non si perderà la sostanza del confronto interdisciplinare (nella logica, nell’andamento, negli esiti) se, comunque, si percorrerà un itinerario ritmato dalle note orientative, dai menzionati ‘momenti dialogici’ (Introduzione, Intermezzo, capitolo 6 [L’identità corporea], capitolo 7 [Identità e tempo], Fuga) e dalle precisazioni terminologiche del glossario (a cui, ricordiamo, si rimanda attraverso un asterisco apposto sui termini chiave).

    Certo, più oltre non si può argomentare: su questo e su tutto il resto, giudice finale resta e resterà, comunque, sempre, il lettore.

    ¹ Gli autori di questo libro, scelgono di evidenziare la significatività e attualità dell’affermazione avanzata dal filosofo francese Paul Ricoeur, il quale già nella metà degli anni Sessanta del secolo scorso rimarcava che «l’unità del parlare umano forma oggi un problema», aggiungendo: «noi siamo appunto quegli uomini che dispongono di una logica simbolica, di una scienza esegetica, di una antropologia e di una psicoanalisi e che, forse per la prima volta, sono in grado di abbracciare come una questione unica quella della ricomposizione del discorso umano; di fatto, lo smembramento di questo discorso è contemporaneamente reso manifesto e inasprito dallo stesso progresso di discipline tanto diverse come quelle che abbiamo nominato» (Ricoeur, 1965, pp. 13-14).

    ² Ben difforme la posizione di Thomas H. Ogden (1994), che definisce il soggetto freudiano come un soggetto decentrato e di Cornelius Castoriadis, che parla del soggetto come unità da realizzare (1975-1990, p. 98) e come progetto psicoanalitico (p. 99) [si veda alle pp. 83-84]. Per Castoriadis, in particolare, la dialettica si pone, anche al di là dello specifico momento dell’analisi, tra il vivente, lo psichico e il sociale. Il necessario ritorno alla coscienza, cui fa riferimento Ogden, qui si traduce in un’enfasi rivolta ai processi di sublimazione, di nuovo però correlata con le dimensioni del divenire, dell’incompiutezza originaria: «questo soggetto non è semplicemente reale, non è dato: è da fare […] Il fine dell’analisi è precisamente l’avvento del soggetto […] Questo soggetto, la soggettività umana, è caratterizzato dalla riflessività (che non va confusa con il semplice ‘pensiero’) e dalla volontà o capacità di azione

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