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«Ben venga la propaganda»: Süss, l’ebreo di Veit Harlan e la critica cinematografica italiana (1940-1941)
«Ben venga la propaganda»: Süss, l’ebreo di Veit Harlan e la critica cinematografica italiana (1940-1941)
«Ben venga la propaganda»: Süss, l’ebreo di Veit Harlan e la critica cinematografica italiana (1940-1941)
E-book331 pagine4 ore

«Ben venga la propaganda»: Süss, l’ebreo di Veit Harlan e la critica cinematografica italiana (1940-1941)

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Questo lavoro di ricerca prende avvio da una constatazione e da una curiosità. Partiamo dalla constatazione. Studiando la produzione cinematografica realizzata dal nazionalsocialismo tra il 1933 e il 1945, il confronto – estetico produttivo, comunicativo e ideologico – con un film si rivela imprescindibile: Süss, l’ebreo (Jud Süss, 1940) di Veit Harlan. Lo è per l‘evidente qualità formale dell’opera, ma, soprattutto, per l’altrettanto evidente, quanto radicale, carica antisemita. Ed essendo l’antisemitismo uno snodo imprescindibile dell’ideologia nazionalsocialista, studiare Süss, l’ebreo significa, in fondo, studiare il totalitarismo hitleriano attraverso il punto di vista di un’«opera mondo» (un film di finzione), universo visivo di significati che racchiude l’essenza di un’epoca: la lotta tra l’elemento ariano minacciato dal suo nemico storico, l’ebreo. Quando oggi vediamo Süss, l’ebreo in realtà ci troviamo davanti a due differenti rappresentazioni del passato: la storia settecentesca di Süss, manipolata nella finzione cinematografica; e la storia del 1939-1941, quando la risoluzione della «questione ebraica» imboccò la strada che condusse alla «soluzione finale», prima con l’invasione della Polonia e poi con l’invasione dell’Unione Sovietica. L’interpretazione di Süss, l’ebreo è sin troppo semplice: i tedeschi hanno un solo modo per liberarsi dell’eterna minaccia ebraica. Il finale del film è la risposta. Per quanto riguarda invece la curiosità, è racchiusa in una domanda: cosa ne scrissero i critici italiani quando il film fu presentato in anteprima a Venezia nel settembre 1940 e uscì nel circuito nazionale nell’ottobre del 1941? Prefazione di Francesco Perfetti.
LinguaItaliano
Data di uscita11 feb 2021
ISBN9788838250798
«Ben venga la propaganda»: Süss, l’ebreo di Veit Harlan e la critica cinematografica italiana (1940-1941)

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    Anteprima del libro

    «Ben venga la propaganda» - Claudio Siniscalchi

    Perfetti

    PREFAZIONE

    FRANCESCO PERFETTI

    Ottant’anni orsono veniva realizzato e programmato con grande successo in Italia e nell’intera Europa Süss, l’ebreo di Veit Harlan. Benedetto Croce sosteneva che la storia è sempre contemporanea. «La contemporaneità non è carattere di una classe di storie», scriveva in apertura di Teoria e storia della storiografia (1929), «ma carattere intrinseco di ogni storia». Voleva dire che nello studio della storia, nel confronto con il passato, lo sguardo del ricercatore è perennemente rivolto al proprio tempo. Questo vale anche per l’interpretazione dei testi cinematografici. Già Siegfried Kracauer, fra i primi studiosi ad occuparsi organicamente dei rapporti tra il cinema e la storia, in uno scritto del 1969 raccolto successivamente in Prima delle cose ultime, equiparava la funzione del cineasta e del romanziere a quella dello storico. Un film di David W. Griffith (alla pari di un romanzo di Marcel Proust o dell’affresco dedicato da Jacob Burckhardt alla cultura del Rinascimento italiano) è in grado di dare una forma ben definita al mondo.

    Anche Süss, l’ebreo, in questa ottica, ci presenta una forma molto ben definita di un mondo che ha posto al proprio centro l’antisemitismo. Ha ragione Marc Ferro. Chi guarda Süss, l’ebreo non può che provare una doppia sensazione: scopre il talento di un grande regista, ma si rende anche conto che questo talento è stato messo al servizio del cuore pulsante dell’ideologia nazionalsocialista, l’antisemitismo.

    Claudio Siniscalchi – uno dei più raffinati studiosi di storia del cinema, capace di leggere la produzione filmica non solo dal punto di vista tecnico ma anche utilizzando categorie interpretative storiografiche e filosofiche – propone, con questo suo nuovo volume, di confrontarsi con Süss, l’ebreo di Veit Harlan senza pregiudizi e senza timori ma, anzi, cercando di giungere, attraverso una attenta considerazione di quell’opera, a una migliore comprensione del Terzo Reich e delle sue tecniche propagandistiche e di formazione e gestione del consenso.

    Süss, l’ebreo, in effetti, è un’opera cardine proprio per comprendere il ruolo svolto dalla cinematografia, e ritenuto di vitale importanza dal regime, nella propaganda del Terzo Reich: un’opera sulla quale, tuttavia, è calata una sorta di cortina di oscuramento, tant’è che, a tutt’oggi, Süss, l’ebreo è considerato il lavoro «maledetto» di un autore «maledetto». Veit Harlan e, al pari e non meno di lui, Leni Riefenstahl – al di là di quello che entrambi avrebbero detto nel dopoguerra – credettero nella «rivoluzione nazionale» operata dal nazionalsocialismo. Misero a servizio del Terzo Reich il loro modo eccelso di modellare la finzione. Harlan lo fece con maggiore intensità, realizzando e producendo numerose pellicole, tra cui proprio Süss, l’ebreo. Nel dopoguerra fu chiamato davanti ad un tribunale a rispondere del contenuto della sua opera, non subì nessuna condanna, ma il suo nome rimase associato a Süss, l’ebreo. Ed è un’associazione riprovevole.

    Nell’affrontare l’analisi e lo studio di Süss, l’ebreo, l’autore di questo volume, ha ben presente il suggerimento di Renzo De Felice, del quale si sente un allievo eterodosso, a separare la storiografia dalla morale. L’opera «maledetta» deve essere studiata, in questo quadro, per quello che essa realmente rappresenta. Nel caso specifico siamo di fronte alla costruzione visiva, paradigmatica, di uno stereotipo vivo e presente già nella Germania pre-hitleriana, portato alle conseguenze estreme durante la Germania hitleriana.

    Nella prima parte del volume, Siniscalchi analizza e contestualizza storicamente Süss, l’ebreo esplorandone forma e contenuto. L’analisi del film non lascia spazio a fraintendimenti: gli ebrei sono la minaccia mortale per la comunità ariana, una minaccia antica che affonda le radici, come narra il film, nella storia della prima metà del XVIII secolo. Essi sono il tarlo che divora il legno solido della Germania per cui sembra giunto il momento di allontanarli dal suolo tedesco ponendo fine a una storia che già il padre spirituale della nazione, Martin Lutero, aveva ben chiara. Non a caso nel film il duca Karl Alexander (incosciente responsabile che affida l’amministrazione delle finanze all’ebreo Süss), sovrano cattolico chiamato a reggere un ducato protestante come il Württemberg, mostra tutto il suo fastidio per Lutero.

    Nella seconda parte del volume, Siniscalchi focalizza il suo interesse di studioso sulla ricezione che Süss, l’ebreo fece registrare da parte della stampa cinematografica italiana in due occasioni: settembre 1940 alla «Mostra di guerra» di Venezia; ottobre 1941 nel circuito nazionale. Le recensioni, scritte in quelle circostanze, confermano un assunto che De Felice aveva indicato nella sua pionieristica ricerca nel 1961 Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo: gli intellettuali di ogni ordine e rango, e i giovani universitari già attivi nella pubblicistica e nell’editoria, o in procinto di entrarvi, mostrarono un ampio consenso alla propaganda antisemita. Difatti nelle tante recensioni dedicate a Süss, l’ebreo, non vi è traccia di perplessità. I «signori della critica» (professionisti della carta stampata già affermati come Luigi Chiarini, Mario Gromo e Pietro Bianchi), lodano la riuscita dell’opera alla pari dei «giovani scalpitanti», che avranno grande fortuna nel dopoguerra nello studio del cinema (Guido Aristarco), nel giornalismo (Enzo Biagi), nella regia (Carlo Lizzani). Il coro è unanime: Süss, l’ebreo è un’opera perfettamente riuscita, e se dal piano della messa in scena scendiamo a quello della propaganda, allora «ben venga la propaganda», come suggerisce il giovane critico ferrarese Michelangelo Antonioni. L’allineamento della cultura cinematografica all’antisemitismo è totale. E quel che rileva è il fatto che esso non si manifesti tanto nei confronti di un’opera leggera o ambigua, quanto piuttosto nei confronti di un testo costruito per mostrare e spettacolarizzare il vero volto, la vera essenza dell’antisemitismo nazionalsocialista.

    Al di là dei suoi indiscutibili pregi come ricerca filologicamente e storiograficamente puntuale nel settore specifico della storia del cinema, il saggio che Siniscalchi ha dedicato a Süss, l’ebreo e alla sua ricezione in Italia acquista un valore che trascende l’ambito specifico degli studiosi e dei cultori di cinema. Esso, infatti, finisce per toccare, sia pure in maniera surrettizia, il grande tema del rapporto fra intellettuali e potere in un regime di tipo autoritario.

    INTRODUZIONE

    In ricordo di

    Anthony James Gregor

    Angelo Paoluzi

    Virgilio Fantuzzi

    Il quotidiano di Londra «The Times» nell’edizione del 14 aprile 1964, a pagina quindici, pubblica una breve notizia:

    Herr Veit Harlan, il regista tedesco che per volere di Goebbels ha realizzato il film di propaganda antisemita, tratto dall’omonimo romanzo Jud Süss, è morto ieri in una clinica di Capri all’età di 64 anni. Il film (1940) venne usato dai nazionalsocialisti, in particolare nei territori occupati dell’Est, per attrarre consenso popolare alla «soluzione finale della questione ebraica».

    Finita la guerra, il film trascinò Herr Veit Harlan davanti ad un tribunale tedesco, per l’accusa di crimini contro l’umanità – senza però subire alcuna condanna – ma venne comunque decretato il divieto di pubblica presentazione nella Repubblica federale, per non fomentare l’odio razziale. Lo scorso anno era stata imposta dal tribunale la distruzione di tutte le copie del film [1] .

    Veit Harlan è il solo artista nazionalsocialista che nel dopoguerra ha dovuto rispondere dell’accusa di crimini contro l’umanità davanti ad un tribunale tedesco. Gli sono stati intentati due processi, uno nel 1949 e uno nel 1950, ma in entrambi è stato assolto [2] . Il cinema, sin dalla sua affermazione sociale nei primi due decenni del XX secolo, è la lingua franca della società, un mezzo formidabile per indagare la verità sul mondo. Spalanca la nostra esperienza in modo assai più efficace di tanti discorsi e di tanti libri. L’umanista americano Lionel Trilling, grande studioso della letteratura, sosteneva che ogni opera compiuta rappresenta un fatto estetico maturato nella storia degli uomini, impossibile da vivere al di là del contesto in cui l’opera è stata realizzata [3] . Le opere della finzione, a prescindere dal loro valore artistico, nel corso del Novecento hanno ricoperto il ruolo sociale esercitato dal romanzo nell’Ottocento. E proprio uno scrittore, Honoré de Balzac, assegnava al romanzo la funzione di «storia privata delle nazioni». Storia che un altro scrittore novecentesco, Mario Vargas Llosa, intende come «verità messa in pagina attraverso la menzogna» [4] . Sul piano cinematografico gli studi di Marc Ferro giungono alle medesime conclusioni di Trilling e Vargas Llosa. Il film è un «agente», un «prodotto» della storia, nel senso che non può essere dissociato dal suo contesto di produzione, né dal pubblico al quale è destinato [5] . La finzione è uno strumento della «rappresentazione del sociale»: una menzogna che racconta la verità del proprio tempo. Le «immagini sono il medium comunicativo tra noi e la realtà; sono il frutto delle nostre esperienze e della società in cui viviamo» [6] .

    Di cosa ci parla Süss, l’ebreo ( Jud Süss, 1940) d Veit Harlan? Dell’antisemitismo messo in scena dall’ufficialità culturale nazionalsocialista, in un momento centrale del Terzo Reich: l’inizio della guerra europea (poi mondiale). La prima parte del presente lavoro affronta la complessità di questo argomento. Troppo spesso la cinematografia nazionalsocialista è stata (e ancora troppo spesso lo è) oggetto di semplificazioni, fraintendimenti, demonizzazioni. Questi atteggiamenti finiscono per far passare in secondo piano, o addirittura occultare, le qualità formali, il potere attrattivo, la complessità ideologica e culturale di alcune opere.

    La seconda parte, invece, è riservata alla ricezione italiana del film, avvenuta in due momenti: la presentazione alla Mostra del cinema di Venezia nel settembre del 1940, e la successiva uscita nelle sale italiane del film nell’ottobre del 1941. L’Italia dalla metà del 1938 ha adottato una legislazione razziale, che di fatto colpisce, discriminandola, la minoranza ebraica. Il termine antisemitismo «fu usato – sembra – per la prima volta nel 1879» [7] , quando «Wilhem Marr pubblicò La vittoria degli ebrei sul germanesimo» [8] . Si può convenire sul fatto che l’antisemitismo

    indica l’avversione contro gli ebrei sorta nell’Ottocento, con un accentuato carattere laico e caratterizzata dall’identificazione dell’ebraismo principalmente attraverso categorie etnico-nazionali o esplicitamente razziali [9] .

    Giustamente, la letteratura scientifica tende a dividere l’antisemitismo dall’antigiudaismo. Sin dalle origini del cristianesimo si è consolidato un compatto e duraturo insieme teologico che riteneva gli ebrei

    colpevoli in blocco dell’uccisione di Gesù (è il tema del cosiddetto «deicidio»), maledetti (si veda in tal senso l’interpretazione consueta del versetto evangelico «il suo sangue ricadrà su di noi e sui nostri figli», Mt 27,25), puniti con una dispersione senza ritorno («ebreo errante»), divenuti garanzia visibile della giustizia divina e dell’attendibilità delle profezie bibliche («popolo testimone») [10] .

    L’antigiudaismo è stato uno dei più significativi strumenti di edificazione del pensiero occidentale, imperniato sul costante confronto con la «diversità ebraica». L’antigiudaismo, schematizzando al massimo, si focalizza sulla fisionomia della tradizione ebraica; l’antisemitismo prende di mira l’esistenza concreta, fisica degli ebrei [11] . L’antisemitismo a due anni di distanza dall’approvazione delle «leggi razziali», è penetrato in profondità nella cultura italiana. La stampa cinematografica non fa che confermare questo dato di fatto. La polemica antisemita che si riscontra negli articoli relativi al film di Harlan non è frutto della penna intrisa nel veleno di Telesio Interlandi o Giovanni Preziosi, campioni nella carta stampata dell’ostilità, spesso furibonda, verso gli ebrei. Riguarda giovani dal futuro radioso e meno giovani che non avranno fortuna nel dopoguerra. Riguarda giornalisti di valore e pennivendoli da quattro soldi. Riguarda intellettuali che caduto il fascismo gli rimarranno ostinatamente fedeli e intellettuali che lo rinnegheranno senza troppi rimpianti, poco importa se in buona o cattiva fede. Compito dello storico, suggeriva Benedetto Croce, non è quello di «giudicare», ma di «giustificare», cioè «comprendere».

    Non trovo le parole giuste per esprimere la mia gratitudine a Giuseppe Dalla Torre, Presidente della Studium e per un lungo tempo Rettore della Lumsa. L’ho conosciuto grazie al compianto Giovanni Marchi, e per quasi un quarto di secolo sono stato un suo Professore, diventando nel corso del tempo un amico della sua famiglia.

    Devo un particolare ringraziamento a Emilio Gentile, che è stato il primo a leggere il manoscritto, e che mi ha costantemente incoraggiato ad andare avanti in questa ricerca. Così come lo devo al mio carissimo e stimato amico Francesco Perfetti, che alcuni anni fa si offrì di pubblicare il saggio in una collana da lui diretta e, mantenendo fede all’impegno preso, ha scritto la prefazione.

    In un lavoro congiunto Lorella Cedroni, mia compagna di studi, testimone di nozze, collega e amica di una vita, che andandosene troppo presto mi ha privato della possibilità di avere un lettore attento quanto critico, ha ricordato che nei primi anni Ottanta del secolo passato frequentammo alla Sapienza un seminario di Renzo De Felice su gli ebrei in Italia durante il fascismo. La frequentazione l’avevo rimossa. Era evidentemente destino che mi dovessi occupare di questo argomento, sul solco tracciato con lucidità e infinita competenza da De Felice, alla cui lezione mi sono sempre richiamato.

    Mi sento inoltre in obbligo di ringraziare, per i suggerimenti fornitimi, Gabriele De Rosa, Anthony James Gregor, Gian Piero Brunetta, Tarmo Kunnas, Ernst Nolte, Ernesto Guido Laura, Francesco Malgeri, Fernaldo Di Giammatteo, Maurizio Serra, Carlo Lizzani, Pier Marco De Santi, Gianfranco Lami, Gian Luigi Rondi, Alessandra Tarquini, Piero Melograni, Giano Accame, Matthew Fforde, Antonio Spinosa, Alessandra Staderini, Michael A. Ledeen, Julio Montero Diaz, Maria Antonia Paz, Robert Hassan, Philippe d’Hugues, Alessandro Duce, Michel Marmin. Alcuni di loro non ci sono più, ma non li ho dimenticati, e a loro va il mio riconoscente pensiero.

    Da moltissimi amici, a vario titolo, ho ricevuto un prezioso aiuto, e mi è davvero impossibile ricordarli tutti. Ne voglio citare soltanto uno, Umberto D. Javarone. Brillante studente, Umberto si è laureato con me in storia del cinema nel 2005, con una tesi di vecchio ordinamento (cinque anni), appunto sul film di Veit Harlan. Da quel lavoro comune ho capito che la ricerca doveva proseguire. Quindi lo studio di Süss, l’ebreo mi accompagna da un quindicennio e, spero, non mi abbandonerà anche nel prossimo.


    [1] Articolo non firmato, Herr Veit Harlan, in «The Times», 14 aprile 1964.

    [2] Cfr. E. Glon, Le film comme crime: le cas de Veit Harlan, in «Raisons politiques», 2, 2009.

    [3] Cfr. L. Trilling, The Liberal Imagination, Viking Press, New York 1951.

    [4] Cfr. M. Vargas Llosa, La vérité par le mensonge. Essais sur la littérature, Gallimard, Parigi 1992.

    [5] Cfr. M. Ferro, Analyse de films, analyse de sociétés, Hachette, Parigi 1977.

    [6] P. Sorlin, Cinema e identità europea, La nuova Italia, Milano 2001, p. 7.

    [7] R. Moro, La cultura cattolica e l’antisemitismo, in R. Chiarini (a cura di), L’intellettuale antisemita, Marsilio, Venezia 2008, p. 15.

    [8] P. Stefani, L’antigiudaismo. Storia di un’idea, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 13.

    [9] V. De Cesaris, Spiritualmente semiti. La risposta cattolica all’antisemitismo, Guerini, Milano 2017, p. 9.

    [10] P. Stefani, L’antigiudaismo, cit., pp. 4-5.

    [11] Cfr. D. Nirenberg, Antigiudaismo. La tradizione occidentale, Viella, Roma 2016.

    I. IL «MINISTRO DELLE ILLUSIONI»

    Il quarto capitolo del film di Quentin Tarantino Bastardi senza gloria ( Inglourious Basterds, 2009) ha per titolo «Operazione Kino». Un militare inglese viene introdotto da un attendente in una stanza. Il tenente Archie Hicox appena entrato rimane sorpreso nel vedere seduto davanti al pianoforte un uomo anziano, vestito in maniera elegante, con il papillon, intento a fumare un grosso sigaro (è Winston Churchill). Nella stanza, grandissima e vuota, c’è un altro ufficiale, il generale «Ed» Fenech. Il generale saluta Archie e gli chiede di servirsi un drink. Poi gli domanda se parla tedesco, e alla risposta affermativa del tenente («lo parlo come il barone di Münchhausen»), gli pone una seconda domanda: «che mestiere esercitava prima della guerra?». «Critico cinematografico» è la risposta. Archie prosegue ricordando di aver scritto recensioni e articoli per il periodico «Films & Filmakers», e due libri sul cinema tedesco. Il primo, Arte degli occhi, del cuore e della mente, studio sulla cinematografia negli anni di Weimar. Il secondo, Il Leonardo da Vinci del 35 millimetri, monografia sul regista Georg W. Pabst [1] . Alla domanda del generale se conosce bene la produzione del Terzo Reich, Archie risponde affermativamente, anche se non ha potuto vedere i film usciti negli ultimi tre anni. La nuova domanda è ancora più precisa: «Goebbels come sta usando l’Ufa?» [2] . «Goebbels considera i film che sta facendo – risponde il tenente – come l’inizio di una nuova era del cinema tedesco, un’alternativa al cinema internazionale ebreo-tedesco degli anni Venti e al dogma hollywoodiano dominato dagli ebrei». «E come sta andando?». Stavolta a porre la domanda è l’uomo seduto al pianoforte. «Ha detto che vuole battere gli ebrei al loro stesso gioco. Comparandolo, diciamo, a Louis B. Mayer [3] , come se la cava?». «Piuttosto bene» risponde sicuro il tenente:

    In effetti, da quando Goebbels ha le redini in mano, l’affluenza di pubblico è aumentata costantemente in Germania negli ultimi otto anni. Ma Louis B. Mayer non sarebbe il corrispettivo più idoneo per Goebbels. Penso che Goebbels si veda più vicino a David O. Selznick [4] .

    L’interpretazione del cinema nazionalsocialista per lungo tempo ha oscillato in una doppia direzione. La prima ha finito per ricondurre il significato di ogni singolo film ad un semplice prodotto della «propaganda». La seconda, invece, tranne pochissime eccezioni riguardanti perlopiù opere antisemite o belliche, ha considerato il cinema del Terzo Reich un agglomerato dominato da banalità, scarso valore artistico e puro intrattenimento. Lo storico comunista Georges Sadoul interpretava il cinema hitleriano come la «continuazione della politica tradizionale dei trust e dei cartelli tedeschi per la creazione, dal 1900, di monopoli europei, con mezzi pacifici o sanguinosi». E riassumeva il giudizio: una «gigantesca impostura nazionale e socialista» [5] . Vent’anni dopo il lettore italiano poteva leggere sull’autorevole rivista «Bianco e nero» della «scarsa portata» artistica della produzione tedesca, composta essenzialmente da «opere farraginose e retoriche» [6] .

    Tali giudizi sono ormai ampiamente superati. Come scrive Stephen Lowry definire il cinema del Terzo Reich per lungo tempo è stata un’impresa problematica:

    i critici lo hanno considerato puramente come una macchina di propaganda in cui trova espressione l’esaltazione del movimento nazista [...] i conflitti generati dall’odio [...] e la glorificazione del passato tedesco [...]. Dall’altra parte, i suoi estimatori e molti dei diversi protagonisti ne danno l’immagine (spesso non disinteressata) d’una forma apolitica d’intrattenimento che offre un’evasione dalla realtà del regime nazista [...]. Solo recentemente, comunque, questa dicotomia di orientamenti ha iniziato a essere sostituita da concezioni meno superficiali dei meccanismi di funzionamento dell’industria cinematografica tedesca, dei film stessi e del loro contesto nell’ambito del sistema politico e di cultura di massa [7] .

    Ormai il tempo trascorso ha relegato in soffitta schemi inadeguati per l’interpretazione dei 1.094 lungometraggi di finzione prodotti tra il 1933 e il 1945 [8] . Per Victoria De Grazia il

    Terzo Reich spicca non solo per aver saputo creare un cinema nazionale ma anche per aver stretto un’alleanza transeuropea contro Hollywood. Tali conquiste sono da attribuirsi in parte all’eredità raccolta dal regime nazista, ovvero un’industria cinematografica di grandi potenzialità, relativamente compatta, e la forte economia di esportazione. La dittatura di Hitler usò il proprio potere per tenere a freno la concorrenza tra le società, tagliare i costi, allargare i mercati nazionali e aumentare le esportazioni. Incoraggiò inoltre, con risultati sorprendenti, nuovi modi di concepire i film di intrattenimento, basandosi sulla tradizione Ufa, anche a costo di allontanare la cultura cinematografica tedesca dalla sperimentazione modernista della Repubblica di Weimar e di avvicinarla alla mentalità hollywoodiana [9] .

    Se la cinematografia del Terzo Reich ha intrapreso questa strada, lo si deve in larga parte all’operato di Joseph Paul Goebbels [10] . In Inglourious Basterds Tarantino presenta il signore incontrastato della celluloide con la svastica scivolando nella «macchietta»: un gaudente, spesso in preda ad attacchi d’ira, che parla velocemente con tonalità sopra le righe. Il ritratto del libidinoso, peraltro privo di scrupoli, era stato fissato sullo schermo in un film di propaganda bellica: Enemy of Women (1944), diretto dal regista americano di origini tedesche Alfred Zeisler. Ma senza la sua presenza la cinematografia «non avrebbe giocato il ruolo di rilievo nella storia del Terzo Reich» [11] . Nato il 29 ottobre 1897 a Rheydt, cittadina manifatturiera del settore tessile nel Basso Reno, a venticinque chilometri da Düsseldorf e a trentacinque dal confine con l’Olanda, Goebbels apparteneva ad una famiglia piccolo borghese di cattolici devoti, con cinque figli, tre maschi e due femmine. Sin da bambino ha un problema osseo non curabile, e per il resto della vita zoppicherà. Nello studio eccelle: è «il più bravo della classe e così gli aprirono le porte dell’università» [12] . Studia prima a Bonn, alla Facoltà di letteratura e filosofia e, successivamente, com’era d’uso all’epoca, gira per vari atenei (Friburgo, Würzburg, Monaco di Baviera): «ovunque l’odissea del corso degli studi lo sospinse [...] fu costantemente accompagnato dalla fame» [13] . Si laurea all’università di Heidelberg nell’aprile del 1922. Suo desiderio era preparare un elaborato sul tema del declino dell’Occidente nell’opera di Oswald Spengler. Il professore che lo segue gli assegna però una tesi sul drammaturgo Wilhelm von Schütz, poeta romantico poco noto [14] . Nel 1923 trova un impiego come dipendente di una banca a Colonia. Odia quel lavoro, ma dopo pochi mesi perde il posto. È uno dei tanti disoccupati nella Germania di Weimar. Sempre nel corso del 1923 Goebbels stabilisce i primi contatti con il nascente movimento nazionalsocialista. Gregor Strasser lo prende sotto la sua ala protettiva [15] . L’incontro con Hitler determina la svolta della vita: «il colpo di fulmine arrivò attraverso il Mein Kampf, letto il quale volle sapere chi fosse l’uomo che lo aveva scritto» [16] . Scopre così di avere per la politica, più della scrittura e dell’arte, la vera vocazione. Nella biografia di Goebbels, «l’intellettuale più organico, acuto e influente del regime nazista» [17] , si riassume il destino della Germania, da Weimar alla caduta di Hitler. La lettura del romanzo giovanile di Goebbels Michael (strutturato in forma di diario – la prima stesura è del 1919 e la seconda del 1924 – rifiutato dagli editori Ullstein e Mosse [18] , viene pubblicato nel 1928 da Max Amann, direttore della casa editrice Franz Eher) [19] è molto istruttiva per capire l’essenza, apparentemente contraddittoria, del suo pensiero. Goebbels deve essere considerato un «modernista» [20] . Può sembrare una stravaganza annoverarlo fra i «modernisti». Ma non lo è affatto, poiché nutriva profonda ammirazione per il pittore Van Gogh (in una mostra di opere moderne c’è «Un solo astro: Vincent Van Gogh») [21] e per l’arte nazionale e rivoluzionaria di alcuni espressionisti («Il nostro decennio è, nella sua struttura interna, del tutto espressionista») [22] . Il 12 dicembre 1933, come ricorda Roger Griffin, Goebbels inviò un telegramma al pittore norvegese Edvard Munch, in occasione del suo settantesimo compleanno, complimentandosi per i traguardi artistici,

    sottolineando come i suoi dipinti mostrassero lo spirito potente e ostinato ereditato dalla tradizione nordico-germanica nel sommo

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