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Vincitori e vinti: Continuità, trasformazioni, nuove identità nella scena culturale britannica e tedesca degli anni '50
Vincitori e vinti: Continuità, trasformazioni, nuove identità nella scena culturale britannica e tedesca degli anni '50
Vincitori e vinti: Continuità, trasformazioni, nuove identità nella scena culturale britannica e tedesca degli anni '50
E-book285 pagine4 ore

Vincitori e vinti: Continuità, trasformazioni, nuove identità nella scena culturale britannica e tedesca degli anni '50

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Due nuove identità culturali, la britannica e la tedesca, si vanno formando alla fine della seconda guerra mondiale attraverso un processo non lineare, che mira da una parte a liberarsi del condizionamento del mito della ‘colpa collettiva’ e, dall’altra, al riposizionamento della cultura all’interno di uno scenario complesso che accoglie nuove istanze di classe, di genere e stili di vita. Istanze che sembrano agire in maniera analoga nelle due città-simbolo della distruzione e dell’inizio della ricostruzione: Londra e Berlino. Il dialogo fra i due paesi non si è mai interrotto: l’avvento del nazismo interrompe forzatamente questo processo ma non lo elimina. La cultura dei vincitori e quella dei vinti procedono parallele e cercano una nuova vita fra le macerie che la guerra si è lasciata dietro.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2014
ISBN9788878534742
Vincitori e vinti: Continuità, trasformazioni, nuove identità nella scena culturale britannica e tedesca degli anni '50

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    Vincitori e vinti - Benedetta Bini

    mondiale

    Presentazione

    di Benedetta Bini

    Le giornate di studio Vincitori e vinti: continuità, trasformazione, nuove identità nella scena culturale britannica e tedesca degli anni ’50 di cui pubblichiamo gli atti si sono svolte presso il Dipartimento DISTU dell’Università della Tuscia nel maggio 2011. L’idea su cui si era costruito l’incontro fra studiosi e storici della cultura inglese e tedesca di vari atenei partiva dalla necessità di riflettere sulla costruzione di due nuove identità culturali, la britannica e la tedesca, che si vanno formando alla fine della seconda guerra mondiale attraverso un processo non lineare, che mira da una parte a liberarsi del condizionamento del mito della colpa collettiva e, dall’altra, al riposizionamento della cultura all’interno di uno scenario che accoglie nuove istanze di classe, di genere e stili di vita fortemente condizionati, fra l’altro, dal modello americano. Istanze che sembrano agire in maniera analoga nelle due città-simbolo della distruzione e dell’inizio della ricostruzione: Londra e Berlino. Il dialogo culturale fra i due paesi non si è mai interrotto. L’avvento del nazismo interrompe forzatamente questo processo ma non lo elimina, come dimostra la figura emblematica del Francis Bacon berlinese, che segna in maniera indelebile i nuovo luoghi del consumo metropolitano nella Londra degli anni ’50. Al tempo stesso, l’arrivo dalla Germania di un ceto ebraico intellettuale in fuga porta nel nuovo sistema culturale del dopoguerra inglese il segno molto forte di una presenza intellettuale complessa, e a sua volta l’esperienza e l’identità degli inglesi vincitori si riverbera sulla cultura tedesca della ricostruzione. Alcune esperienze segnano poi in modo decisivo il percorso delle due culture, in primo luogo la guerra fredda e gli esperimenti nucleari: episodi che generano in entrambi i paesi interessanti elaborazioni sia negli stili di vita che nei nuovi generi culturali di consumo.

    In Inghilterra nuovi stili di vita, consumi, designs dell’abitare metropolitano modificano radicalmente la società post-bellica e si riflettono con forza sulla scena letteraria, animata dal disincanto e dalla perdita di quei valori che il trionfo contro i tedeschi non era riuscito, nonostante tutto, a conservare. Gli anni dell’Austerity riflettono questo clima di povertà imposta, cui fa da interfaccia l’esplodere dei consumi della cultura giovanile in un oscillare fra l’euforia degli absolute beginners e la tranquilla disperazione che si nascondeva nelle pieghe della vittoria. In Germania, la difficile e tragica ricostruzione impone una rilettura della storia, e produce una cultura del risentimento che cerca nuovi stili, sia realisti che sperimentali, e tenta di riformulare un canone letterario.

    Nelle pagine che seguono il lettore troverà non certo una descrizione organica e ragionata dello stato delle due culture, quanto piuttosto un reticolo di fili più o meno sotterranei che nelle giornate di studio hanno rivelato una notevole capacità di dialogare, e che qui vengono riproposti nell’apparente disordine del passaggio da una cultura all’altra. Temi, figure, conflitti, nuovi territori, antiche eredità: dal panorama londinese di rovine e progetti descritto da Paola Colaiacomo che individua negli anni ’50 i ricettori naturali di perpetue rivisitazioni e resuscitazioni, alla retorica dell’immaginario bellico inglese di Wilfred Owen e al suo rovesciamento orwelliano, messa a fuoco da Alessandra Marzola; dal tema della colpa nell’opera di Hans Erich Nossack analizzata da Elena Agazzi, al ruolo del nucleare come momento della costruzione identitaria britannica nel saggio di Francesca Guidotti. La rilettura di Kingsley Amis da parte di Francesco Marroni ha messo in luce un importante rifiuto delle nostalgie vittoriane che serpeggiavano nella cultura letteraria degli anni ’50, mentre Lucia Perrone Capano ha analizzato le forme del realismo romanzesco in Alfred Andersch e Wolfgang Koeppen. Flaminia Nicora ha individuato nei romanzi di Andrea Levy, giamaicana e black British, un inconsueto sguardo identitario sul dopoguerra inglese, Eva Banchelli ha ricostruito le scelte significative operate dal Premio Georg Büchner a partire dal 1951, e Anna Enrichetta Soccio ha letto nella poesia di Philip Larkin il costante tema del fallimento. Ulrike Bőhmel ha individuato in Marie Luise Kaschnitz e Luise Rinser i due nomi più significativi del romanzo femminile tedesco degli ani ’50, e Ursula Bavaj ha ricostruito l’icona della ragazza Rosemarie, corpo e testo, amore e morte, nella puritana e bigotta BRD adenaueriana. Valerio Viviani ha colto in un romanzo di Josephine Tey una disposizione postmoderna nei confronti della storia che parte dagli anni ’50, e Benedetta Bini ha individuato nella marginalità di Colin MacInnes la voce più capace di descrivere i nuovi abitanti della Londra post-bellica.

    Non essendo tedesco non ho mai letto Shakespeare, dichiara il protagonista in Time Must Have a Stop (1945) di Aldous Huxley. Il paradosso sarcastico fa pensare, e getta luce, proprio negli anni della guerra, sul nodo complesso che stringe insieme le due culture: quella dei vincitori e quella dei vinti procedono parallele e cercano una nuova vita fra le macerie che la guerra si è lasciata dietro. Si osservano? Si temono? Riescono a riafferrare il filo che le ha tenute legate prima della catastrofe? Paola Del Zoppo ha analizzato la ricezione della letteratura tedesca in Inghilterra nel dopoguerra, e Cettina Rapisarda si è concentrata sulla figura di Michael Hamburger: traduttore, mediatore culturale, saggista.

    Last but not least, Michele Colucci ha individuato nel fenomeno massificato dell’immigrazione in Gran Bretagna nel dopoguerra un grande cantiere di elaborazioni identitarie.

    I tre giorni che hanno visto dialogare in maniera intensa e incuriosita gli storici della cultura e della letteratura sono stati un’esperienza che non può – e non sarà, mi auguro – abbandonata. Questo volume è il primo capitolo di una esplorazione che, sulla scorta di un rinnovato interesse critico per gli anni ’50, faccia emergere il sommerso e riannodi alcuni fili importanti di una riformulazione culturale e antropologica che illumina, anche, il percorso dei decenni successivi in entrambi i paesi.

    Non posso chiudere questa breve pagina di presentazione senza ricordare l’entusiasmo e la generosità di Ursula Bavaj. Collega e amica – accade ancora, qualche volta, che i due termini riescano a stringersi insieme – la cui scomparsa improvvisa ha lasciato un vuoto con cui mi è quasi impossibile fare i conti.

    Benedetta Bini

    Londra tra memoria del presente e attualità del passato

    di Paola Colaiacomo

    Le osservazioni che seguono nascono dalla nostalgia, del tipo di quella che Appadurai definirebbe immaginata, per aspetti ed eventi della Londra dei primi anni Cinquanta, da me appena intravisti nella fase adolescenziale del mio rapporto con quella città, quando il piacere della deriva urbana – che avvertivo già distintamente pur non conoscendone il nome - mi guidava più verso una Mayfair dove l’eco dei passi di Oscar Wilde non si era ancora spenta, che verso il territorio off limits dell’East End. Ma si dà il caso che la mia nostalgia di oggi sia attivata da immagini di luoghi ed eventi legati a quella porzione di città, còlta in un momento in cui la sua attuale riabilitazione, e conseguente rampante gentrificazione, era di là da venire. Mi chiedo se questo mio consumo ansioso del passato come un presente che mi sia appena lasciato sfuggire di mano non sia che un effetto di subliminali messaggi pubblicitari: dopo tutto l’East City è in questo momento la zona più trendy della città. È la nuova Camden, la nuova Chelsea, la nuova Carnaby Street. E forse proprio perché assurta a paradiso dei nuovi consumi - del cibo, dell’abbigliamento, dell’abitare - vi sono scrittori come Monica Ali e Iain Sinclair, i quali si dedicano con successo a rievocarne l’atmosfera fervida e deprivata di mezzo secolo fa.

    Tuttavia è un fatto innegabile che gli anni Cinquanta e Sessanta l’ansia della revisione la portano con sé: al livello del design, della moda, degli stili di vita e delle narrazioni fictional cui quegli stili stessi hanno dato e continuano a dare vita. In un’atmosfera da back to the future, il desiderio di nuovo che caratterizzò gli anni di quel lungo dopoguerra assunse i tratti di un radicale recupero di aspetti del passato socialmente svalorizzati, e quindi percepiti come arcaici. Il cinema neorealista promosse esemplarmente questa sensibilità binaria al tempo e alla storia, che cinquant’anni dopo sarebbe apparsa come il più significativo lascito antropologico e il vero mutamento epistemico della, a rigor di calendario, breve fase storica compresa tra la fine della guerra e lo spegnersi delle ultime luminarie della swinging London.

    Esemplare è il caso della moda. La tendenza a cancellare dal presente ogni traccia di passato, a sentirsi a tutti i costi nuovi, si afferma all’indomani dalla fine della guerra. Si pensi al New Look di Christian Dior: bastò che Carmel Snow, editor-in-chief di Harper’s Bazaar, dopo la storica sfilata del ’47, esclamasse It’s such a new look!, perché l’etichettatura fosse pronta. La moda è nuova per definizione, ma nel 1947 quel New voleva dimostrarsi più forte del vecchio che pure non poteva trattenersi dal chiamare in causa. A scongiurarne la fragilità, il nuovo venne perciò mantenuto dentro il nome dello stile: nome pervicacemente anglofono - a riprova del vigore espansivo di quella foné – a dispetto dell’origine che più parigina e continentale non sarebbe potuta essere.

    Una percezione binaristica del tempo si era affermata come vero e proprio schema cognitivo nell’intervallo compreso tra l’ottimismo del Festival of Britain, del 1951, e lo stabilizzarsi del modello consumistico ispirato alla swinging London, per alcuni anni il maggiore articolo d’esportazione dalla Gran Bretagna verso l’Occidente, prima che la protesta studentesca e intellettuale del Sessantotto, e le ombre plumbee degli anni Settanta, lo appannassero, evidenziandone la fragilità, fino a ritrovarlo degradato negli odierni souvenir basso-turistici. È per via di questa mutata sensibilità al tempo che gli anni Cinquanta e Sessanta, prima di essere ispiratori di vintage, furono essi stessi vintage. Il gene del vintage lo portarono scritto nel proprio DNA, e questa loro natura ne fa i ricettori naturali di perpetue rivisitazioni e resuscitazioni, dal centro alla periferia dell’Impero. Insomma, se quei decenni sono diventati sempre più necessari, è perché man mano che ce ne siamo allontanati abbiamo imparato a riconoscere in essi la scena primaria del mondo vintage che oggi trionfa con l’avvento del digitale, dove fare storia è emozionante restyling di se stessi: vivificati dalla tecnologia, i vivi archivi della memoria si aprono spontaneamente alla frammentazione, alla stratificazione, al montaggio, al collage, alla replica, che ne consente il computer.

    Nel 2010 si è sentito il bisogno di replicare sul luogo dell’origine, e sotto lo stesso titolo - This is Tomorrow - una mostra di documenti e materiali d’archivio, oltre che di alcune opere originali, relativi alla storica mostra che nel 1956 l’Independent Group organizzò presso la Whitechapel Art Gallery, all’epoca porta d’ingresso dell’East End deprivato e multietnico. E se, come è ampiamente riconosciuto, This is Tomorrow segna l’atto di nascita della pop art britannica del decennio successivo, nonché il passaggio decisivo verso l’ideale di un’architettura soft, coincidente con la pratica dell’abitare, e dunque d’impatto distruttivo sulla durezza monumentale della città, allora forse potrebbe essere un’emozione di tipo gassoso, una irrequietezza digitale - insomma qualcosa di più che una semplice risposta alla pubblicità - quella che oggi mi prende al pensiero di aver attraversato un’altra Londra: nella quale mi sarò sicuramente imbattuta, senza riconoscerla, in una finestra simile a quella che mi affascina nella fotografia di Nigel Henderson, Sgraffiti on a Window; alla frustrazione di aver quasi certamente posato il mio sguardo ignaro su qualche piccolo patio, o cortiletto da abitazione operaia, del tipo di quello dal quale lo stesso Henderson, assieme a sua moglie Judith e allo scultore d’origine italiana Eduardo Paolozzi – costituitisi, assieme agli architetti Alison e Peter Smithson, in Group 6, dei dodici dei quali This is Tomorrow constò - ricavarono Patio & Pavilion, l’installazione che costituì il loro contributo a quella mostra. Voglio dire che questo mio riportarmi, idealmente, al grande asse stradale di Bethnal Green – con il quale foto e installazione hanno a che fare - potrebbe non essere solo una rivisitazione consumistica di quei luoghi, bensì una tardiva risposta alla creatività che ne è irradiata fino a ieri. Non fu a Bethnal Green che Sarah Lucas e Tracey Emin aprirono negli anni Novanta il loro Negozio, The Shop?

    Nel 1956 il Group 6 presentava la propria installazione con queste parole:

    Patio & Pavilion represents the fundamental necessities of the human Habitat in a series of symbols. The first necessity is for a piece of the world (the patio) the second necessity is for an enclosed space (the pavilion). The two spaces are furnished with symbols for all human needs.

    Nel 2012 l’architetto londinese David Chipperfield, direttore della XIII Biennale veneziana di Architettura, intitola l’evento Common Ground, con ciò intendendo orientare i diversi contributi verso tematiche riguardanti la continuità, il contesto e la memoria, verso influenze e aspettative condivise, nonché stimolare una possibile reazione alle prevalenti tendenze professionali e culturali del nostro tempo che tanto risalto danno alle azioni individuali e isolate. Ad accomunare questa ricerca odierna con quelle del passato è l’interesse per le radici comunitarie dell’abitare, e l’interpretazione della città come territorio naturale - ground - di questo radicamento.

    La visione dell’abitare quale emergeva dai lavori di Henderson e del Group 6 precedeva di qualche anno la pubblicazione dello studio di Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities (1961), libro rappresentato anche nelle installazioni veneziane del 2012. È importante tenere a mente che la Londra dei primi anni Cinquanta, ancora immersa nell’atmosfera del dopoguerra, è effettivamente sospesa tra vita e morte. Non è certo la swinging London, della quale le prime avvisaglie si ebbero intorno al 1955, con l’apertura dei primi negozi di abbigliamento apertamente confrontational: Bazaar, di Mary Quant, e soprattutto la boutique di intimo maschile – con tutte le possibili anche se soppresse sfumature gay - di Vince in quella che divenne Carnaby Street, e che allora era solo una stradina appartata, nascosta dietro il grande flusso di Regent Street. In quel momento era la televisione il vero agente di rottura delle convenzioni separate dell’abitare. L’incoronazione della regina Elisabetta II (1952) era stata il primo evento televisivo a diffusione nazionale: sulle città ancora sofferenti per le restrizioni post-belliche, il fasto regale aveva diffuso il suo pulviscolo elettronico, immateriale, pixellato. Ma, prima ancora, è l’edificio stesso entro il quale la solenne cerimonia ha luogo - l’Abbazia di Westminster, pregna di simbolismi secolari – a liquefarsi in vissuto quotidiano, in narrazione, in saga metropolitana: quale sarebbe tornata ad essere per il funerale della principessa Diana, e più recentemente per le nozze di William e Kate.

    Che quello della smaterializzazione delle convenzionali pareti domestiche fosse il messaggio che il Group 6 intendeva trasmettere, era confermato dall’altro loro exhibit: una fotografia nella quale si vedevano Nigel Henderson, gli Smithson e Paolozzi in mezzo alla strada di un quartiere residenziale, tranquillamente seduti su sedie disegnate da Charles e Ray Eames. Sedie, scrissero gli Smithson, che contenevano un nuovo stile di vita. La scelta di collocarle in mezzo alla strada – nemmeno sul marciapiede – fu una sottolineatura forte del trattamento della strada come interno domestico. The highlight of the catalogue – scrisse un anonimo recensore della mostra – is a double spread of the Smithsons, Paolozzi and Nigel Henderson, playing sit-down Za-Za in an east-end street, or perhaps it is in Chelsea.

    Nell’agosto del 1956 questa spinta letteralmente groundbreaking, si esercitava ancora tra la durezza dei materiali architettonici, e l’immaterialità dello sguardo prototelevisivo ormai appannaggio dei viewers, oltre che dei professionisti dell’architettura. Non a caso This is Tomorrow, pur conservando un impianto concettuale perfettamente architettonico, era già il frutto della collaborazione tra scultori, pittori e architetti, e proprio per questo suo ibridismo fu accolta inizialmente con non poche riserve. Dagli spazi non amplissimi della Whitechapel Art Gallery artisti e intellettuali come, tra gli altri, Theo Crosby, Richard Banham – il quale finì poi per esprimersi negativamente sull’evento – Laurence Alloway, Richard Hamilton si interrogavano e soprattutto interrogavano il pubblico, sugli spazi idealmente sconfinati della spettatorialità. Cambiava per sempre il concetto di spazio espositivo, che da frontale si faceva avvolgente, tutto intorno a te: era spazio pittorico ma anche domestico, architettonico ma anche mediatico. In questo senso Laurence Alloway scrisse che la mostra voleva essere soprattutto una lezione di spettatorialità: a lesson in spectatorship. Come dinanzi all’apparecchio televisivo il visitatore era incoraggiato a trasformarsi in spettatore, anzi in viewer, a immergersi in quello spazio che, pur estraneo, assumeva la maschera del domestico e del familiare.

    Gli angeli nuovi usciti dalla guerra sapevano come abbracciare in un unico sguardo carico d’aspettativa presente e futuro, rovine e progetti. In questo senso This is Tomorrow, era una formula perfetta. Il domani si appiattiva sull’oggi: su quel this, che visto dalla prospettiva del domani era già un passato. Il presente smetteva di scivolare tra le dita, e si faceva apprensibile nel segno del ritorno e della ripetizione. Ma naturalmente dovevano passare molti anni prima che il leggero spaesamento del titolo fosse percepito come uno scatto evolutivo della sensibilità. Ciò non toglie che, in quelle prime, contingenti prove di full immersion, la memoria si arricchisse di un passaggio evolutivo. Il regime del ricordo cedette il passo all’attivazione dolceamara della personale vertigine in cui andava a depositarsi l’esperienza vissuta. La pratica televisiva era còlta un istante prima che la sua diffusione su scala totale prendesse il sopravvento sui media comunicativi tradizionali. Iniziava il lungo cammino verso gli schermi elettronici, che avrebbero addirittura azzerato l’intervallo fra essere e essere stati. Oggi è esperienza comune, che tutti facciamo quotidianamente, quella di arrestare e far ripartire a piacere il flusso delle immagini digitali.

    Questa capacità di doppio sguardo – presente e passato insieme - trasmessaci dagli anni 50 ebbe, in This is Tomorrow, il suo dress rehearsal. Altri eventi limitrofi, pur grandiosi come il Festival of Britain (1951), si svolsero invece all’insegna della mera celebrazione. Rimasero cioè dentro l’ordine di un tempo convenzionalmente lineare che, rivolto a un futuro pronosticato come progresso, sembrava avere soprattutto a cuore di lasciarsi dietro le spalle il presente. Di liberarsene una volta per tutte. La stessa architettura supermoderna della Royal Festival Hall, costruita per l’occasione, era un inequivocabile segnale di ripresa creativa nel senso futuristico ulteriormente accentuato dalle costruzioni avveniristiche ed effimere che marcarono il territorio del Festival. Come lo Skylon, disegnato dagli architetti Powell e Moya, struttura aghiforme che, vista a distanza, sembrava fluttuare nello skyline della South Bank, ma in realtà era ancorata al suolo da un ingegnoso sistema di cavi d’acciaio in tensione, denominato tensegrity. O come il Dome of Discovery, poi rievocato dal Millennium Dome del 2000. Anche l’anno prescelto per il Festival, il 1951, faceva l’occhiolino alla Great Exhibition del 1851, così ricollegandosi allo spirito trionfalistico delle Grandi Esposizioni.

    I grandi spazi affacciati sul fiume dovettero comunicare ai visitatori una sensazione di potere, e di confortevole libertà tra la folla. Ma a riattraversarli nel maggio del 2011, quando, in occasione del sessantesimo anniversario, il Festival ha avuto la sua rivisitazione, puntualmente celebrata on location, quegli stessi spazi davano un senso di vacuità magniloquente. Ad essere comunicato era uno sguardo sul passato altrettanto unidimensionale di quello dell’evento originario, sicchè l’allestimento assumeva i tratti di un ingenuo e compiaciuto come eravamo. Vi erano esposti i documenti ufficiali, le testimonianze fotografiche, le carte di famiglia dei testimoni oculari: un bambino che al Festival c’era stato portato dal padre aveva conservato tra i più cari ricordi d’infanzia il programma dell’evento, assieme alla straordinaria fotografia che lo ritraeva in calzoncini corti. Si aveva l’impressione di essere di fronte a un ripescaggio di oggetti démodé, a un’esposizione di cimeli realizzata in perfetto, pretelevisivo spirito antiquario. Anche se, come pensavo aggirandomi per le grandi sale, quella di un futuro indefinitamente progressivo doveva essere una fiction anche nel 1951, così che forse gli organizzatori della celebrazione attuale – lavorati, come tutti noi, dal gene della post-production – avevano finito col riproporre, involontariamente, il tratto di sballo temporale dell’evento originario. Il fatto è che il lungo addestramento alla complicità tra passato e presente si è sedimentato oggi in una nuova qualità di memoria: tutto, anche il passato, deve apparire Now, pena il non apparire affatto. Questa qualità onnivora del presente fa deflagrare la continuità della storia, trasformandoci tutti in poenziali collezionisti. Lo si è visto con il Giubileo di Diamante che, a sessant’anni dall’incoronazione del 1952, si è tradotto in una ennesima scossa galvanica per la Città: vissuto come memoria di se stesso, il presente si è piegato a fare da giacimento di ricordi, trasformandosi in risorsa tanto effimera quanto inesauribile per l’industria del turismo dei souvenir.

    In Sgraffiti on a Window, come pure in Patio & Pavilion, la banalità del presente aveva assunto la forma del vintage già in prima istanza. Lo sguardo nasceva come insieme nostalgico e oggettivo: era anzi questa capacità di doppio sguardo a conferire interesse site-specific alla ricognizione di ambienti immaginati. Erano le prime prove di quella che sarebbe diventata psicogeografia metropolitana, gli antefatti del romanzo-documentario di Iain Sinclair e Rachel Lichtenstein, Rodinsky’s Room (1999), ricognizione affascinata dei mille intrecci etnici e urbanistici intercorrenti tra Brick Lane, Fournier Street, Valance Street e dintorni. Tutto questo lavorio sulla città, al quale la Biennale veneziana del 2012 torna a guardare, ebbe il suo terreno di coltura nell’East End londinese, su quella porzione di territorio che accolse le eleganti architetture arts and crafts della Whitechapel Art Gallery, progettata dall’architetto Charles Townsend e aperta nel 1901. Destinata a svolgere attività educative verso le classi popolari, nel 1939 la Galleria aveva ospitato, in segno di protesta contro la guerra spagnola, Guernica di Picasso, prima apparizione su suolo britannico di quel dipinto numinoso.

    Con This is Tomorrow penetrava nella cultura popolare – la mostra ebbe circa mille visitatori al giorno, un’enormità per i tempi - la fantasmagoria nuovo-vecchio-nuovo alla radice della cultura popche dominerà il decennio successivo. Anche se indirettamente, e spesso con intenti denigratori, i contemporanei colsero l’anomalia di questo trattamento – in senso cinematografico - del tempo

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