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Disperazioni metropolitane
Disperazioni metropolitane
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E-book166 pagine2 ore

Disperazioni metropolitane

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Info su questo ebook

I racconti del presente libro sono tratti da storie vere. In essi ho voluto far sulla solitudine interiore di alcuni protagonisti, sullo squallore e sulla miseria morale e materiale di alcune realtà milanesi tra la fine degli anni '90 e i primi anni del nuovo millennio, attraverso lo sguardo disilluso e cinico del personale di pattuglia dei carabinieri. Il fine è quello di raccontare di realtà crude e durissime in cui si narra di stupri, morti, abusi sui minori e violenze di ogni genere. I racconti vi faranno vivere in prima persona fatti assurdi, struggenti in cui la droga e l'alcolismo fanno da cornice a vicende che riguardano pedofili, prostitute, criminali e violenti.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2021
ISBN9791220335737
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    Anteprima del libro

    Disperazioni metropolitane - Dario Carmana

    T.

    I TRE PACCHI

    Massimo detto Max aveva quarant’anni, la carnagione leggermente olivastra, il volto pieno di rughe comparse in vent’anni di pattuglia, turni interminabili, orari notturni che si prolungavano fino alla tarda mattinata o al pomeriggio. L’anima dell’uomo era consumata e rigurgitava di tutte le brutture cui assisteva a ogni richiesta di aiuto del cittadino.

    Era a contatto sempre con situazioni problematiche, difficili, esasperate, esasperanti, irrisolvibili e, nella sua rassegnazione nello svolgere un lavoro in cui non credeva più o forse non aveva mai creduto fino in fondo, si era convinto che parte di quella sozzura gli rimanesse appiccicata fino a provocargli lunghi periodi d’insonnia e d’instabilità interiore.

    Era considerato dai suoi colleghi un tipo bizzarro e asociale ma un capopattuglia affidabile; in realtà aveva una leggera forma di nevrastenia. Non ne poteva più del servizio di perlustrazione che per molti anni aveva amato, ma allo stesso tempo non si decideva a chiedere il trasferimento a un altro incarico. Andare via? si domandava, e per dove, per fare cosa?

    In passato aveva avuto la possibilità di svolgere un lavoro d’ufficio con un incarico di tipo amministrativo: gli era stato chiesto, cinque anni prima, se gradisse il trasferimento alla Sezione Disciplina. Cercavano un militare con il diploma di maturità classica o scientifica. Massimo aveva quest’ultima.

    Avrebbe smesso di lavorare di sera, di notte, nei giorni festivi; niente più turni e soprattutto niente più rischi. I vantaggi erano innegabili. Al colloquio con il comandante della Sezione Disciplina aveva senza alcuna esitazione risposto, in modo garbato e marziale, che non gradiva quell’incarico. Era stato fermo nel diniego.

    L’idea di dover passare il resto della propria carriera rinchiuso in un ufficio l’innervosiva. Conosceva alcuni colleghi che da anni lavoravano in amministrazione e riteneva che fossero dei rincoglioniti, delle persone invecchiate precocemente. I loro discorsi perlopiù vertevano sul futuro trattamento delle pensioni, sul rinnovo del contratto di lavoro e sulla qualità del cibo in mensa. Con disprezzo li chiamava bradipi.

    La seconda e ultima occasione si era presentata l’anno prima. Un collega, prossimo al congedo, che comandava un nucleo comando, gli aveva offerto la possibilità di sostituirlo. Al diniego di Massimo, il maresciallo gli aveva detto: Non sei stufo dei turni, dei rischi, della melma in cui nuoti ogni qualvolta esci di pattuglia? Puoi essere utile anche qui al mio posto. Farai una vita più tranquilla e regolare.

    Il vecchio e astuto maresciallo con un lungo discorso era stato persuasivo ma Massimo aveva rifiutato, più per stupido orgoglio che per reale convinzione. Aveva sempre disprezzato i bradipi e ora accettava di diventarne il capo? No, non poteva. Aveva rifiutato ma se ne era pentito quasi subito.

    2

    Durante il servizio di pattuglia interveniva nelle liti in cui il marito di turno non si rassegnava al cestino di corna che la moglie gli aveva posto sulla testa oppure in altre in cui le donne e i bambini erano maltrattati, percossi e ingiuriati o in altre ancora in cui i figli drogati erano gli aguzzini dei propri genitori.

    Poi c'erano le risse, i furti di ogni genere, le rapine, gli stupri, i morti ammazzati e i suicidi. Le liti famigliari erano ormai per lui insopportabili; in esse ogni coniuge pretendeva di essere assolutamente nel giusto. Marito e moglie, costretti a vivere sotto lo stesso tetto, si schifavano e si odiavano. I loro dialoghi, simili a dei latrati, erano generati da un forte esaurimento che sfociava spesso nella follia, nella depressione, nella violenza e, a volte, anche nella morte di uno dei due.

    Quando Massimo riceveva via radio dalla centrale operativa l’ordine di recarsi nel posto tal dei tali perché era in corso una lite famigliare, bestemmiava e malediceva Dio, Gesù Cristo e tutti i santi. Preferiva gestire situazioni più pericolose quali ad esempio le rapine e le risse piuttosto che scontrarsi con le nevrosi di coppie fallite, scoppiate, esauste.

    Sperava che quella notte d’inverno, umida e nebbiosa, nella periferia sud di Milano scivolasse via tranquilla.

    Al contrario Carlo, pilota di quella pattuglia, con tutto il vigore, la forza e l’atletismo dei suoi vent’anni, considerava il quartiere da perlustrare un territorio di caccia; osservava con piccoli movimenti della testa e degli occhi tutto quello che potesse destare sospetto. Voleva controllare i pregiudicati, perquisire e arrestare i criminali. Massimo gli aveva detto in più di un’occasione: Ero come sei tu ora, sarai come sono io adesso, perché sapeva che quel vigore, quello slancio verso il rischio e l’adrenalina si sarebbero esauriti nel giro di qualche anno.

    Carlo a quell’affermazione rispondeva con una smorfia. Pensava che quelle fossero delle stupide parole pronunciate da un vecchio alcolizzato. Anche se Massimo da anni si presentava in servizio sobrio, Carlo era convinto che fosse ancora un ubriacone e, comunque, un perdente. Nonostante queste considerazioni si fidava di Massimo. In quella notte d’inverno uno pensava al proprio territorio di caccia, l’altro alla prossima bottiglia di vino che avrebbe ingollato a casa, a fine turno.

    Dopo quattro ore di servizio Massimo aveva sonno, il proprio fisico e la propria mente, logori per quel tipo di lavoro, erano intorpiditi.

    Carlo lo notò e disse: Mi sembri un po’ stanco Max o sbaglio?

    Massimo dopo aver sbadigliato: Sono stanchissimo, da qualche settimana dormo male. E’ come se prima d’iniziare il servizio notturno qualcuno mi avesse staccato la testa e l’avesse infilata nella centrifuga della lavatrice. Carlo sorrise all’idea della testa di Massimo che con gli occhi sbarrati turbinava nella lavatrice.

    Massimo dopo un altro sbadiglio: Hai saputo di Franco?

    Carlo: Franco chi?

    Il collega della terza sezione, quello che è qui dagli anni ’70.

    Eh, cosa gli è successo?

    Dopo trent’anni di turni, gli è venuta l’insonnia. Inizialmente rimaneva sveglio a casa e si addormentava in servizio, poi ha smesso di dormire. So che è andato fuori di testa, è impazzito. La mancanza di sonno gli ha causato un forte esaurimento. Va dallo psicologo e prende dei farmaci.

    Mah! Ha più di cinquant’anni. Cazzo, i vecchi devono essere messi in ufficio. Superata una certa età il loro posto è quello, punto e basta.

    Quest’ultimo commento non era piaciuto a Massimo il quale era sì convinto che quello fosse un lavoro adatto ai giovani e ai giovanissimi ma era altresì certo che questi avessero bisogno di una guida attempata che ne mitigasse gli eccessi e ne tenesse a freno l’esuberanza senza tarparne le ali.

    3

    Alle ore 04.20 sulla via Ripamonti, Carlo vide davanti a sé l’autovettura Ford, modello Escort, di colore scuro, targata TO-G82442; decise istintivamente di controllarla. Entrambi i mezzi percorrevano la via a bassa velocità. Carlo lampeggiò per far capire al conducente del mezzo che doveva fermarsi. Quest'ultimo accelerò volendo sottrarsi al controllo. L'Alfa 155, con la bella scritta Carabinieri, inseguì il veicolo con i lampeggianti e la sirena attivi. Massimo informò la centrale operativa e dettò il numero di targa. Il mezzo inseguito era rubato. Il capopattuglia comunicava le vie che percorrevano.

    Altre pattuglie convogliarono nel territorio di caccia di Carlo. Alla prima rotonda l’autovettura Ford Escort sbandò leggermente ma continuò a fuggire. Carlo era concentrato; gli piaceva inseguire le autovetture rubate e competere con altri piloti. Dopo un lungo rettilineo, in prossimità di un’altra rotonda, l’autovettura Ford Escort sbandò vistosamente ma continuò a voler fuggire. Carlo affermò: Non vanno lontano. Si era reso conto che il conducente del veicolo rubato aveva una guida pessima e che ben presto si sarebbe fermato o schiantato.

    Lo schianto dell’avversario gli dava sempre una sadica, piccola e sottile gioia amplificata dall’adrenalina.

    Improvvisamente il mezzo inseguito arrestò la marcia. I due militari si aspettavano che gli occupanti del mezzo fuggissero a piedi oppure che riprendessero a tutta velocità la fuga o peggio che li aggredissero.

    Niente di tutto ciò accadde. Gli occupanti del mezzo non fuggirono né a piedi né in macchina. I due carabinieri si avvicinarono rapidamente, Massimo intimò agli occupanti di mettere le mani in vista ma con stupore si accorsero che sul mezzo vi erano tre bambini.

    Nel cilindro di accensione era inserito uno spadino. Massimo brontolò: Minchia-cazzo, che ci facciamo con ‘sti tre, è una rogna, un cazzo nel culo. Il capopattuglia capì che avrebbe finito di lavorare tardi: l’affidamento dei minori richiedeva sempre molto tempo. Pensava alla sbronza che avrebbe rinviato, a quelle belle bottiglie di Nero d’Avola che l’aspettavano nell’armadio della cucina. Non bere subito dopo il turno di notte lo rendeva nervoso, facile alle bestemmie e lo spingeva poi a bere di più.

    I bambini furono identificati in Brambilla Michele (alla guida), nato a Milano, di anni dodici, quello sul lato passeggero anteriore in Berisha Artian, nato a Milano, di anni dieci e il più piccolo, di anni otto, in Nabil Mohamed, anch’egli nato a Milano. Nel frattempo si era avvicinata un’altra pattuglia la quale avrebbe restituito il veicolo al proprietario.

    I bambini furono fatti sedere sul sedile posteriore dell’Alfa 155. Massimo chiese ai tre dove abitassero. Tutti dimoravano nella via Roma dello stesso quartiere malfamato di Milano, composto da edifici squadrati simili a caserme e fatiscenti.

    I due pattuglianti non chiesero ai tre perché fossero usciti da casa nel pieno della notte e dove avessero rubato l’autovettura; la risposta da parte di tutti era sempre la stessa: …Siamo andati a fare un giro…Abbiamo trovato l’autovettura aperta, in strada....

    Il bambino di otto anni, paffutello, era felice di essere su un’autovettura dei Carabinieri che sfrecciava veloce con i lampeggianti accesi i quali si riflettevano sulle vetrine dei negozi. Mohamed la viveva, da bambino, come un’avventura; come una di quelle fiabe che si leggono nei libri o si vedono in televisione. Gli altri due erano invece un po’ preoccupati per le conseguenze alle quali sarebbero andati incontro.

    Mohamed non riuscì più a tenere a freno la propria curiosità e chiese il funzionamento dei lampeggianti e delle sirene; il capopattuglia accese le sirene e il bambino al colmo dello stupore e dell’eccitazione fece un emozionato: Ooohhh.

    Massimo gli disse di venire davanti, con lui. Mohamed non se lo fece chiedere una seconda volta e, passato tra i sedili, si sedette sulle sue gambe. La pattuglia sfrecciava con i lampeggianti e le sirene per la gioia assoluta di quel bambino il cui cuore batteva talmente forte per l’emozione che avrebbe potuto esplodere per la felicità di un sogno realizzato. Pensava che fosse più bello del Luna park in cui era andato una volta; mancava solo lo zucchero filato. Egli avrebbe voluto che quel momento non finisse mai; era galvanizzato, i suoi Ooohhh erano un’ovazione.

    Massimo accarezzava le morbidissime guance del bambino. Carlo, senza togliere lo sguardo dalla strada, gli disse: Guarda il pulsante, quello nero e rosso, vicino al portacenere. Schiaccialo più volte.

    Mohamed guardò Massimo per avere il suo assenso. Il capopattuglia gli prese la piccola manina e l’appoggiò su quel pulsante: serviva ad attivare e spegnere le sirene. Il bambino, ebbro di gioia, saltellava con il corpo sulle gambe di Massimo e batteva le manine.

    4

    La pattuglia arrivò al civico n.3 di via Roma. Lì abitava la famiglia di Brambilla Michele.

    Dopo aver appreso che l’appartamento era al settimo e ultimo piano e che i citofoni non funzionavano, il capopattuglia decise di andare senza il ragazzo: voleva fare un sopralluogo iniziale, da solo. Michele gli aveva detto che non aveva mai conosciuto il padre e che a casa c’era la madre. Il bambino portava il cognome della madre.

    L’ampio portone condominiale era stato sradicato e portato via, le pareti avevano un colore simile al giallo-piscio. L’ascensore era guasto e Massimo dovette farsi tutti e sette i piani a piedi. Bestemmiò.

    Mentre saliva, provenivano dagli appartamenti pianti di bambino, musica di stereo ad alto volume e imprecazioni. Sbuffando sperava di poter finire il turno di servizio in orario per riabbracciare l’amata bottiglia di vino, di cui sentiva già la mancanza. Pensava che fosse una nottata di merda, in cui si era imbattuto in tre mocciosi figli di nessuno che lo separavano dall’alcool e dal meritato riposo.

    Pensava: "Lo sapevo, lo sapevo che Carlo si sarebbe infilato in qualche rogna con annessa rottura di cazzo. E’ bravo, è un bravo ragazzo ma porca puttana si va a scegliere sempre le situazioni più difficili. Devo tenerlo a freno. E poi si lamenta dei ‘vecchi’ dicendo che devono rinchiuderli

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