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La mosca sul Nepal
La mosca sul Nepal
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E-book189 pagine2 ore

La mosca sul Nepal

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Info su questo ebook

Thriller - romanzo (142 pagine) - Quando, quel giorno, quella mosca istigatrice si era posata proprio su quel punto del planisfero, Thomas non avrebbe mai immaginato che nel Nepal avrebbe finito col rischiare la vita.


Italia, 2006. Thomas è un giornalista di circa trent’anni. Vorrebbe operare in “Cultura & Spettacoli”, ma è da due anni sepolto in “Cronaca locale”, con non poche frustrazioni soprattutto per la caratura degli articoli che è chiamato a scrivere. Quando un moscone si posa su un planisfero, in ufficio, e zampetta sul Nepal, Thomas ha come un’illuminazione: una bella vacanza fai da te in Nepal, ecco cosa può dare una momentanea scossa positiva alla sua vita! Convince la compagna, arruola la sorella, coinvolge altri amici e amiche. Ed è così che, zaini in spalla, qualche piccola ansia ma anche tanta voglia di misurata avventura, partono per la loro esperienza di gruppo in terra esotica. Purtroppo, le cose andranno ben oltre i normali imprevisti di viaggio: perché, a un certo punto, sarà messa in gioco la loro stessa sopravvivenza.


Simone Carletti è un giornalista professionista. Ama viaggiare e conoscere la bellezza del mondo e di chi lo abita. Nato a Roma nel 1978, vive e lavora a Fiumicino. Dal 2009 scrive racconti, prediligendo il genere fanta-horror. Ha vinto diversi premi letterari di settore e ricevuto vari riconoscimenti (Premio Crawford, Premio Algernon Blackwood, Premio Polidori, Premio Giallo Mensa, solo per citarne alcuni). Ha pubblicato con diverse case editrici: Delos Digital, Nero Press, Alcheringa, Il Foglio, Watson Edizioni, Esescifi, LetteraturaHorror. Tra i suoi lavori, lo zombi thriller I bambini lo sanno e due reportage di viaggio: West Cuba in famiglia – L'isola ferma nel tempo e Il Paese degli estremi – Perù on the road in famiglia.

LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2022
ISBN9788825418927
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    Anteprima del libro

    La mosca sul Nepal - Simone Carletti

    1

    Osservavo il moscone da almeno quattro minuti.

    Me ne stavo praticamente immobile, roteando gli occhi a testa ferma. Più simile a un camaleonte pronto a proiettare la lingua, piuttosto che al giornalista impegnato a produrre l’articolo che ci si aspettava da me. Per fortuna, nessuno mi colse in quel momento di puro scazzo.

    L’insetto era grosso, anzi enorme. Appariva come una nespola marcita, cui avessero messo due ali e un motore rombante al posto del nocciolo. L’eco del ronzio risuonava per tutta la stanza e aumentava quando l’animale sorvolava la scrivania dov’ero seduto, la più vicina all’ingresso. Non si sentiva altro rumore, ad eccezione del lieve tremolio provocato dal vecchio condizionatore posto sopra lo stipite della porta, un arnese che avrà avuto minimo dodici anni e che dalle sue ventole non sputava altro che polvere e cimici. Il caldo torrido di fine luglio ne raccomandava comunque l’uso, e la morte per asfissia non era certo una delle mie priorità. All’improvviso, la mosca fece una deviazione nel suo percorso porta-lampadario-finestra, andata e ritorno, andando a sbattere sul vetro con un suono secco. Mi risvegliai dal mio torpore.

    Fuori l’afa doveva essere davvero insopportabile. La lingua bavosa del gatto soriano che potevo vedere in strada, accoccolato sul sedile della mia Vespa, era allungata in cerca di refrigerio. Saliva e scendeva con un ritmo frenetico. Il micio, esausto, pareva leccasse il più grande gelato d’aria del mondo.

    Decisi di alzarmi. In tre ore non avevo combinato nulla e mancava poco tempo alla chiusura del giornale. Mi toccava scrivere un pezzo di seimila battute sull’avvio della Fiera Sposa, la più importante della capitale per tutto l'anno in corso, il 2006, almeno a giudicare dal battage pubblicitario che da giorni tormentava giovani donne romane impazienti di mettere l’anello al dito. Dire che l’ispirazione latitasse appariva ben più che un eufemismo. La mia vena creativa era in letargo, la fantasia morta e il cervello con già indosso i bermuda, intento a sorseggiare Margarita su una spiaggia al tramonto.

    L’unica soluzione era il caffè, valanghe di caffè, una doccia di chicchi scuri e dall’aroma inconfondibile, dritti nella gola.

    – Thomas?

    Era Sabrina, il mio caporedattore, che chiamava. E non avevo ancora svoltato l’angolo del corridoio per raggiungere la macchinetta.

    – Thomas, non crederai di avere il tempo di prenderti un altro caffè?

    Il tono non era dei più amichevoli. Per questo raggiunsi velocemente l’uscio della sua stanza. Si riconosceva tra mille per il puzzo di fumo che emanava.

    – Tra un’ora circa chiudiamo il giornale e devi ancora consegnarmi il pezzo sulla fiera. È l’apertura della pagina locale e devo pur avere il tempo di correggere le cazzate che scrivi.

    La sigaretta le pendeva dall’angolo destro della bocca, stretta tra due labbra grinzose coperte di rossetto. Indossava una giacca troppo stretta, color melanzana, orecchini e collana di perle. Il capello cotonato e gli enormi occhiali bianchi la facevano apparire come una di quelle dark lady hollywoodiane degli anni ’50, che tanto avevo apprezzato durante il mio corso di laurea in cinema. Il mio insegnante, il professor Cerretti, non faceva che mostrarci noir americani in bianco e nero, con pupe da sballo, volute di fumo e pistole. Sabrina non ricordava di certo una delle star più belle, del genere Veronica Lake o Lauren Bacall; piuttosto una Barbara Stanwyck ingrassata e invecchiata.

    – Sabri, dammi trenta secondi, ingurgito al volo la mia dose di caffeina, mi fumo una sigaretta e torno a scrivere.

    Abbozzai un sorriso, arma ruffiana che fa tanto sciogliere le donne. Beh, alcune donne. Intanto pensavo alla pagina bianca di Word sullo schermo del mio computer, al cursore che lampeggiava a vuoto e alle frotte di neo-sposine che tormentavano i propri mariti per andare a vedere una fiera di cui non m’importava nulla.

    – Ok, ma sbrigati. Non ho intenzione di fare tardi per colpa tua – chiarì il capo.

    Vicino alla macchinetta, una porta-finestra conduceva in un piccolo cortile, adibito ad area fumatori. Una cella a cielo aperto, grigia e sporca per i mozziconi, i bicchierini di plastica e le cartacce che ne decoravano il pavimento. Solo i più ligi al dovere tra i redattori ordinari la utilizzavano, io e pochi altri. Sabrina, come tutti i capi, vicecapi e affini, non era compresa nel gruppo. A loro era concesso fumare in stanza.

    – Certo che la Madre Superiora oggi ha davvero scocciato.

    Era Marcello Paolini, redazione sportiva, l’essere più amorfo che abbia mai conosciuto. Mi guardava con i suoi occhietti scuri, due fori neri come il catarro di un vecchio masticatore di tabacco. Purtroppo aveva voglia di chiacchierare e io ero l’unico essere umano nel raggio di cinque metri.

    – Cosa? – mugugnai, con disinteresse totale.

    Marcello incalzava, indifferente alla mia apatia.

    – Ma sì, Sabrina, la Madre Superiora.

    A lavoro la chiamavano così per la sua presunta astinenza sessuale, un dettaglio non certo voluto, ma da lei subito con non poca frustrazione. Almeno a sentire le voci di corridoio.

    – Sbraita da quando è arrivata: fai questo, fai quello, e scrivi e stampa. E poi quella voce gracchiante. Se fuma un altro po’ le scoppieranno i polmoni.

    Già non lo ascoltavo più. Era un ragazzo noioso e petulante. Sempre a lamentarsi, eppure così servile, riverente nei confronti dei superiori. Eravamo stati assunti al giornale insieme, all’incirca due anni prima, nell'estate del 2004. All’epoca avevo ventinove anni, lui trentaquattro. Io desideravo andare nella redazione spettacoli ed ero finito in cronaca locale; lui voleva la politica, si era accontentato dello sport.

    L’abito grigio chiaro buttava male sul suo corpo gracile. La taglia della giacca era chiaramente troppo grande e lo faceva sembrare una marionetta. Lo guardavo parlare, era un fiume di parole in piena. Nessuna fondamentale.

    La porta-finestra del cortile rifletteva la mia immagine e con la coda dell’occhio mi fermai a osservare. Anche io apparivo goffo nel mio abito blu scuro, con la cravatta fina e le scarpe laccate. Anch’io ero un trentenne magrolino e di media altezza, un giovane giornalista di belle speranze ma dai mediocri risultati, incastrato in un ruolo che non mi si addiceva, a scrivere su eventi di scarso interesse, per un pubblico annoiato e distratto. Mi sentivo un puledro di razza rimasto azzoppato alla prima corsa, l’anti-Varenne del giornalismo. Cosa mi distingueva da Marcello? Certo, io amavo viaggiare, conoscere il mondo, confrontarmi con culture diverse, aprire la mia mente e arricchire gli occhi con immagini sempre nuove, ed ero costretto in quattro mura a consumare la vista davanti al pc per scrivere sul nulla. Marcello invece era un ragazzo semplice, per non dire banale, tutto casa e lavoro, senza amici e con poca voglia di varcare nuovi territori, per paura di perdere l’orientamento, le sue sicurezze quotidiane. A lui bastavano le sue otto ore quotidiane a scrivere di pallone per un giornale di terz’ordine. Ecco cosa ci differenziava.

    Le mie dita sfioravano con timore i pulsanti della tastiera del computer, quasi avessero paura di premere un detonatore e far esplodere una bomba attaccata alla sedia sotto il mio culo. Almeno il titolo l’avevo scritto: Roma s’illumina di Sposa. Non avrei vinto l'edizione 2006 del Premio Pulitzer, questo era certo, ma sarebbe andato bene a quella simpaticona della Madre Superiora. La mia collega di stanza, Daniela, se l’era data a gambe col marito e i tre figli per due settimane. Già me la immaginavo sguazzare nelle acque cristalline di Creta abbracciata al marito, mentre la prole inseguiva una mega sfera di plastica con su stampato il globo terrestre, uno di quei giochi intramontabili che rallegrano le vacanze estive dei bimbi di mezzo mondo. Eravamo dunque soli nella stanza, io e il vecchio condizionatore sputacchia-cimici.

    Stavo per digitare la prima parola dell’articolo, quando un’ombra interruppe la mia già scarsa concentrazione. Era il moscone che aveva deciso di farsi il bidet sopra lo schermo del mio computer. A guardarlo bene faceva impressione. Gli occhi occupavano gran parte del muso ed erano di un colore rosso rubino. Da qualche parte avevo letto che in realtà i bulbi oculari degli insetti sono composti da centinaia di occhi più piccoli, per cui mi sentivo come una bambolona fissata da un esercito di ragazzotti imberbi e allupati ad una festa di 18 anni. Il corpo era nero e peloso, le ali in proporzione molto grandi e le zampe anteriori non smettevano di sfregarsi l’una con l’altra. Non era un bello spettacolo, ma sempre meglio di un prete che strofina le mani prima di benedire l’ennesimo reo confesso.

    All’improvviso il moscone volò via. Lo seguii con lo sguardo. Volteggiava per la stanza, senza fretta. Pareva godere la frescura data dallo sbattere continuo delle ali. Non percorreva una traiettoria lineare né geometrica. Procedeva piuttosto in modo molto irregolare, deviando in continuazione, ad angoli retti. Alla fine decise di fare una sosta e puntò dritto sulla carta geografica del mondo che Daniela teneva dietro la scrivania. Dalla mia posizione non riuscivo più a vederlo. Per questo mi alzai e mi avvicinai alla mappa. L’insetto era andato ad appoggiarsi in un punto preciso del continente asiatico, tra il Tibet cinese e il nord dell’India. Con il suo corpo copriva quasi del tutto la scritta che indicava il nome di quello stretto Paese, nella mappa colorato di blu, che si estendeva per intero sulla linea della catena Himalayana. Il Nepal.

    Non ebbi esitazioni, tentennamenti. In un attimo era come se fosse tutto molto chiaro, disegnato da sempre. Quasi un messaggio. Qualcosa stava sviscerando un mio desiderio recondito, cancellando in un solo colpo molte delle mie frustrazioni.

    Andrò lì, pensai.

    E un attimo dopo gridai: – Andrò in Nepal.

    Prima però dovevo per forza terminare la mia pagina sulle spose romane o non avrei superato la notte, ucciso a randellate dalla Madre Superiora.

    2

    – Sei davvero convinto?

    Rebecca mi guardava con i suoi occhi verdi, mentre tagliava le zucchine per la cena. Vivevamo insieme da un anno e mezzo, e non mi era mai parsa tanto bella.

    – Andare in Nepal non sarà semplice, non si trova mica dietro l’angolo. Ci vogliono organizzazione, soldi e coraggio. E poi per quanto tempo? Da soli o in compagnia? E il lavoro? Non mi hai ancora spiegato la vera motivazione di questo viaggio. Anzi, non mi hai spiegato proprio nulla.

    Le domande si accavallavano sulla punta della lingua, lo potevo notare da come le tremava il labbro inferiore e dal mezzo sorriso che illuminava il suo volto. Non sapeva in realtà che non possedevo alcuna delle risposte. O quasi.

    – So che può sembrare una pazzia – dissi mentre Jones, il nostro gatto persiano, mi saltava in grembo per strappare qualche coccola. Le sue fusa avrebbero fatto tremare un esercito di topi in licenza premio nel giardino di casa nostra.

    – Forse è folle. Ma ragiona un attimo. Abbiamo entrambi trent’anni, siamo giovani e in salute. Ci piace viaggiare, conoscere il mondo, adoriamo farlo insieme. Qualche risparmio da parte lo possediamo e, per quanto riguarda il lavoro, io ho più di un mese di ferie, contando gli arretrati. Non possono rifiutarsi di mandarmi in vacanza. A maggior ragione se lavoro tutto il mese di agosto. Te invece puoi chiedere a Lori e Cristina di sostituirti al canile per un periodo.

    Rebecca gestiva da poco più di un anno un rifugio per cani abbandonati, insieme a due amiche del liceo. Aveva sempre amato gli animali, tanto da aver trasformato quel sentimento in una professione. Gli affari non andavano al meglio e le ragazze pensavano già da qualche mese di convertire La cascina di Lori, dal nome della vera responsabile del progetto, in una sorta di allevamento/campo scuola/Club Mediterranee per cani. Così da assaltare le tasche di facoltosi cinofili in cerca di badanti per i loro compagni a quattro zampe, quando i signorotti fossero stati costretti ad assentarsi per lavoro, vacanze, puntate al bingo o salutari bagni di fango alle terme.

    – Non so Thomas. L’idea mi affascina e spaventa, non lo nascondo. Ho però il presentimento che possa essere un’avventatezza. Una delle tue solite pazzie.

    Rebecca aveva terminato di sminuzzare le verdure e adesso mi guardava fisso negli occhi. Con quel coltello affilato in mano e il ciuffo di capelli neri appiccicato alla fronte sudata, sembrava la protagonista di un filmaccio horror di serie Z, qualcosa del tipo La vendetta della cuoca sanguinaria o La notte che Thomas morì. Avrebbe fatto tremare persino la Vernita Green di tarantiniana memoria. Sono convinto anzi che le avrebbe fatto rimpiangere di essere venuta al mondo. In fondo conoscevo bene quello sguardo. Significava: Sono molto arrabbiata con te. Sono furiosa e rassegnata. Come sempre mi ritrovo accanto uno squilibrato, che però adoro e a cui difficilmente saprò dire di no.

    Era fatta. Almeno così speravo.

    L’orologio a forma di gallo in cucina cominciò a suonare. Erano le venti in punto. Fuori un cane abbaiava ininterrottamente, come ad annunciare la fine del mondo. Il sibilo dei fornelli accesi e lo scroscio dell’acqua nel lavello avvolgevano le nostre parole.

    – Ok – affermò Rebecca, mossa dall’amore incondizionato per me e per

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