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Mascaró
Mascaró
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E-book352 pagine5 ore

Mascaró

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Mascaró è una delle opere più vibranti della letteratura sudamericana del secolo scorso sulla libertà, la diversità, la forza sovversiva dell’arte. La scrittura di Haroldo Conti procede a briglia sciolta, abbraccia le voci, il paesaggio, odori e colori: le frasi danzano come in un tango argentino.
Tutto comincia una notte nella locanda di Arenales. L’orchestrina del paese si trascina suonando fino all’alba in attesa che il Mañana, una vecchia nave scalcinata, salpi per condurre Oreste verso un porto che forse non esiste. Insieme a lui si imbarcano lo stravagante Principe Patagón, il misterioso cavaliere Mascaró e altri passeggeri altrettanto fuori dal comune.
Sarà proprio il Principe, poeta, attore, mago e indovino certificato, alchimista, “praticamente imperatore”, a trascinare Oreste, e altri con lui, in un’impresa folle dando vita a un carosello di artisti girovaghi, guitti improvvisati e glorie decadute. Tutti abbandonano consapevolmente ogni legame con l’esistenza precedente per assumere una nuova identità. È una scelta consapevole per liberarsi da ogni vincolo e cercare la propria vera strada.
Ma, si sa, la libertà è loca, pazza e inafferrabile, misteriosa, e le autorità non possono tollerarla perché, ovunque arrivi questo manipolo di artisti, si accende nelle comunità un desiderio di ribellione e di riscatto.
Gli arresti e le torture che ne conseguono sembrano prefigurare in modo surreale la terribile sorte di Haroldo Conti, così come viene raccontata nella prefazione di Gabriel García Márquez.
È un’Argentina descritta con grande realismo e allo stesso tempo sospesa nella meraviglia, fatta di territori abbandonati, aridi deserti, miseri villaggi sperduti, dove Mascaró, alias Joselito Bembè, eroe e pistolero, figura emblematica della lotta per l’affrancamento, si muove, appare e scompare, vanamente inseguito dai rurales.

Prefazione di Gabriel García Márquez
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2021
ISBN9788831461252
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    Anteprima del libro

    Mascaró - Haraldo Conti

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    quisiscrivemale

    MASCARÓ

    Haroldo Conti

    Traduzione di Marino Magliani

    MASCARÓ

    di Haroldo Conti

    Collana quisiscrivemale

    © 2020 – Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 86 – Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Traduzione Marino Magliani

    Revisione della traduzione Riccardo Ferrazzi

    Impaginazione omgrafica, roma

    ISBN 9788831461252

    Edizione originale Mascaró, el cazador americano, Ed. Casa de las Américas (1975)

    Titolo originale prefazione di Gabriel García Márquez La ultima y mala noticia sobre Haroldo Conti (1981)

    Opera pubblicata nell’ambito del Programma Sur di supporto alle traduzioni del Ministero degli Affari Esteri, del Commercio Internazionale e del Culto della Repubblica Argentina.

    Obra editada en el marco del Programa Sur de Apoyo a las Traducciones del Ministerio de Relaciones Exteriores e Culto de la Republica Argentina.

    PREFAZIONE

    di Gabriel García Márquez

    Nell’ottobre del 1975 Haroldo Conti, uno dei massimi scrittori argentini, fu avvisato che le Forze Armate lo avevano inserito in una lista di agenti sovversivi. Nelle settimane successive l’avvertimento si ripeté per altre vie e, all’inizio del 1976, era ormai di dominio pubblico a Buenos Aires. In quei giorni mi spedì una lettera a Bogotá, nella quale era evidente il suo stato di tensione. Marta e io facciamo praticamente una vita da fuorilegge diceva. Ci spostiamo di nascosto, cambiamo spesso di abitazione, parliamo in codice. E concludeva Più sotto ti metto il mio indirizzo, sempre se sopravvivo. L’indirizzo era quello della casa presa in affitto al numero 1205 di Calle FitzRoy a Villa Crespo, dove seguitò ad abitare senza prendere alcun genere di precauzioni finché, nove mesi dopo essere stato messo sull’avviso, venne aggredito a mezzanotte da un commando di sei uomini. Lo portarono via bendato, con mani e piedi legati, e lo fecero sparire per sempre.

    Haroldo Conti aveva allora cinquantuno anni, aveva pubblicato sette libri eccellenti e non si vergognava affatto del grande amore che nutriva per la vita. Nella sua casa in città si respirava aria di campagna: allevava gatti, colombe, cani, bambini, coltivava fiori e legumi in grandi vasi. Come molti scrittori della nostra epoca, era un instancabile lettore di Hemingway, dal quale aveva appreso anche l’arte della disciplina. Le sue opinioni politiche erano chiare e pubbliche, ne parlava apertis verbis e le esponeva sulla stampa: si riconosceva nella rivoluzione cubana e non ne faceva mistero.

    Fin da quando ricevette i primi segnali fu invitato a trasferirsi in Ecuador, ma preferì restare. Uno deve scegliere, mi scrisse nella sua lettera. Il pretesto che trovò per non partire fu che Marta era incinta di sette mesi e non poteva viaggiare in aereo. Ma la verità è che non voleva andarsene. Resterò finché sarà possibile, e poi Dio ci penserà mi disse nella sua lettera perché, oltre a scrivere, e neanche tanto bene, non so fare altro.

    Nel febbraio del 1976 Marta partorì un maschietto, e lo chiamarono Ernesto. Già allora Haroldo aveva appeso un cartello davanti alla sua scrivania: Questo è il mio posto di combattimento e da qui non me ne vado. Ma i suoi sequestratori non capirono la frase: era scritta in latino.

    Il 4 maggio 1976 Haroldo Conti scrisse per tutto il mattino terminando un racconto che aveva iniziato il giorno prima: A destra. Poi indossò giacca e cravatta e andò a tenere una lezione di routine in una scuola secondaria del quartiere. Prima delle sei tornò a casa e si cambiò. Verso sera aiutò Marta a cambiare le tende dello studio, giocò con suo figlio di tre mesi, aiutò Myriam, la figlia di sette anni avuta da Marta in un precedente matrimonio, a fare i compiti. Alle nove di sera, dopo aver mangiato un po’ di carne salata, andarono a vedere Il Padrino – parte seconda. In sei mesi, quella era la prima volta che andavano al cinema. I due bambini erano stati affidati a un amico che nel pomeriggio era arrivato da Cordoba e che avevano invitato a dormire sul divano dello studio.

    Quando tornarono, cinque minuti dopo mezzanotte, gli aprì la porta di casa un civile armato con una mitraglietta da guerra. In casa altri cinque uomini armati allo stesso modo li stesero a terra colpendoli con il calcio dei mitra e li stordirono a calci. L’amico giaceva a terra, svenuto, bendato e legato, col volto sfigurato dalle botte. In camera i bambini non si accorsero di nulla: erano stati cloroformizzati.

    Haroldo e Marta furono portati in due diverse camere mentre il commando saccheggiava l’appartamento, sottraendo qualsiasi oggetto di valore. Poi li sottoposero a un interrogatorio spietato.

    Marta ricorda minuziosamente quella notte di terrore: sentiva le domande rivolte a suo marito nella stanza attigua. Tutte quante riguardavano due viaggi all’Avana fatti da Haroldo Conti. In effetti ci era andato due volte – nel 1971 e nel 1974 – l’una e l’altra volta come giurato del premio letterario Casa de las Américas. Gli inquisitori cercavano di provare che Haroldo Conti fosse un agente cubano. Alle quattro del mattino, uno degli assalitori ebbe un gesto umano e condusse Marta nella camera di Haroldo per dargli l’ultimo saluto. Marta era sfigurata dalle botte e aveva parecchi denti rotti; quell’uomo dovette reggerla per il braccio perché aveva gli occhi bendati. Uno degli altri lo vide passare nella sala e lo schernì: Vai a ballare con la signora?.

    Haroldo salutò Marta con un bacio. Solo allora lei si rese conto che lui non era bendato, e questa certezza la riempì di terrore perché sapeva che solo i destinati a morire potevano vedere in faccia i loro torturatori. Fu l’ultima volta che poterono stare insieme.

    Dopo sei mesi dal sequestro, e dopo essere passata di nascosto da un rifugio all’altro col suo figlio minore, Marta trovò asilo nell’Ambasciata di Cuba. Ci rimase per un anno e mezzo in attesa del salvacondotto, finché il generale Omar Torrijos intercesse presso l’ammiraglio Emilio Massera (a quel tempo membro della Giunta al governo in Argentina) e costui le rese possibile uscire dal paese.

    Quindici giorni dopo il sequestro, quattro scrittori argentini – fra i quali i due più grandi – accettarono un invito a pranzo nel palazzo presidenziale insieme al generale JorgeVidela. Erano Jorge Luis Borges, Ernesto Sabato, Alberto Ratti presidente della Sociedad Argentina de Escritores, e il sacerdote Leonardo Castellani. Tutti loro, da diverse fonti, erano stati supplicati di far presente a Videla il dramma di Haroldo Conti. Alberto Ratti lo fece, e in più consegnò una lista di altri undici scrittori prigionieri. Il padre Castellani, che a quel tempo aveva quasi ottant’anni ed era stato maestro di Conti, chiese a Videla il permesso di visitarlo in carcere. La notizia non fu mai pubblicata, ma in effetti si venne poi a sapere che il padre Castellani lo vide l’8 luglio 1976 nel carcere di Villa Devoto ma lo trovò in un tale stato di prostrazione che non gli fu possibile intrattenere una conversazione.

    Altri prigionieri, che in seguito furono liberati, ebbero contatti con Haroldo Conti. Uno di loro testimoniò per iscritto di essere stato suo compagno di prigionia nel campo di concentramento della Brigata Gomez, situato lungo l’autostrada Richieri, a dodici chilometri da Buenos Aires sulla strada per Ezeiza. Nel maggio del 1976 dice la testimonianza Haroldo Conti stava in una cella di due metri per uno, col pavimento in cemento e una porta metallica. Arrivò il giorno 20. Mi disse di essere stato recluso in un edificio militare dove aveva subito brutali torture. Raccontò di essere stato chiuso in un bagno e di essere svenuto. Parlava a malapena e non riusciva ad alimentarsi. Il giorno 21 riuscì a mangiare qualcosa. Si capiva che stava molto male perché gli diedero una coperta e lo controllarono con una certa frequenza. La mattina presto del 22 lo fecero uscire dalla cella. Parve che dovessero visitarlo o qualcosa del genere. Stava malissimo e non tratteneva l’orina. Il testimone non lo vide più.

    Non c’è stato tentativo, per dritto e per traverso, che la moglie e gli amici di Haroldo non abbiano provato per avere notizie della sua sorte.

    Un paio d’anni fa, in Messico, intervistai l’ammiraglio Massera, a quel tempo ormai in pensione e non più parte integrante della Giunta al governo, ma che aveva ancora buoni rapporti col potere. Mi promise di informarsi su Haroldo Conti per quanto possibile, ma da lui non ebbi mai una risposta chiara. Nel giugno 1980, la regina Sofia di Spagna andò in Argentina a capo di una delegazione culturale per assistere all’anniversario della fondazione di Buenos Aires. Un gruppo di esiliati chiese ai membri della delegazione di intercedere presso il governo argentino per la liberazione di alcuni eminenti prigionieri politici. Io stesso, a nome della Fundación Habeas e come amico personale di Haroldo, rivolsi una modestissima richiesta: stabilire una volta per tutte quale fosse la sua reale situazione. La domanda fu posta ma il governo argentino non diede risposta alcuna.

    Tuttavia, lo scorso ottobre, quando era ormai deciso il suo ritiro dalla presidenza, il generale Jorge Videla concesse un’intervista a una delegazione di alto livello dell’agenzia Efe e rispose a qualche domanda sui prigionieri politici. Per la prima volta parlò di Haroldo Conti. Non chiarì nessuna data, nessun luogo, nessun’altra circostanza, ma rese noto senza alcun dubbio che era morto. Fu questa la prima notizia ufficiale, e sinora l’unica. Ciononostante, il generale Videla chiese ai giornalisti spagnoli di non pubblicarla subito, ed essi così fecero. Ritengo, ora che il generale Videla non è più al potere, e senza essermi consultato con nessuno, che il mondo abbia diritto a esserne informato.

    El Espectador, Bogota (Colombia), 19 aprile 1981

    A Marta e a tutti i compagni

    PROLOGO

    di Haroldo Conti

    Mascaró mi si è rivelato circa tre anni fa. Ero vuoto e triste, dopo aver pubblicato En vida, e come sempre accade, ma soprattutto allora, pensavo che non avrei più scritto una riga per il resto della mia vita. Non mi stupisco ora di essermi sbagliato, al punto che in questi tre anni ho scritto altri due libri e molto altro, mi capita spesso. Premi a parte, di solito non ne azzecco una.

    Be’, ero vuoto e triste, quando un bel giorno un autentico vagabondo mi raccontò l’incredibile storia del Principe Patagón. Mi piace ascoltare la gente. Penso che questo mi abbia salvato. Ho avuto un sobbalzo: avevo il mio prossimo romanzo, e l’avevo talmente chiaro in testa che ho arraffato un foglio e lì per lì ho buttato giù lo schema. Era la prima volta che progettavo un libro dall’inizio alla fine. I modelli sono utili, come per un piano economico o per le previsioni meteorologiche. Ma era solo il punto di partenza, un preliminare: Mascaró doveva maturare dentro di me e ci è voluto del tempo.

    Non ho mai fretta in questi casi, arriva sempre il momento in cui la storia ti preme così tanto dentro che viene fuori da sola. Ed è successo anche con Mascaró che mi lanciava segnali da un angolo della mia esistenza, chiamandomi al suo folle percorso. Ha insistito così tanto che un bel giorno, per sciogliere gli ormeggi, mi sono catapultato in strada, me ne sono andato, abbandonando tutto, ed è lì che è iniziata la mia vita con Mascaró, cioè il romanzo che per me è sempre un autentico modus vivendi. Riassumerlo in un paio di righe non avrebbe senso. Potrei provare una sorta di commento concettuale che però, in ultima analisi, sarebbe applicabile a Mascaró quanto all’Imitazione di Cristo o a un libro di Napoleone I, ed è cosa comunque più adatta ai critici. Raccontare la storia senza restituirne la carne viva sarebbe una mistificazione e raccontarla così come è accaduta equivarrebbe a riscrivere tutto da capo. Perché quel piccolo schema cresceva, cresceva come un albero ed è così che i miei amici più semplici, come Tony Beck o il Capitano Alfonso Domínguez, alias Cojones, sono entrati nella storia, in questa terra di lotta e speranza chiamata America.

    Mascaró dava tutto. Cresceva, cresceva come un terribile canto di cui solo in parte ero io il cantore, perché si sono aggiunte così tante voci che Mascaró in realtà non mi appartiene per davvero. Ora, a differenza di prima, non sono triste e vuoto perché Mascaró continua a essere vivo e mi chiede sempre nuove strade. Sento, sì, la sottile tristezza della separazione che potrà fargli iniziare il suo percorso con altri. Eccoci, dunque, sul ciglio di questa strada a salutarlo e stringergli la mano ferma. Ma so che tornerà, lo so.

    So che tornerai, compagno. Ecco perché ti saluto. Non dimenticarti di me e della mia compagna, noi ti amiamo. Torna presto perché solo così potremo continuare a vivere e ad amare, cavaliere oscuro, dolce cacciatore di uomini. Mascaró, alias Joselito Bembé, alias la Vita.

    Quando sarò uomo, sarò cacciatore...

    Indios Kwakiutl

    Il circo

    Cafuné soffia e risoffia nel flautino d’osso. È il sospiro di una brezza, un metallico stuzzicare, il sottile sospiro di un’anima che si attorciglia nell’atmosfera. Qui, la sua giornata è questa musica che va dappertutto, come una goccia, una pallina, un tempo nudo e crudo, senza dettagli. Lui ogni tanto scuote un sonaglio di conchiglie: accompagna la musica o scaccia le mosche.

    Oreste ha passato la notte sveglio, seduto al tavolo. I musicisti hanno seguitato a soffiare e pizzicare finché il sonno non li ha fatti crollare addormentati, tranne l’arpista cieco: lui non ha visto scendere la notte, ha continuato a suonare e ha smesso solo da poco, quando le dita gli si sono rattrappite. Ha smesso quasi l’alba ed è calato il silenzio. L’arpa è rimasta lì, in mezzo al salone. È una bella arpa, con la curva dei cavicchi decorata come un altare e il telaio che termina in un angelo in punta di piedi, che pare stia per saltare a terra. È piccolo, l’angelo, ma ben fatto: ha una pelle che sembra umana, occhi di vetro e ali di piccione. Si libra nell’aria, leggero. Senza il suo strumento l’arpista è un uomo a metà. L’intero è l’insieme dell’arpa, l’angelo e il cieco che suona muovendosi con grazia, vede le cose dal di dentro, senza la zavorra della carne, pizzica sicuro qua e là, e conduce la melodia come una vita senza peso.

    Il complesso si annuncia con i manifesti. Oggi qui, domani là; questa è la vita della strada. Sui manifesti si presenta come La Trova de Arenales. E questo paese è, appunto, Arenales. C’è un violino, un accordéon, un tamburo, un flauto dolce, una chitarra e l’arpa. Il chitarrista è un negro con i capelli bianchi e ricci. Suona seduto, con le gambe accavallate. Il violinista si chiama Madariaga, è un vecchio cisposo, porta un cappello unto, a larghe tese, ha un difetto negli occhi, la giacca bianca, un foulard nero, i pantaloni a righe e scarpe di corda. Tiene il violino contro il petto e guarda avanti. Sempre. Il violino è fatto con legno da imballaggio e il suono è quello di un rottame. La musica della Trova è chiassosa e senza pretese: polca, marote, zamba, chotis, valzer, pachanga, cosucce divertenti come Corazón de canela o Adiós mariquita linda. Quando gli va, l’arpista canta; a volte canta il negro, che ha una voce aspra e profonda.

    Hanno cominciato a suonare al tramonto, che è quando in paese inizia il passeggio, si creano i capannelli, le ombre cominciano a muoversi e sulla duna più alta si leva un pennacchio di sabbia. Cafuné lo prende per uno scongiuro e smette subito di suonare.

    Nel pomeriggio Oreste ha detto che andava ad Aguas Dulces seguendo la costa, per vedere se c’erano notizie della nave. Ma non è arrivato fin laggiù, non aveva neanche intenzione di andarci. Sudando in abbondanza ha raggiunto il battello naufragato che da lontano sembra una città. Da Arenales non si vede. Solo a metà strada si scorge l’ammasso che si spinge in mare come una propaggine della Punta del Diavolo. La sabbia sollevata dal vento lo scherma, quasi lo cancella e perfino lo solleva in aria. Poi si stacca dalla Punta, vira, si gonfia, e finisce per sembrare una città che diventa sempre più grande. Oreste cambia di umore secondo come cambia il battello. Viaggia su tempi e strade diverse se diventa una scogliera, una nube, un treno, un muraglione merlato, una città. Ma quando lo vede più da vicino è un battello, e lui è contento perché pensa che sia il Mañana, la grande nave che gli viaggia in testa. Cammina avvolto dalla sabbia, spruzzato di spuma, investito dal vento, rannicchiato nella concavità del suo corpo. La mutevole linea delle onde lo disorienta, lo ipnotizza. Si china a raccogliere il guscio di una chiocciola sbiancato dal sole e lo ributta in mare con un grido. Un grido che gli esce dalla bocca, va soltanto un po’ più avanti, e si schianta contro il vento. E adesso il battello è un relitto incagliato, la triste carcassa di un’imbarcazione chiamata Aldebarán.

    Entra nella struttura, scostando rimasugli, ripulendoli dalle alghe, facendo finta di manovrare. Da una falla sulla fiancata di tribordo entra l’onda. Raccoglie un anello coperto di muschio e se lo mette in tasca. Sale in coperta, passa e ripassa parecchie volte da poppa a prua per il puro gusto di ascoltare il suono dei suoi passi. Oreste si ferma di colpo: alle sue spalle c’è un breve tonfo, un rumore di lamiere, un frusciare di squame, il vento. Sale sul ponte. Il sole sfiora le cime delle dune, la spiaggia sembra una nebbiolina gialla percorsa da luci e fosforescenze, i gabbiani se ne stanno immobili sulle loro ombre che si allungano sulla sabbia e si rompono alla prima onda. Arenales non si vede. Si vede la punta della duna. L’imbarcazione si muove, salpa. E l’Aldebaran naviga su festoni di spuma, fra le nebbie ingannatrici.

    Oreste tornò verso sera. Il vento gli aveva asciugato sudore e acqua, e la pelle bruciava. Le dune erano diventate scure ma lui riuscì ancora a vedere il pennacchio di sabbia. Un po’ più tardi passò Cafuné, in un lampo, sulla sua alata bicicletta coi cerotti colorati sui raggi delle ruote e le estremità del manubrio coperte da una guaina di stoffa. Oreste alzò una mano a salutare, ma Cafuné non rispose; neanche lo guardò. Fu una pura e semplice apparizione, con i capelli grigi, ispidi, tenuti stretti da un elastico e ballonzolanti sulla nuca. Cafuné è un uccello: poca carne, spigoloso, tutto ossa. Quando non suona il flauto corre di qua e di là in bicicletta. Porta messaggi e risposte, ma spesso se li inventa. L’ha visto sicuramente con la coda dell’occhio, ha il campo visivo di una mosca, ma è sparito in un rumore di pneumatici, inseguito da un volo di gabbiani.

    Sull’orizzonte scivolano matasse di ombre. Il vento smuove la sabbia e porta in giro la spuma, una bruma salata inumidisce appena la pelle, si infiltra fra i peli della barba, che scoccano luccichii, inzuppa, gocciola giù per le tempie, annebbia la vista. Oreste cammina in mezzo all’aria, si sposta nel vento. Il mare è un’entità concreta che promana dalla terra. Cambia colore secondo il cielo: rosa, lilla, violetto e finalmente blu. E quando il cielo giunge alla fine, il mare, come un vetro profondo che tutto trattiene, ne conserva i pallori. I gabbiani si alzano in volo, sempre alla stessa distanza, al passaggio di Oreste, planano sulla sua testa, gridano alla sua ombra.

    Le case del villaggio si ammassano a ponente. Hanno un lato chiaro e netto, e un lato oscuro che si allunga come una punta verso il mare. Il faro svetta dietro alle case, ancora illuminato dal sole, e per questo sembra più lontano e più alto. Man mano che Oreste si avvicina, il faro si sposta verso sinistra, sempre al di sopra dei tetti, e poi entra nel mare.

    Il faro è più vecchio del villaggio. L’hanno costruito certi italiani che venivano da Palmares, sul Cabo de Santa Maria, quel promontorio solitario che adesso è completamente buio, sempre più prossimo al mare man mano che Oreste si avvicina al villaggio. Su mappe e cartine il faro è indicato con un asterisco.¹

    La storia di Arenales è presto detta. Sta tutta in una canzone. Dapprima vennero degli uomini che avviarono la costruzione di un altro faro, un po’ più avanti. Quando erano a metà non posarono bene qualche pietra e il faro gli crollò addosso. Ai piedi del nuovo faro, quello vero, c’è un orto, un cimitero con sette tombe, un angelo piangente, in cemento, e un faraglione annerito. La canzone dice che da Palmares vennero sette fratelli. Costruirono il faro e una maledizione lo buttò giù. L’angelo del battistero della cattedrale di Palmares scomparve in volo con rotta sud.

    La maledizione riguarda don Diego de Almaraz, che fondò Arenales, in seguito a una sbornia. Almaraz, che se ne andava con una caracca verso Ocolora² e per la strada fondava città e persino nazioni, capì a rovescio un presagio, sbagliò rotta e andò a sbattere contro la costa. Poteva essere un segno del destino, e così fondò Arenales.

    Si ritiene che sia intervenuta la maledizione perché da quel momento di Almaraz in quanto essere umano non se ne sa più niente. Venne mutato in faraglione, e sopravvive nelle penombre, vaga lamentoso sulla spiaggia, anima dolente, debito maledetto, causa di spaventi. Secondo la canzone, arrivarono altri uomini, altri sette, in cerca dell’angelo. Un vescovo con paramenti viola asperse la roccia, lanciò uno scongiuro contro quell’anima in pena che da allora sprofonda in mare o si disperde lassù nel cielo, secondo chi canta la canzone. Nel primo caso è il macigno che con la bassa marea affiora a mezzo miglio dalla costa. Nell’altro caso è il pennacchio di sabbia che il vento solleva verso sera. Messo a posto il promontorio, battezzato Cabo de Santa Maria come fosse un essere umano, perché non si sa mai, i sette costruirono il faro come si vede oggigiorno.

    A richiesta, l’arpista cieco canta questa canzone con la variante del macigno: Chamarrita de Almaraz. È una chamarrita sciolta, un po’ triste.

    Il faro conferisce ad Arenales l’aspetto di un paese. Ma Arenales è tutto lì. Il faro, il molo, la bettola di Lucho e qualche casotto di paglia. Tutto questo ora sta baluginando negli occhi di Oreste.

    La torre del faro si erge bianca e liscia fino a raggiungere un’aria diversa. Il resto, giù abbasso, si confonde nel torbido. La torre è di pietra ricoperta di calce. Osservata da vicino, rivela i danni dell’età. La calce scrostata, le finestre con quel che rimane di telai e battenti, la porta consumata ai bordi, aggiustata con tavole portate dalle onde. Eppure il faro continua a funzionare come il primo giorno. A quest’ora prende vita e ritrova la sua immagine lieve, senza peso, smaterializzata. Quando al di sopra delle dune non resta che un bagliore nell’aria, Bimbo spinge il contrappeso nella strettoia e la lente comincia a girare. A quel punto la torre è diventata oscura e, poco dopo, sparisce. La luce proviene da un fanale di quelli racchiusi in una ampolla di vetro che perde aria. A notte fonda, il cristallo riluce come una gabbia di vetro che contiene un uccello di fuoco. La lente gira e si diffonde in lampi e chiarori che scivolano tutto attorno. Questa lente di Fresnel è la più grande ricchezza di Arenales. Non ha un graffio. Bimbo ci alita su, accarezza il telaio di rame senza toccare il cristallo. Fluttua tra squame e veli, lame di luce che si curvano e si incrociano. Oreste è salito lassù insieme a Bimbo, ha accostato l’orecchio all’ingranaggio e ha sentito il sabbioso stridere dei denti di bronzo. Le luci in movimento lo avvolgono, lo trafiggono, lo dilatano. Il mare ribolle nelle ombre, più vicino, più lontano. Non ci sono più riferimenti.

    C’è una luce accesa nella bettola di Lucho. Il resto del villaggio è al buio e certo Bimbo è in cammino verso il faro. La baracca fa piovere l’ombra lungo gli spigoli del tetto. Di solito Lucho appende sulla porta un fanale riparato dal vento e questa è la luce che vede Bimbo. Poco dopo sente la chitarra che il negro sta pizzicando. Poi non si sente altro che la voce. La voce, il tamburo e, appena appena, il flauto. È una cantilena monotona, un lamentoso suono umano, una lingua incomprensibile. Ogni tanto un sonaglio di conchiglie raspa l’aria. Più vicino si sente chiaro il ritmo di uno scacciapensieri. Non ne ha mai visto uno, non sa com’è fatto. Ascolta quella paurosa vibrazione che batte e rimbalza.

    Cafuné è tornato, pedalando nella spuma di mare. Oreste riesce a scorgere l’ombra saltellante che si allontana, ma soprattutto la piccola nube di gabbiani che alza davanti a sé. Oreste si ferma per un momento sulla lastra ai piedi del Cristo di cemento, pieno di escrementi dei gabbiani, con un mazzetto di fiori di carta tenuto lì con un sasso. In quella posa, il Cristo sta per morire: ha gli occhi vacui, e vacua anche la bocca, come una maschera con anelli alle orecchie. Da lì vede l’interno della bettola bucato dalla luce dei fanali a cherosene, qualche ombra in movimento, il gruppetto dei musicisti. Il canto smette di colpo. C’è un breve silenzio, poi l’arpa attacca un marote, alla svelta.

    La luce del faro si accende proprio in quel momento. Bimbo ha spinto il contrappeso. E pare che tutto avvenga di conseguenza. Un gruppo di pescatori con i pantaloni arrotolati è in marcia verso la baia, fra il molo e il capo. Cafuné va in testa, col ciuffo scomposto. Sulle spalle portano un tramaglio arrotolato, di filo di lino, e l’ultimo porta una lampara accesa che allunga le loro ombre sulla rena umida. Lucumón salta di qua e di là, rincorre un gabbiano, entra in acqua. Il suo abbaiare va e viene.

    Oreste sente il peso del suo corpo. Spruzzi di sabbia gli scivolano sulla pelle, la barba punge, quasi scricchiola. La mano destra in tasca giocherella con l’anello dell’Aldebarán. Il vento lo avvolge, lo assottiglia, lo spinge contro il Cristo della lunga morte. Improvvisamente la luce del faro lo bagna. Ha cominciato a girare. Un’ombra si stacca dalle palpebre e il Cristo guarda a terra.

    I suonatori non entravano in sintonia. Suonavano in qualche modo, cercando l’accordo mentre la notte e il vento attiravano il pubblico, rendevano più semplice la vita. Lucho confabulava col Consigliere, uomo dal volto cavallino, con grandi sopracciglia. Oreste è uscito verso il retro, lungo lo stretto corridoio fiancheggiato dalle camere, la cucina sul fondo, con la voce della Pila che passava attraverso le pareti di legno, ha preso una camicia che aveva steso ad asciugare, è andato al cesso, ha arrotolato la camicia e l’ha messa nella borsa da marinaio, ha dato un morso a un pezzo di formaggio, è tornato in cortile a tagliare un pezzo di corda da un vecchio palamito, ne ha fatto un cappio, se l’è messo al collo ed è tornato nel salone. Lucho aveva fatto da mangiare nella

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