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I maestri del giallo
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E-book1.296 pagine19 ore

I maestri del giallo

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Info su questo ebook

Le inchieste di Monsieur Dupin di Edgar Allan Poe
Uno studio in rosso di Arthur Conan Doyle
Il castello del terrore di Edgar Wallace
Charlie Chan e la casa senza chiavi di Earl Derr Biggers
La strana morte del signor Benson di S.S. Van Dine
I trentanove scalini di John Buchan

Introduzione di Renato Olivieri
Edizioni integrali

In questo volume sono raccolti sei gioielli della letteratura poliziesca. Ogni opera rappresenta un aspetto e una scuola diversi di un genere che nel corso di oltre un secolo si è arricchito e differenziato inventando proverbiali figure di investigatori. Dal capostipite Edgar Allan Poe con le inchieste di Monsieur Dupin fino al rigoroso metodo indiziario deduttivo di Sherlock Holmes, dall’inimitabile plot romanzesco di Edgar Wallace al colto e raffinato detective Philo Vance creato dalla fantasia di Van Dine, fino al flemmatico Charlie Chan, il poliziotto cinese di Honolulu inventato da Biggers, questi racconti compongono una scelta organica utile sia per chi si accosta per la prima volta alla detective story, sia per chi vuole godersi il confronto fra sei capolavori di altrettanti maestri del giallo.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854145665
I maestri del giallo

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    Anteprima del libro

    I maestri del giallo - AA.VV.

    399

    Titolo originale:The Murders in the Rue Morgue, The Mystery of Marie Rogêt, The Purloined Letter, traduzioni di D. Palladini;

    A Study in Scarlet, traduzione di N. Rosati Bizzotto;

    Terror Keep, traduzione di R. Formenti;

    The House Without a Key, traduzione di S. Fusina;

    The Benson Murder Case, traduzione di A. Carrer; The Thirtynine Steps, traduzione di R. Ghiri.

    Le traduzioni dei romanzi: Terror Keep, The Benson Murder Case, The Thirtynine Steps

    sono pubblicate su licenza della Garden Editoriale S.r.l.; la traduzione del romanzo

    The House Without a Key è pubblicata su licenza della SugarCo Edizioni

    Prima edizione ebook: luglio 2012

    © 1995 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4566-5

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    I maestri del giallo

    E.A. Poe, Le inchieste di Monsieur Dupin / A. Conan Doyle, Sherlock Holmes. Uno studio in rosso / E. Wallace, Il castello del terrore / E. Derr Biggers, Charlie Chan e la casa senza chiavi / S.S. Van Dine, La strana morte del signor Benson / J. Buchan, I trentanove scalini

    Introduzione di Renato Olivieri

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Introduzione

    I delitti della rue Morgue è considerato il primo racconto poliziesco della storia letteraria. Ed è giusto che apra l’antologia dei dieci maestri del giallo. Il suo autore, Edgar Allan Poe (1809-1849) ha inventato il «meccanismo» che poi ha dato il via a un’infinità di variazioni sul tema. Sul tema del delitto, appunto.

    Ci sono l’investigatore, il cavaliere Auguste Dupin, il suo assistente e biografo, e il delitto della camera chiusa. Tutto ha inizio a Parigi, alle tre di notte, quando gli abitanti di rue Morgue vengono svegliati di soprassalto «da una serie di grida spaventevoli». Qualcosa di terribile dev’essere accaduto al quarto piano abitato da madame L’Espanaye e da sua figlia Camille.

    Dopo qualche minuto, i vicini sfondano la porta e si trovano davanti «uno spettacolo terrificante»: mobili spezzati, materassi sull’impiantito, un rasoio macchiato di sangue. Poi vedono la vecchia signora, ormai cadavere, anzi con la testa «perfettamente tagliata» al punto che, quando si tentò di sollevare il corpo, se ne staccò.

    Era anche, se vogliamo, il primo racconto horror. Dupin apparirà in seguito in altre due storie: Il mistero di Marie Rogêt e La lettera rubata.

    Chi era Edgar Allan Poe? Un intellettuale, si direbbe oggi, un poeta e un narratore. C’è chi lo considera il più grande dell’Ottocento americano. Era nato a Boston da un’attrice inglese e da un attore di Baltimora. Igenitori morirono ancora giovani di tubercolosi, in Virginia, nel 1811. Il piccolo Edgar venne raccolto dai signori Allan, una coppia danarosa che lo amò come un figlio. Più tardi Edgar ne assunse il cognome. Studiò in Inghilterra e anche all’università della Virginia, ma non terminò gli studi per colpa dei debiti di gioco che sconvolsero la vita del padre adottivo. Entrò nell’accademia militare di West Point, da dove fu espulso per indisciplina. Una vita che, per certi aspetti, può ricordare quella di un altro autore di questa raccolta: Edgar Wallace.

    Anche Poe conobbe la povertà, si sposò due volte, perdeva il lavoro per ubriachezza e intolleranza. Un pessimo carattere. Si racconta che, dopo la morte della sua seconda moglie, avesse corteggiato alcune vedove molto ricche e che, con una in particolare, stesse per fidanzarsi. Alla vigilia del fidanzamento, durante una festa di compleanno, si ubriacò sino a perdere i sensi. Portato all’ospedale di Baltimora vi morì senza mai riprendere conoscenza.

    Un altro maestro del poliziesco è Arthur Conan Doyle (1859-1930) nato in Scozia, a Edimburgo. I Doyle erano degli aristocratici irlandesi. Studiò medicina e si laureò a 26 anni. Va detto che due suoi insegnanti gli diedero lo spunto per la stesura di alcuni romanzi e per la figura di Sherlock Holmes.

    Cominciò a scrivere che era ancora studente. Rimasto orfano di padre, dovette pensare a guadagnare un po’ di soldi, si imbarcò, come medico di bordo, su una baleniera che seguiva le rotte artiche, e poi su una nave a vapore, in Africa.

    Aveva letto le avventure di Auguste Dupin e ne era entusiasta. Provò anche lui a cimentarsi nel genere e gli venne di scrivere Uno studio in rosso, la prima storia con Sherlock Holmes protagonista, che fu pubblicata nel 1887, quando lui aveva 28 anni.

    Gran viaggiatore, sposato due volte, cinque figli. Uno gli morì per una ferita di guerra. Diventò un fanatico dello spiritualismo e passò la vita a cercar proseliti. Morì nel Sussex a 71 anni lasciando la moglie, la figlia avuta dal primo matrimonio e i tre bambini avuti dal secondo.

    Con Il castello del terrore facciamo la conoscenza di un altro narratore-fenomeno: Edgar Wallace (1875-1932), figlio illegittimo di un’attrice inglese, vissuto in una famiglia di pescatori, niente studi regolari, un’adolescenza tormentata, un’infinità di lavori saltuari. Strillone, commesso di negozio, tipografo, infermiere e infine soldato della sanità in Sudafrica durante la guerra anglo-boera.

    Come abbiamo accennato, la sua vita ha avuto lati simili a quella di Poe: la passione inguaribile per l’azzardo e l’avventura, la tendenza a strafare, a seguire l’istinto senza alcuna regola.

    Non sapeva far altro che scrivere. Scriveva senza fatica, con vigore, come un fiume in piena che scorre. Non amava correggere i testi. Gli hanno imputato un’eccessiva facilità, una scrittura piacevole, ma spesso superficiale.

    Le esperienze che ebbe come corrispondente dell’Agenzia Reuter e di alcuni quotidiani britannici gli diedero un bagaglio di idee, di immagini, di emozioni che, riversate sulle pagine dei romanzi e dei racconti, gli permisero dì guadagnarsi un successo che dura tuttora, a tanti anni dalla morte.

    Wallace ha avuto due mogli, come Poe e come Conan Doyle. La prima, Ivy, una dolce ragazza bionda, figlia di un pastore protestante, che si era innamorata di lui. La seconda, che si chiamava Violetta, assai più giovane, e che era stata la sua segretaria. Da Ivy ebbe quattro figli che ereditarono, quando lui morì, 140.000 sterline di debiti. Aveva guadagnato moltissimo, anche 250.000 dollari l’anno, ma giocava e perdeva, al poker e alle corse dei cavalli. Tuttavia, due anni dopo la scomparsa, i diritti d’autore permisero agli eredi di pagare tutti i debiti e di vivere bene negli anni che seguirono. Il castello del terrore è una storia esemplare per conoscere il miglior Wallace.

    Pochi invece sanno chi è Earl Derr Biggers (1884-1933). È molto più conosciuto di lui il suo personaggio, il detective di origine cinese Charlie Chan, che vide la luce nel 1925 e che è stato protagonista di sei romanzi, compreso La casa senza chiavi di questa raccolta. Era un omino grasso, glabro e si inchinava con squisita cortesia.

    Leggere Biggers è gradevole: ex giornalista, commediografo e critico teatrale, aveva un innato senso dell’umorismo. In più era colto, laureato ad Harvard. Il cinema si impossessò del personaggio. Basti pensare che uscirono su Charlie Chan ben 49 film, sedici dei quali interpretati da un attore svedese, truccato da cinese, che si chiamava Warner Oland. Cinque furono gli attori, tra cui un giapponese, che via via interpretarono il ruolo dell’investigatore con gli occhi a mandorla.

    Ed è la volta de La strana morte del signor Benson di S.S. Van Dine (1888-1939), una pietra miliare nella storia della letteratura di genere. Prima di tutto perché presenta il più raffinato investigatore degli anni Venti, e poi perché inaugurò nel lontano 1929 la collana di romanzi polizieschi chiamati da Arnoldo Mondadori per la prima volta «Gialli», dal colore citrino della copertina.

    Van Dine era un giornalista americano nato in Virginia e anche lui, come Biggers, laureato ad Harvard, autore di un saggio su Nietzsche per l’Enciclopedia Britannica. Il suo vero nome era Willard Huntington Wright. Aveva pubblicato un romanzo che era stato lodato dai critici, ma che il pubblico aveva completamente ignorato. Era un romanzo sperimentale, si intitolava The Man of Promise. Insomma, un fiasco.

    Per sua disgrazia si ammalò di tubercolosi e dovette essere ricoverato per due anni in un sanatorio. I medici gli prescrissero riposo assoluto su una sdraio. Non fece che leggere, soprattutto romanzi di Edgar Allan Poe, di Conan Doyle, di Maurice Leblanc, fu attratto e divertito dalle avventure di Auguste Dupin, Sherlock Holmes, Arsenio Lupin... Alla fine della degenza era diventato un vero esperto del genere poliziesco, uno straordinario «teorico». Infine decise di mettere in pratica le sue convinzioni scrivendo lui stesso un romanzo.

    Immaginò l’omicidio di un agente di Wall Street: un colpo di rivoltella sulla fronte. Viene rinvenuto sulla poltrona, senza parrucca e senza dentiera. Sarà Philo Vance a scoprire il colpevole. Alto uno e ottanta, colto, snob, collezionista di quadri e statue d’autore, Philo Vance porta persino il monocolo.

    Il successo del libro indusse l’autore a scriverne altri. Dodici in tutto, sino all’anno della sua morte. Diventò ricco e famoso. I diritti d’autore gli permisero una vita da milionario (di allora). Abitava in un attico di New York, pasteggiava a champagne. Aveva avuto due mogli. E una figlia dalla prima moglie.

    Con I trentanove scalini di John Buchan (1875-1940) si conclude questa antologia dei maestri del giallo. Bucham è, tra l’altro, l’autore che aveva ispirato a Hitchcock il famoso film II club dei trentanove. Il personaggio che compare in quasi tutti i suoi romanzi si chiama Richard Hannay e racconta in prima persona le sue strabilianti avventure.

    Bisogna tener presente che Buchan, scozzese, nato a Perth, figlio di un ministro, frequentò Oxford e si laureò a Londra pubblicando il suo primo libro a vent’anni. Si sposò nel 1907 e, nello stesso anno, diventò socio di una casa editrice. Più tardi diresse l’Agenzia Reuter e durante la prima guerra mondiale fu corrispondente dal fronte francese.

    Ha una scrittura sciolta, rapida, senza digressioni. Nel complesso si tratta di avventure in cui si amalgamano mistero, spionaggio e poliziesco. In un saggio accurato di Benvenuti e Rizzoni, a proposito di Buchan, si puntualizza: «Richard Hannay inaugura il tipico filone inglese dell’uomo comune costretto suo malgrado a diventare un oscuro eroe, la pedina di un gioco più grande di lui; filone sul quale si inseriranno in seguito i grandi romanzi di Eric Ambler, Somerset Maugham, Graham Greene e John Le Carré».

    RENATO OLIVIERI

    Venti regole per il delitto d’autore

    suggerite da S.S. Van Dine in un articolo apparso nel settembre 1928 su American Magatine

    1. Il lettore deve avere le stesse possibilità di risolvere il mistero che ha l’investigatore. Ogni indizio e ogni traccia debbono essere accuratamente descritti e annotati.

    2. Il lettore non deve essere oggetto di trucchi e raggiri diversi da quelli che il criminale usa legittimamente nei riguardi dell’investigare.

    3. Le storie d’amore non devono essere troppo appassionanti: lo scopo è quello di condurre un criminale davanti ai giudici, non due innamorati davanti al prete.

    4. Il colpevole non deve mai essere né l’investigatore né uno dei poliziotti ufficiali. Questo è un gioco che non rende: sarebbe come far passare una moneta lucida per una moneta d’oro. Sarebbe come testimoniare il falso.

    5. Bisogna arrivare a smascherare il colpevole attraverso deduzioni logiche, non per coincidenze o per caso, o per una confessione non motivata. In questo modo, è come se si volesse avviare il lettore su una pista sbagliata, svelando poi il vero oggetto dell’indagine come si tira fuori un asso dalla manica. Un’autore che si comporti così non è che uno spiritoso di cattivo gusto.

    6. In ogni romanzo poliziesco deve esserci un poliziotto e un poliziotto è tale in quanto indaga e deduce. Suo compito è di raccogliere indizi che permettano la cattura del criminale colpevole del delitto commesso nel primo capitolo. Se il poliziotto non riesce a conseguire lo scopo secondo questo modo di procedere, in realtà non ha risolto il caso, così come non risolve il problema lo scolaro che ne copia la soluzione dal libro di matematica.

    7. In un romanzo poliziesco deve esserci almeno un morto che più è morto, meglio è. Nessun altro delitto inferiore all’assassinio merita trecento pagine. Il lettore deve essere ricompensato della spesa dell’energia impiegata!

    8. Per risolvere il problema di un delitto, bisogna basarsi su metodi rigorosamente naturali. È vietato perseguire la verità con sedute spiritiche, letture del pensiero, scritture automatiche, e altri espedienti suggestivi e magici. Il lettore può competere con un poliziotto che faccia uso di metodi razionali: se deve competere anche con gli spiriti e con la metafisica, è sconfitto in partenza.

    9. Il romanzo deve avere un solo investigatore, «deduttore» o deus ex machina che dir si voglia. Con tre, quattro, o, peggio, un intero branco di segugi si disperde l’interesse, si spezza il filo logico del discorso, e ci si pone in una posizione di vantaggio scorretta nei confronti del lettore: con più di un poliziotto nel romanzo, il lettore non saprebbe più con chi si sta confrontando, sarebbe come farlo gareggiare da solo in una corsa a staffette.

    10. L’autore del delitto deve avere una parte più o meno di rilievo nella storia, deve diventare un personaggio familiare per il lettore e deve interessarlo.

    11. I servitori non devono essere scelti come colpevoli, almeno in linee generali: ciò comporterebbe soluzioni troppo facili. Il colpevole dev’essere senz’altro una persona di fiducia, un insospettabile.

    12. Qualunque sia il numero dei delitti commessi, il colpevole deve assolutamente essere uno. Può avere complici o aiutanti, ma l’intera responsabilità dei crimini e lo sdegno del lettore devono avere un solo capro espiatorio.

    13. In un romanzo poliziesco che sia veramente tale si deve evitare di far ricorso a società segrete, sette, associazioni a delinquere e via dicendo. Una colpa collettiva rovinerebbe la genialità e l’interesse di un delitto, anche se bisogna pur concedere una possibilità al colpevole. Ma una società segreta è un espediente che nessun criminale di classe accetterebbe.

    14. I metodi del colpevole e quelli dell’investigatore devono essere assolutamente razionali e scientifici. Intendo con questo che bisogna escludere fantascienza e astuzie irreali alla maniera di Jules Verne. Se uno scrittore ricorre a metodi di questo tipo, si discosta dal genere poliziesco ed entra nel campo vasto e incontrollato del romanzo d’avventure.

    15. La soluzione del problema deve essere sempre sotto gli occhi del lettore, ammesso che vi sia un lettore abbastanza attento da vederla. Intendo dire che se il lettore, dopo essere finalmente giunto alla fine della storia e alla soluzione, ripercorre il romanzo a ritroso, deve accorgersi òhe la soluzione era evidente fin dal principio, che tutti gli indizi lo portavano verso il colpevole, e che avrebbe potuto risolvere il caso da sé, senza bisogno di leggere tutto il libro, se fosse stato astuto come il poliziotto. Questo, è ovvio, accade spesso ai lettori istruiti.

    16. Un romanzo poliziesco non deve essere troppo descrittivo, o dilungarsi in «pezzi di bravura», in analisi psicologiche, o descrizioni di atmosfere, perché tutto ciò non ha vitale importanza nelle storie di investigazione poliziesca, anzi, rallenta il ritmo, distoglie dallo scopo principale che è quello di analizzare il problema posto e condurlo a una piena soluzione. Naturalmente una narrazione, per essere verosimile, richiede un minimo di brani descrittivi e di analisi dei caratteri.

    17. Il colpevole in un romanzo poliziesco non deve mai essere un delinquente di professione: i delitti dei gangsters riguardano la polizia, non gli scrittori e i brillanti investigatori dilettanti. Un delitto è affascinante solo se è commesso da un personaggio pio o da una vecchia zitella nota per le sue opere di beneficenza.

    18. Nel romanzo poliziesco, il delitto non deve mai avvenire per caso, né deve mai trattarsi di suicidio. Sarebbe una vera truffa, per il lettore gentile e fiducioso, offrirgli una soluzione così banale e derisoria dopo tutta una faticosa sequela di indagini e investigazioni.

    19. Le motivazioni dei delitti nei romanzi polizieschi devono essere di carattere puramente personale. Complotti internazionali o cose simili appartengono a un altro tipo di narrativa. Un romanzo poliziesco deve costituire uno specchio delle esperienze quotidiane del lettore e offrire una valvola di sicurezza alle sue emozioni.

    20. Come degna conclusione di questo mio credo, ecco un elenco di espedienti che nessuno scrittore di romanzi polizieschi vorrà più usare, tanto sono abusati e noti agli appassionati del genere. Continuare a valersene significa confessare incompetenza e mancanza di inventiva: a. arrivare al colpevole confrontando la cicca trovata sul luogo del delitto con le sigarette fumate da uno dei sospetti; b. la seduta spiritica truccata e predisposta in modo da terrorizzare il colpevole e costringerlo a smascherarsi; c. l’impronta digitale falsificata; d. l’alibi fornito da un fantoccio; e. il cane che non abbaia rivelando quindi che il colpevole è uno dei membri della famiglia; f. il colpevole ha un gemello, oppure un sosia, che è sospettato, ma innocente; g. l’uso di siringhe ipodermiche o di sonniferi; h. il delitto è commesso in una stanza chiusa, dopo che la polizia vi è entrata; i. associazioni di parole che indicano colpevolezza; l. alfabeti convenzionali decifrati dall’investigatore.

    S.S. VAN DINE

    EDGAR ALLAN POE

    LE INCHIESTE DI MONSIEUR DUPIN

    Titoli originali: The Murders in the Rue Morgue; The Mystery of Marie Rogêt; The Purloined Letter.

    Traduzioni di Daniela Palladini.

    In tutto il volume le note fra parentesi quadre sono del traduttore, quelle senza parentesi dell’autore.

    I delitti della Rue Morgue

    Quale canzone cantassero le sirene, ò quale nome si fosse dato Achille quando si nascondeva tra le donne, per quanto imbarazzanti, non sono al di là di ogni possibile congettura.

    Sir Thomas Browne

    Le facoltà mentali che si definiscono analitiche non sono in se stesse molto facilmente analizzabili. Le possiamo apprezzare soltanto dai loro risultati. Quello che ne sappiamo è che per chi le possegga al massimo sono una delle più vive fonti di piacere. Come l’uomo forte gode della sua forza fisica e si compiace durante gli esercizi che mettono in azione i muscoli, così l’analitico coglie il suo momento di gloria in questa attività mentale la cui funzione è risolvere. Trae godimento anche dalle più banali occasioni in cui possa impegnare il proprio talento. Va pazzo per gli enigmi, i rebus e i geroglifici; in ogni soluzione dispiega una capacità di acume che per la gente comune assume le proporzioni del miracolo. I risultati ricavati genialmente dallo spirito e dall’assenza del metodo, hanno, in realtà, tutto l’aspetto dell’intuizione. Questa capacità di risoluzione trae probabilmente molta forza dallo studio della matematica, e in particolare, dalla più alta disciplina di questa scienza che, molto impropriamente e solo in ragione delle sue operazioni deduttive, viene definita analisi, come se fosse l’analisi par excellence. Ma calcolare non vuol dire in sé analizzare. Un giocatore di scacchi, per esempio, fa molto bene l’una cosa e ignora l’altra.

    Ne consegue che il gioco degli scacchi, nei suoi effetti mentali, è impropriamente sopravvalutato.

    Non ho intenzione di scrivere un trattato di analisi, voglio solo premettere a un singolare racconto, alcune osservazioni alla buona a mo’ di preambolo.

    Colgo l’occasione per dichiarare che le più alte facoltà della riflessione sono utilizzate più intensamente e con maggior profitto dal modesto gioco della dama che da tutta l’elaborata futilità degli scacchi. In questo gioco, dotato di pezzi dai movimenti molteplici e bizzarri, con valori diversi e variabili, la complessità, per un errore molto comune, viene scambiata per profondità. Più di altro è messa in gioco l’attenzione¹. Basta allentarla un attimo e si cade in errore, il chè comporta un danno, se non la sconfitta.

    Poiché le possibilità di mosse sono, non soltanto multiformi, ma anche complicate, le possibilità di errore sono moltiplicate; e in nove casi su dieci vince il giocatore più attento, non il più abile. Nella dama, al contrario, dove le mosse sono uniche, con solo poche varianti, le possibilità di distrazione sono ridotte al minimo, l’attenzione non è catturata interamente e tutti i passi avanti registrati da ognuno dei giocatori non possono che essere appannaggio di chi ha maggiore acume. Ma usciamo dalle astrazioni e immaginiamo una partita a dama con solo quattro dame e dove quindi non ci sia spazio per le sviste. È chiaro che in questo caso (essendo i giocatori in assoluta parità), la vittoria può essere decisa soltanto da una mossa recherchée, risultato di un forte impegno intellettuale. Privo delle risorse ordinarie, l’analista entra nello spirito dell’avversario, s’identifica con lui e spesso trova con una sola occhiata l’unica maniera, talvolta assurdamente semplice, di trarlo in errore o precipitarlo in un calcolo sbagliato.

    Spesso si cita il whist per la sua influenza sulle capacità di calcolo; e si conoscono persone di grande intelligenza che sembrano provarne un piacere apparentemente incomprensibile mentre disdegnano gli scacchi come un gioco frivolo. In effetti non c’è nessun altro gioco analogo che solleciti più di questo la capacità di analisi. Il miglior giocatore di scacchi della cristianità può non essere altro che il miglior giocatore di scacchi, ma l’abilità nel whist implica la capacità di riuscire in tutte le imprese più importanti in cui la mente sfida la mente.

    Dicendo abilità intendo quella perfezione nel gioco che implica la comprensione di tutte le fonti dalle quali si possa trarre vantaggi legittimi. Queste sono non solo molteplici, ma anche multiformi, e spesso si nascondono in recessi del pensiero inaccessibili alle intelligenze normali. Osservare attentamente significa ricordare con precisione; e da questo punto di vista, il giocatore di scacchi capace di intensa concentrazione giocherà molto bene a whist, e, d’altra parte, le regole di Hoy le, basate sul mero meccanismo del gioco, sono in generale facilmente comprensibili. Dunque avere una buona memoria e procedere secondo «il libro» sono punti considerati normalmente il massimo del buon gioco. Ma è in quanto sta al di là dei limiti delle mere regole che si manifesta il talento dell’analista. In silenzio mette insieme una massa di osservazioni e deduzioni. I suoi compagni fanno forse altrettanto, e la differenza nella portata delle informazioni così acquisite non consiste tanto nella validità della deduzione, quanto nella qualità dell’osservazione. L’importante è sapere cosa bisogna osservare.

    Il nostro giocatore non si limita al gioco, e, per quanto il gioco sia l’oggetto effettivo della sua attenzione, egli non trascura per questo le deduzioni che nascono da fatti estranei. Esamina la fisionomia del compagno confrontandola attentamente con quella di ognuno dei suoi avversari. Osserva il modo in cui ciascuno dispone le carte a ogni mano; spesso contando in base agli sguardi soddisfatti che possano sfuggire agli avversari, asso dopo asso e figura dopo figura. Nota ogni mutamento nei visi via via che il gioco procede, mettendo insieme una messe di riflessioni in base ai cambiamenti di espressione - sicurezza, sorpresa, trionfo o dispiacere. Dal modo con cui raccoglie una presa giudica se una persona è in grado di farne un’altra in seguito. Riconosce una finta dal modo in cui una carta viene gettata sul tavolo. Una parola sbadata, casuale, una carta caduta o rovesciata per caso e nascosta con ansia o noncuranza; il conto delle prese con l’ordine in cui vengono disposte; l’imbarazzo, l’esitazione, la prontezza o la trepidazione - tutto fornisce alla sua percezione manifestamente intuitiva informazioni sul vero stato delle cose. Dopo i primi due o tre giri sa esattamente le carte di ogni giocatore e può cominciare a giocare le sue carte secondo un piano ben preciso, come se gli altri avessero scoperto le proprie.

    La facoltà di analisi non deve essere confusa con la semplice ingegnosità, perché, mentre l’analista è necessariamente ingegnoso, capita spesso che l’uomo ingegnoso sia assolutamente incapace di analisi. La capacità di costruire e combinare, che generalmente permette a tale ingegnosità di manifestarsi, e a cui i frenologi, secondo me a torto, assegnano un organo a parte, supponendo che sia una facoltà primordiale, è stata riscontrata tanto spesso in persone al limite dell’idiozia, da attrarre l’attenzione di tutti gli scrittori di morale. Tra l’ingegnosità e l’attitudine analitica c’è una differenza molto più grande di quella che passa tra fantasia e immaginazione, ma di tipo rigorosamente analogo. Si vedrà insomma che l’uomo ingegnoso è sempre pieno di fantasia e che l’uomo veramente dotato di immaginazione non è altro che un analista.

    Il racconto che segue sarà per il lettore una sorta di commento alle considerazioni ora esposte.

    Nella primavera e in parte dell’estate del 18... abitai a Parigi e vi feci la conoscenza di un tale Monsieur C. Auguste Dupin. Il giovane gentiluomo apparteneva a un’ottima famiglia, una famiglia anzi illustre ma, per una serie di accadimenti malaugurati, si era ridotto in una tale povertà che l’energia del suo carattere cedette ed egli rinunciò a farsi avanti nel mondo e a cercare di rimettere in sesto le sue fortune. La generosità dei suoi creditori gli permise di restare in possesso di un piccolo residuo del suo patrimonio; con la rendita che ne ricavava poteva far fronte, grazie a rigide economie, alle necessità della vita, senza darsi pena per il superfluo. I libri erano il suo vero e unico lusso, e a Parigi non è difficile procurarseli.

    La prima volta ci incontrammo in un’oscura libreria della Rue Montmartre, dove la coincidenza di essere entrambi alla ricerca dello stesso libro, molto curioso e raro, fece nascere tra noi una stretta amicizia. Cominciammo a incontrarci spesso. Ero molto interessato alla storia della sua piccola famiglia, che egli mi raccontò minuziosamente con tutto il candore cui indulgono i francesi quando parlano di sé. Fui sorpreso della vastità delle sue letture e soprattutto fui conquistato dallo strano calore e dalla vivida freschezza della sua immaginazione.

    Date le ricerche che svolgevo a Parigi, sentii che la compagnia di un uomo simile sarebbe stata un tesoro inestimabile per me e gli confidai francamente quel che pensavo. Decidemmo di vivere insieme durante tutto il mio soggiorno in città. Poiché le mie finanze erano un po’ meno compromesse delle sue, potei affittare e ammobiliare a mie spese, in uno stile che corrispondeva alla malinconia alquanto fantastica che era comune ai nostri due caratteri, una casa fatiscente e stravagante, riitiasta abbandonata da anni per via di certe superstizioni sulle quali non indagammo, che cadeva quasi a pezzi in un angolo nascosto e desolato del Faubourg St. Germain.

    Se la gente avesse saputo che tipo di vita conducevamo in questo luogo saremmo passati per pazzi, anche se forse, inoffensivi. Il nostro isolamento era totale; non ricevevamo mai visite. In realtà il luogo del nostro ritiro era stato tenuto accuratamente segreto ai miei vecchi amici; e Dupin, da molti anni ormai, aveva smesso di vedere gente e di girare per Parigi. Vivevamo chiusi tra di noi.

    Una delle bizzarrie del carattere del mio amico (e come definirla altrimenti?) era di amare la Notte per amore della notte; e io mi lasciai andare tranquillamente a questa sua eccentricità, come a tutte le altre sue, arrendendomi con completo abbandono a questo capriccio. La nera divinità non poteva restare sempre con noi; ma noi potevamo simularne la presenza.

    Al primo albeggiare, chiudevamo tutte le pesanti imposte del vecchio edificio, accendevamo due candele molto profumate che spandevano una luce fioca e spettrale. Immersi in questo debole chiarore, abbandonavamo le nostre anime ai sogni; leggevamo, scrivevamo, conversavamo finché il pendolo non ci ricordava l’arrivo della vera Oscurità. Allora ce ne andavamo in strada, sottobraccio, continuando la conversazione del giorno, girovagando a caso fino a ore molto tarde e cercando tra le vivide luci e le tenebre dell’affollata città quelle innumerevoli eccitazioni mentali che la quieta osservazione può offrire.

    In simili circostanze non potevo fare a meno di notare e ammirare una particolare capacità analitica in Dupin (sebbene potessi aspettarmela data la sua ricca idealità).

    Sembrava, inoltre, provare un vivo diletto a esercitarla - se non a ostentarla - e non esitava a confessare il piacere che ne ricavava. Mi diceva con un risolino che molti uomini avevano per lui una finestra spalancata al posto del cuore, accompagnava questa affermazione con prove immediate, e delle più sorprendenti, di quanto profondamente conoscesse me. In quei momenti i suoi modi si facevano glaciali e distratti; i suoi occhi fissavano il vuoto e la sua voce - una voce calda di tenore, per solito - diventava acuta; poteva sembrare petulanza, non fosse stato per la determinazione nel parlare e la ricchezza delle argomentazioni.

    Osservandolo in questi stati d’animo, riflettevo spesso sull’antica filosofia dell’anima e del suo doppio: mi divertiva l’idea di un doppio Dupin, il creativo e l’analista.

    Non vorrei che pensaste, dopo quanto ho detto, che stia svelando un mistero o scrivendo un romanzo.

    Ciò che ho descritto in questo Francese era semplicemente il risultato di una intelligenza eccitata o forse malata. Ma credo che un esempio potrà dare un’idea migliore del carattere delle sue osservazioni all’epoca di cui si tratta.

    Una sera, passeggiavamo a caso per una lunga via sudicia, nei pressi del Palais Royal. Ognuno era immerso nei propri pensieri, almeno apparentemente, e da circa un quarto d’ora, non avevamo pronunciato una sola parola. D’improvviso Dupin ruppe il silenzio:

    - È proprio un ragazzo molto piccolo, è vero, sarebbe più adatto al Théâtre des Variétés.

    - Non c’è ombra di dubbio - replicai senza pensarci e senza accorgermi subito, tanto ero assorto, dello strano modo con cui questa interruzione dava voce alle mie fantasticherie. Un minuto dopo, tornai in me, e il mio stupore fu profondo.

    - Dupin - dissi molto seriamente - questo supéra la mia capacità di comprensione. Le confesso, mi lascia attonito, non credo alle mie orecchie. Come ha potuto indovinare che pensavo a...?

    Mi bloccai per avere la certezza che avesse realmente indovinato i miei pensieri.

    - ...a Chantilly? - disse; - perché si è interrotto? Stavo rimuginando sulla sua taglia minuta, non adatta alla tragedia.

    Era proprio il soggetto delle mie riflessioni. Chantilly era un ex-calzolaio della Rue St. Denis che, preso di passione per il teatro, aveva affrontato il ruolo di Serse nella tragedia di Crébillon; i suoi sfarzi avevano suscitato bordate di fischi.

    - Mi dica, per amor del cielo - esclamai - il metodo, se ce n’è uno, grazie al quale è riuscito a sondare la mia anima in proposito. - A dire il vero ero fuori di me molto più di quanto non volessi mostrare.

    - È stato il fruttivendolo - replicò il mio amico - che l’ha convinto che il ciabattilo non è abbastanza alto per Serse et id genus omne.

    - Il fruttivendolo! Mi stupisce, non conosco fruttivendoli di sorta!

    - L’uomo che l’ha urtata quando abbiamo imboccato la strada, circa un quarto d’ora fa.

    Mi ricordai allora che effettivamente un ortolano, che portava sul capo una cesta di mele, mi aveva quasi gettato in terra, mentre imboccavamo da Rue C. la strada che stavamo percorrendo. Ma quale fosse il rapporto con Chantilly, non lo capivo.

    Non c’era traccia di charlatanerie in Dupin.

    -Le spiegherò - disse - e per farle capire chiaramente, riprenderemo da capo tutte le sue riflessioni, a partire dal momento in cui le ho rivolto la parola fino alla rencontre con il fruttivendolo. Gli anelli principali della catena si susseguono in questo ordine: Chantilly, Orione, il dottor Nichols, Epicuro, la stereotomia, il pavé, il fruttivendolo.

    Poche sono le persone che non si divertono, in un qualche momento della loro vita, a ripercorrere il corso dei propri pensieri e a rintracciare per quale strada sono pervenuti a certe conclusioni. Spesso è un’occupazione di grande interesse, e chi la sperimenta per la prima volta si stupisce dell’incoerenza e della distanza apparentemente incolmabile tra il punto di partenza e il punto d’arrivo.

    Sarà facile perciò capire il mio stupore quando sentii il Francese parlare così, e fui obbligato a riconoscere che aveva detto la pura verità. Continuò:

    - Stavamo parlando di cavalli, se la memoria non m’inganna, proprio poco prima di imboccare Rue C. È stato il nostro ultimo argomento di conversazione. Appena girato su questa strada, un fruttivendolo con una cesta sulla testa passò precipitosamente davanti a noi, spingendola contro un mucchio di ciottoli ammassati in un punto in cui la strada è in riparazione. Lei è inciampato su uno di quei frammenti di pietra ed è scivolato e si è storto leggermente una caviglia; è parso irritato, risentito; ha borbottato qualche parola e si è girato a guardare il mucchio, poi ha proseguito il cammino in silenzio. Non è che stessi attento a tutto quello che faceva, ma ormai, da un pezzo, l’osservazione è diventata per me una specie di necessità.

    Ha continuato a tenere gli occhi rivolti al suolo, osservando con una sorta di irritazione le buche e i solchi del percorso (tanto che mi sono accorto che continuava a pensare alle pietre), finché non abbiamo raggiunto la stradetta chiamata di Lamartine, pavimentata in via sperimentale con lastre accostate e fissate solidamente. Qui il suo volto s’è rischiarato, ho visto le sue labbra muoversi e ho indovinato, senza ombra di dubbio, che stava mormorando la parola «stereotomia» un termine applicato con una certa pretesa a quel genere di pavimentazione. Sapevo che non poteva pronunciare il termine stereotomia senza associarlo agli atomi e quindi a Epicuro, e poiché in una nostra recente conversazione, a questo proposito, le avevo fatto notare che le vaghe congetture dell’illustre greco erano state curiosamente confermate, senza che nessuno se ne rendesse conto, dalle più recenti teorie sulle nebulose e dalle ultime scoperte cosmogoniche, sentii che lei non avrebbe potuto fare a meno di sollevare gli occhi verso la grande nebulosa di Orione; me lo aspettavo. Lei non mancò di farlo: allora fui sicuro di aver colto il percorso della sua mente. Ora l’autore di quella velenosa amara satira contro Chantilly, comparsa ieri sul Musée, facendo allusioni malevole al fatto che il ciabattino ha cambiato nome da quando ha calzato i coturni, citava un verso latino di cui abbiamo discusso spesso. Intendo:

    Perdidit antiquum litera prima sonum.

    Io sostenevo che si riferiva a Orione che un tempo si scriveva Urione, e, per certe asprezze della discussione, ero sicuro che non l’avesse dimenticato. Pertanto ero certo che non poteva mancare di associare le due idee di Chantilly e di Orione. Questa associazione mentale mi fu chiara vedendo il genere di sorriso che aleggiò sulle sue labbra. Stava pensando al sacrificio del povero calzolaio. Fino a quel momento aveva proceduto tutto curvo, ma ora la vidi drizzarsi in tutta la sua altezza. Fui sicuro che stava pensando alla minuscola figura di Chantilly. A questo punto ho interrotto le sue riflessioni per osservare che in realtà questo Chantilly era un uomo piccolissimo, e che sarebbe stato più adatto al Théâtre des Variétés.

    Poco tempo dopo questo colloquio, mentre leggevamo l’edizione della sera della Gazette des Tribunaux, ci colpì questo articolo:

    DELITTI SENSAZIONALI

    Questa mattina alle tre gli abitanti del quartiere St. Roch sono stati risvegliati da una serie di spaventose urla che sembravano provenire dal quarto piano di una casa della Rue Morgue, notoriamente abitata soltanto da una certa Madame L’Espanaye e da sua figlia, Mademoiselle Camille L’Espanaye. Dopo il ritardo dovuto àgli inutili tentativi di entrare con i mezzi usuali, fu forzato il portone con una sbarra e otto o dieci vicini entrarono accompagnati da due gendarmi.

    Nel frattempo le grida erano cessate; ma mentre il gruppo si precipitava sulla prima rampa di scale, si udirono distintamente due o più voci aspre, altercanti, che sembravano provenire dalla parte superiore della casa.

    Raggiunto il secondo pianerottolo, anche questo frastuono era parso cessare e tutto era tornato tranquillo. I vicini si sparpagliarono correndo di stanza in stanza. Arrivati in una vasta camera situata sul retro, al quarto piano (di cui fu necessario forzare la porta che era chiusa a chiave e con la chiave nella toppa), si trovarono davanti a uno spettacolo che riempì gli astanti di orrore oltre che di meraviglia.

    La stanza era nel più grande disordine; i mobili erano distrutti e i pezzi erano sparsi dovunque. C’era una sola lettiera, da cui il pagliericcio era stato tolto e gettato in mezzo al pavimento. Su una seggiola c’era un rasoio sporco di sangue, sul caminetto tre lunghe e grosse ciocche di capelli umani grigi, anch’esse sporche di sangue, che sembravano strappate dalle radici. Sul pavimento furono rinvenuti quattro napoleoni, un orecchino ornato di topazio, tre grandi cucchiai d’argento, tre più piccoli di métal d’Alger e due borse contenenti circa quattromila franchi d’oro. I cassetti di un bureau, che si trovava in un angolo, erano aperti e erano stati sicuramente saccheggiati anche se contenevano ancora molti oggetti. Un cofanetto di ferro venne scoperto sotto il letto (non sotto la lettiera). Era aperto con la chiave nella serratura. Conteneva soltanto qualche vecchia lettera e altre carte senza importanza.

    Di Madame L’Espanaye, nessuna traccia; ma, essendo stata notata nel caminetto una eccessiva quantità di fuliggine, ispezionando la cappa (orribile a dirsi!), ne è stato estratto il corpo della figlia, a testa in giù. Era stato introdotto a forza nella stretta apertura fino a discreta altezza. Il corpo era ancora caldo. Esaminandolo, si sono riscontrate varie escoriazioni prodotte sicuramente dalla violenza con cui era stato spinto nella canna fumaria e successivamente estratto. Il volto mostrava numerosi graffi profondi e la gola era segnata da lividi e profonde incisioni di unghie, come se fosse stata uccisa per strangolamento.

    Dopo un minuzioso esame di ogni angolo della casa, che non ha condotto a nessun nuovo particolare, i vicini si sono introdotti in un cortiletto lastricato sul retro del palazzo. Là, giaceva il cadavere della vecchia signora, con la gola tagliata così di netto che, quando hanno cercato di sollevarla, la testa si è staccata. Il corpo, come la testa, era orribilmente mutilato, in modo tale da non conservare una apparenza umana.

    Tutta questa faccenda resta avvolta in un orrendo mistero, e finora, a quanto sappiamo, non è stato rintracciato il minimo filo conduttore.

    Il giornale del giorno seguente aggiungeva altri particolari:

    LA TRAGEDIA DELLA RUE MORGUE

    Sono state interrogate diverse persone su questo terribile e straordinario affare [la parola affaire non ha ancora in Francia la frivolezza di significato che ha da noi], ma niente è trapelato che servisse a gettare un po’ di luce sulla vicenda. Forniamo qui di seguitole deposizioni rilasciate:

    Pauline Dubourg, lavandaia, testimonia che conosceva le signore da tre anni, e che per tutto questo tempo ha lavorato per loro. La vecchia signora e sua figlia sembravano intendersi bene ed erano molto affettuose l’una con l’altra. Ottime pagatrici. Non è in grado di dire niente sul loro genere di vita né sulle loro sostanze. Crede che Madame L’Espanaye predicesse il futuro per campare. Passava per una che aveva denaro da parte. Non ha mai incontrato nessuno in casa quando andava a consegnare la biancheria o a ritirarla. È sicura che non avessero persone di servizio. Sembrava che non ci fossero mobili in nessuna parte dell’edificio, salvo al quarto piano.

    Pierre Moreau, tabaccaio, testimonia di avere fornito abitualmente per quasi quattro anni Madame L’Espanaye di piccole quantità di tabacco, anche da fiuto. È nato nel quartiere e vi ha sempre vissuto. La defunta e sua figlia occupavano, da oltre sei anni, la casa dove hanno ritrovato i loro cadaveri. Precedentemente era abitata da un gioielliere, che subaffittava le stanze dei piani superiori a varie persone. La casa apparteneva a Madame L’Espanaye. Molto scontenta di come il suo inquilino faceva uso della casa, era andata ad abitarvi personalmente, rifiutandosi di affittarne anche una sola parte. La vecchia .signora aveva qualcosa di infantile. Il testimone dice di aver vistola figlia cinque o sei volte in quei sei anni. Tutte e due conducevano una vita eccessivamente ritirata; passavano per persone benestanti. Aveva sentito dire dai vicini che Madame L’Espanaye leggeva il futuro, ma lui non ci credeva. Non ha mai visto nessuno oltrepassare la soglia di quella casa, tranne la vecchia signora e sua figlia, una o due volte un fattorino, e otto o dieci volte un medico.

    Varie persone depongono nello stesso senso. Non si sa di nessuno che frequentasse la casa. Nessuno sapeva se le due donne avessero parenti viventi. Gli scuri delle finestre della facciata venivano aperti di rado. Quelli del retro erano sempre chiusi, tranne quelli della grande stanza sul retro del quarto piano. La casa era bella, non molto vecchia.

    Isidore Musset, gendarme, depone di essere stato chiamato verso le tre del mattino, e di aver trovato sul portone venti o trenta persone che cercavano di entrare. Lo ha forzato alla fine con la baionetta e non con una sbarra. Non ha avuto grandi difficoltà ad aprirlo, visto che era a due battenti e non c’era catenaccio né in alto né in basso. Le grida sono continuate fino a che la porta non è stata aperta, poi sono cessate, improvvisamente. Potevano essere le grida di una o più persone in preda a gravi sofferenze, grida acute e prolungate, non brevi e discontinue. Il testimone è salito davanti a tutti. Giunto al primo pianerottolo, ha sentito due persone che litigavano ad alta voce e molto aspramente: l’una, era una voce rude, l’altra molto più stridula, una voce stranissima. Ha colto alcune parole della prima, era quella di un Francese. È certo che non si trattasse di una voce femminile. Ha udito le parole sacré e diable. La voce stridula era straniera, ma non si può dire se di uomo o di donna. Non è riuscito a capire cosa stesse dicendo, ma pensa che parlasse spagnolo. Il testimone riferisce sullo stato della stanza e dei cadaveri negli stessi termini da noi usati ieri.

    Henri Duval, un vicino, di professione orafo, testimonia di aver fatto parte del gruppo entrato per primo nella casa. Conferma in generale la testimonianza di Musset. Dopo essersi introdotti nella casa, hanno sbarrato la porta per impedire l’ingresso alla folla che si era ammassata, malgrado l’ora.

    La voce stridula, a suo dire, era quella di un Italiano. Certamente non di un Francese. Non è sicuro che fosse una voce maschile: ma poteva anche essere una voce di donna. Il testimone non ha familiarità con la lingua italiana; non è riuscito a distinguere le parole, ma è convinto dall’intonazione che parlasse italiano. Ha conosciuto Madame L’Espanaye e sua figlia. Ha parlato con loro spesso. È certo che la voce stridula non fosse di nessuna delle due vittime.

    Odenheimer, restaurateur... Questo testimone si è presentato volontariamente. Non parla francese. È stato interrogato con l’aiuto di un interprete. È nato ad Amsterdam. Passava davanti alla casa al momento delle urla. Sono durate alcuni minuti, forse dieci. Erano urla prolungate, molto alte, spaventose, grida sconvolgenti. È stato uno di quelli entrati nella casa. Ha confermato in tutto le testimonianze precedenti, a eccezione di un solo punto. È sicuro che la voce stridula fosse quella di un uomo, di un Francese. Non ha distinto le parole: erano pronunciate a voce alta, precipitosa e discontinua, che esprimeva paura insieme a collera. Una voce aspra, più aspra che stridula. Non può chiamarla stridula. La voce rude ha detto a più riprese: «sacré», «diable» e una yolta «mon dieu».

    Jules Mignaud, banchiere, della ditta Mignaud e Figli, Rue Deloraine. È il maggiore dei Mi gnaud. Madame L’Espanaye aveva delle proprietà. Aveva aperto un conto nella sua banca nella primavera del... (otto anni prima). Depositava frequentemente piccole somme di denaro. Non aveva mai ritirato nulla fino a tre giorni prima della morte, quando era andata a prelevare di persona la somma di 4000 franchi. La somma le era stata pagata in oro e un impiegato era stato incaricato di consegnargliela a casa.

    Adolphe Le Bon, impiegato presso Mignaud e Figli, testimonia che il giorno in questione, verso mezzogiorno, ha accompagnato Madame L’Espanaye fino a casa sua con i 4000 franchi sistemati in due borse. Quando la porta si aprì, comparve Mademoiselle L’Espanaye che prese dalle sue mani una delle due borse, mentre la vecchia signora lo liberava dell’altra. Accomiatatosi con un inchino, era andato via. Nella strada in quel momento non aveva visto nessuno. Si tratta di una strada secondaria molto solitaria.

    William Bird, sarto, testimonia di essere fra quelli che sono entrati in casa. È inglese. Ha vissuto due anni a Parigi. È stato uno dei primi a salire le scale. Ha sentito le voci dell’alterco. La voce rude era di un Francese, è riuscito a distinguere alcune parole ma non le ricorda. Ha sentito distintamente sacré e mon dieu. Sembrava un litigio, un rumore come di colluttazione, fra più persone^ con oggetti in frantumi e trascinati. La voce stridula era molto forte, più forte della voce rude. È sicuro che non fosse la voce di un inglese. Gli parve quella di un tedesco; forse anche di donna. Non capisce il tedesco.

    Quattro dei testimoni appena menzionati sono stati convocati una seconda volta e hanno dichiarato che la porta della camera in cui si trovava il corpo di Mademoiselle L’Espanaye era chiusa dall’interno quando sono arrivati: tutto taceva; non gemiti o rumore di sorta. Dopo aver forzato la porta non videro nessuno. Le finestre della camera sul retro e di quella sulla facciata erano chiuse e sprangate da dentro. Una porta di comunicazione tra le due stanze era chiusa, ma non a chiave. La porta tra la camera sulla facciata e il corridoio era chiusa a chiave dall’interno; una stanzetta verso la strada, al quarto piano, all’inizio del corridoio, era aperta, con la porta socchiusa; la stanza era ingombra di vecchi letti, casse, eccetera. Tutti gli oggetti sono stati accuratamente tirati fuori e ispezionati. Non un solo centimetro quadrato della casa è stato trascurato: sono state fatte passare scope su e giù per i camini. La casa è a quattro piani con mansarde (mansardes). Una botola che dà sul tetto era stata inchiodata e chiaramente non era stata aperta da anni. I testimoni divergono sulla durata dell’intervallo tra il momento in cui sono esplose le voci e quello in cui è stata forzata la porta. Per alcuni, è un intervallo molto breve di due, tre minuti, per altri, di cinque. La porta è stata aperta con molta fatica.

    Alfonso Garcio, impresario di pompe funebri, dichiara di abitare in Rue Morgue. È nato in Spagna. È uno di coloro che sono entrati nella casa. Non ha salito le scale. I suoi nervi sono molto fragili e teme le conseguenze di un’emozione. Ha sentito le voci che litigavano. La voce rude era quella di un Francese. Non è riuscito a distinguere cosa dicesse. La voce stridula era quella di un Inglese, ne è sicuro. Il testimone non conosce l’inglese, e il suo parere nasce dal tipo di intonazione.

    Alberto Montani, pasticciere, testimonia di essere stato uno dei primi a salire su per le scale. Ha sentito le voci in questione. La voce rude era quella di un Francese. È riuscito a distinguere qualche parola. La persona che parlava sembrava fare rimproveri. Non è riuscito a cogliere cosa stesse dicendo la voce stridula. Parlava velocemente e in modo concitato. Gli è parsa la voce di un Russo. Conferma in generale le testimonianze degli altri. È Italiano; confessa di non aver mai parlato con un Russo.

    Alcuni testimoni, riconvocati, attestano che i camini in tutte le stanze del quarto piano sono troppo stretti per permettere il passaggio di una persona. Quando avevano parlato di scope, intendevano quelle cilindriche che servono per pulire i camini. Le spazzole sono state fatte passare su e giù in tutti i camini della casa. Sul retro non vi è alcun passaggio che possa avere favorito la fuga dell’assassino, mentre i testimoni salivano per le scale. Il corpo di Mademoiselle L’Espanaye era tanto incastrato nel camino che per estrarlo era stato necessario lo sforzo congiunto di quattro o cinque persone.

    Paul Dumas, medico, testimonia di essere stato chiamato all’alba per esaminare i cadaveri. Giacevano entrambi sulla tela della lettiera nella camera dove era stata ritrovata Mademoiselle L’Espanaye. Il cadavere della giovane donna era pieno di lividi e di escoriazioni spiegabili per il fatto che era stato introdotto a forza nel camino. La gola era stranamente scorticata. Proprio sotto il mento vi erano profondi graffi e macchie livide, evidentemente impronte di dita. La faccia era spaventosamente pallida e gli occhi fuoriuscivano dalle orbite. La lingua era mozzata a metà, una grossa ecchimosi riscontrata alla bocca dello stomaco era stata provocata, stando alle apparenze, dalla pressione di un ginocchio. Secondo Monsieur Dumas, Mademoiselle L’Espanaye era stata strangolata da uno o più individui sconosciuti. Il cadavere della madre si presentava orribilmente mutilato. Tutte le ossa della gamba e del braccio destro erano fratturate; la tibia sinistra era molto frantumata come le costole dallo stesso lato. Tutto il corpo era orribilmente coperto di ecchimosi e lividi. Era impossibile capire come lesioni simili avessero potuto essere inferte. Un pesante randello o una grossa sbarra di ferro, Una sedia, un’arma massiccia, pesante e smussata, avrebbe potuto produrre tali effetti se maneggiata da un uomo eccezionalmente robusto. Con nessun tipo di arma, quei colpi avrebbero potuto essere stati inferti da una donna. La testa della defunta, quando il testimone la vide, era staccata completamente dal corpo, e, come il resto, fratturata. La gola era stata evidentemente recisa con uno strumento molto affilato, probabilmente un rasoio.

    Alexandre Etienne, chirurgo, è stato chiamato contemporaneamente a Monsieur Dumas, per esaminare i cadaveri; conferma la testimonianza e l’opinione di Monsieur Dumas.

    Benché siano state ascoltate molte altre persone, non è stato possibile ottenere nessun’altra informazione di un qualche valore.

    Mai delitto così misterioso e sconcertante in tutti i suoi particolari è stato commesso prima a Parigi, ammesso che ci sia stato delitto. La polizia è completamente disorientata, fatto non usuale in questioni del genere. Non esiste comunque, a quanto sembra, alcun indizio.

    L’edizione della sera del giornale segnalava che nel quartiere St. Roch regnava ancora una profonda agitazione; che i luoghi del misfatto erano stati nuovamente esplorati e i testimoni erano stati nuovamente interrogati, ma sempre senza risultato. Tuttavia un post-scriptum rendeva noto che Adolphe Le Bon, il commesso della banca, era stato arrestato e imprigionato, anche se niente sembrava sufficiente a incriminarlo, oltre i noti fatti.

    Dupin sembrava molto interessato agli sviluppi del caso, almeno per quanto potevo dedurre dal suo comportamento, perché, quanto a parole, non aveva fatto commenti. Soltanto dopo l’annuncio sul giornale dell’arresto di Le Bon mi chiese il mio parere sul doppio assassinio.

    Dovetti confessare che come per tutta Parigi, per me era un mistero insolubile. Non vedevo come fosse possibile individuare l’assassino.

    - Non dobbiamo giudicare della modalità da questo embrione di inchiesta - disse Dupin - la polizia parigina, tanto decantata per il suo acumen, è soltanto abile, niente di più. Procede senza metodo, oltre il metodo del momento. Fa mostra di molte misure, ma spesso sono talmente inadatte allo scopo che fanno pensare a M. Jourdain che chiedeva la sua robe-de-chambre, pour mieux entendre la musique. I risultati ottenuti sono talvolta sorprendenti, ma, in un gran numero di casi, sono dovuti soltanto a diligenza e zelo. Quando queste qualità vengono meno, i loro sistemi falliscono. Vidocq, per esempio, era ricco di intuito, era perseverante; ma il suo pensiero era carente, andava continuamente fuori strada per eccesso di ardore nelle indagini. Riduceva la portata della sua visione per voler guardare le cose troppo da vicino. Coglieva con particolare acutezza uno o due punti, ma con il suo metodo, naturalmente perdeva di vista la materia nel suo insieme, per un eccesso di profondità. La verità non sta sempre in fondo a un pozzo. In realtà, per quanto concerne le nozioni più importanti, credo che sia invariabilmente in superficie. La cerchiamo in fondo alla valle e non sulla cima delle montagne dove si trova.

    Modi e fonti di questo tipo di errore, li possiamo trovare nell’osservazione dei corpi celesti. Gettare un’occhiata veloce a una stella, guardarla con la coda dell’occhio con la parte esterna della retina (più sensibile della parte centrale a una fioca luce), permette di vedere la stella distintamente e di apprezzarne adeguatamente la luminosità che si attenua man mano che volgiamo lo sguardo in pieno su di essa. Nell’ultimo caso infatti l’occhio è investito da un numero maggiore di raggi, ma, nel primo, si ha una più raffinata capacità di percezione. Una profondità esagerata indebolisce il pensiero e ci rende perplessi; un’osservazione troppo sostenuta, troppo concentrata o troppo diretta potrebbe far scomparire dal firmamento perfino Venere.

    Quanto a questi delitti, passiamo ad indagare da soli prima di dare un giudizio. Un’indagine ci divertirà [mi parve un’espressione bizzarra, applicata a questo caso, ma non dissi niente]; e, inoltre, una volta Le Bon mi fece un piacere, e non voglio mostrarmi ingrato. Andremo sul posto e osserveremo con i nostri occhi. Conosco G., il prefetto di polizia, e otterremo senza difficoltà le necessarie autorizzazioni.

    Il permesso fu accordato e andammo direttamente a Rue Morgue. Si tratta di una di quelle miserabili stradette che collegano Rue Richelieu a Rue St. Roch. Era già tardo pomeriggio quando arrivammo: è infatti un quartiere molto distante da quello in cui abitavamo. Identificammo la casa con facilità, vista la grande folla che vi stazionava davanti intenta a spiarne le finestre chiuse con una curiosità ottusa dall’altro lato della strada. Era una casa come ce ne sono molte a Parigi, con un portone che aveva su un lato una guardiola a vetri con un pannello scorrevole, evidentemente la loge de concierge.

    Prima di entrare andammo oltre, svoltammo in una stradina, svoltammo ancora e arrivammo così sul retro del palazzo. Dupin intanto esaminava i dintorni oltre che la casa, con un’attenzione minuziosa di cui non riuscivo a capire il senso.

    Ritornammo sui nostri passi verso il davanti, suonammo, mostrammo il permesso e gli agenti ci lasciarono entrare.

    Salimmo fino alla camera dove era stato trovato il cadavere di Mademoiselle L’Espanaye e dove giacevano ancora i due cadaveri. Il disordine della camera non era stato alterato, come si deve fare in questi casi. Non notai niente di più di quanto riferito dalla Gaiette des Tribunaux.

    Ogni cosa venne analizzata attentamente da Dupin, e anche i due corpi. Passammo poi nelle altre stanze e scendemmo nei cortili, sempre accompagnati da un gendarme.

    La visita durò a lungo e quando lasciammo la casa era buio. Sulla via del ritorno il mio amico si fermò qualche minuto negli uffici di un quotidiano.

    Ho già detto che il mio amico presentava comportamenti molto bizzarri e che je les ménageais (questa frase non ha un equivalente in inglese): decise di evitare ogni conversazione sul delitto fino al giorno seguente, verso mezzogiorno. Solo allora mi chiese all’improvviso, se avevo notato qualche cosa di peculiare sulla scena del delitto.

    Nel pronunciare la parola peculiare assunse un tono che mi trasmise un brivido, senza sapere perché.

    - No, niente di peculiare - dissi - almeno niente di più di quanto abbiamo letto sul giornale insieme.

    - La Gazette - rispose - non ha, credo, colto appieno l’insolito orrore della vicenda. Comunque lasciamo stare le oziose opinioni di quel foglio. Ho l’impressione che il mistero sia considerato insolubile per la stessa ragione che dovrebbe farlo considerare di facile soluzione - parlo del carattere outré con cui si presenta. La polizia è confusa dall’apparente assenza di moventi - non del delitto in sé - ma dell’atrocità del delitto. È stata posta in difficoltà dall’impossibilità apparente di conciliare le voci che litigavano con il fatto che di sopra non sia stato scoperto nessuno oltre Mademoiselle L’Espanaye, assassinata, e che non ci fosse modo di uscire senza essere visti dalla gente che saliva per le scale. Lo strano disordine della stanza, il cadavere spinto a testa in giù nel camino, la spaventosa mutilazione del corpo della vecchia signora - queste considerazioni miste a quelle menzionate e ad altre di cui per ora non è necessario parlare, sono state sufficienti per paralizzare le autorità e per portare completamente fuori strada il tanto decantato acumen degli agenti. Hanno commesso l’errore più grande e comune, di confondere lo straordinario con l’astruso. Ma è proprio seguendo queste deviazioni dalla normalità che la ragione trova la propria strada, se possibile, nella ricerca della verità. In un’indagine come quella che ci occupa, non bisogna tanto chiedersi «cosa è successo» quanto piuttosto «che è successo che non è mai successo prima». Infatti, la facilità con cui perverrò, o sono già pervenuto, alla soluzione del mistero, è direttamente proporzionale alla sua apparente insolubilità agli occhi della polizia.

    Lo fissai ammutolito dallo stupore.

    - Sono in attesa - continuò guardando verso la porta del nostro appartamento - di qualcuno che sebbene forse non sia l’autore di questa carneficina, deve comunque trovarvisi in parte implicato. Probabilmente è innocente della parte più efferata dei crimini commessi. Spero di non sbagliarmi in questa mia ipotesi; è proprio su questa ipotesi che fondo la speranza di decifrare l’intero enigma. Aspetto l’uomo qui, in questa stanza, da un momento all’altro. È vero che potrebbe non venire affatto, ma è probabile che venga. Se viene sarà necessario trattenerlo. Queste sono le pistole, sappiamo tutti e due come usarle all’occorrenza.

    Presi le pistole, senza sapere bene cosa stessi facendo, quasi senza credere a ciò che udivo, mentre Dupin continuava in una sorta di monologo.

    Ho già detto del suo astrarsi in quei momenti. Il suo discorso era rivolto a me; ma la sua voce, senza essere alta, aveva quella intonazione che abitualmente si usa per parlare a qualcuno che si trovi a grande distanza. Gli occhi, senza espressione, guardavano solo il muro.

    - Le voci infuriate - diceva - le voci sentite da quelli che salivano le scale non erano quelle delle due sventurate donne: è evidente. Questo ci toglie il dubbio che la vecchia signora abbia ucciso prima sua figlia e poi si sia suicidata. Dico questo solo per amore del metodo; infatti le forze di Madame L’Espanaye non sarebbero state sufficienti a introdurre il corpo della figlia su per il camino, così come è stato trovato; e le ferite riscontrate sul suo corpo escludono ogni ipotesi di suicidio. Il delitto è quindi opera di terze persone e le voci di costoro sono quelle udite in quel litigio. Mi consenta di richiamare la sua attenzione non sulle deposizioni complete circa queste voci, ma su quanto vi è di peculiare in queste deposizioni. Non ha notato qualcosa di strano?

    Mi aveva colpito il fatto che mentre tutti sembravano d’accordo che la voce rude fosse quella di un Francese, c’erano molti pareri discordi sulla voce stridula o, come qualcuno dei testimoni l’aveva definita, la voce aspra.

    - Questa è la testimonianza - disse Dupin - ma non la sua peculiarità. Non ha notato niente di più specifico? Eppure c’era qualcosa da notare. I testimoni, come lei ha osservato, sono d’accordo sulla voce rude: all’unanimità. Invece sulla voce stridula, c’è un dato rilevante che non è il loro disaccordo, ma il fatto che un Italiano, uno Spagnolo, un Olandese e un Francese dovendo descriverla, la definiscono tutti come la voce di uno straniero, ognuno è sicuro che non sia la voce di un compatriota. Per nessuno di loro è una lingua familiare, anzi proprio il contrario. Per il Francese era la voce di uno Spagnolo, e dice che avrebbe potuto distinguere qualche parola, se avesse avuto dimestichezza con lo spagnolo. L’Olandese afferma che si trattava della voce di un Francese, ma si sa che il testimone, non conoscendo una parola di francese, ha dovuto essere interrogato con l’aiuto di un interprete. L’Inglese pensa che si trattasse della voce di un Tedesco, ma non capisce il tedesco. Lo Spagnolo è «assolutamente sicuro» che fosse la voce di un Inglese, ma «giudica soltanto dall’intonazione», perché non ha alcuna conoscenza dell’inglese. L’Italiano crede sia la voce di un Russo, ma non ha mai avuto occasione di parlare con un Russo.

    Un secondo Francese, però, diversamente dal primo, è certo che si tratti di un Italiano e non conoscendo l’italiano, come lo Spagnolo, desume la certezza dall’intonazione.

    Questa voce doveva perciò essere molto insolita e strana, per poter dar luogo a simili testimonianze! Una voce, nel cui accento cittadini delle cinque nazioni più importanti d’Europa, non hanno potuto riconoscere toni familiari! Potrebbe obiettarmi che poteva trattarsi della voce di un Asiatico o di un Africano. Ma Africani e Asiatici non abbondano a Parigi; senza negare questa possibilità, richiamerò la sua attenzione su tre punti. Un testimone descrive la voce «più aspra» che stridula. Due altri ne parlano come di una voce «precipitosa e discontinua». Questi testimoni non hanno

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