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Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 - volume ottavo
Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 - volume ottavo
Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 - volume ottavo
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Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 - volume ottavo

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Volume ottavo
Annali d’Italia è una delle opere principali di Lodovico Antonio Muratori. In essa Muratori fece confluire tutte le notizie di sua conoscenza, a lui disponibili, sulla storia d’Italia, dai suoi inizi fino al 1750. Gli Annali contengono continui riferimenti alle moltissime storie anteriori che il Muratori aveva potuto consultare, sia a quelle pubblicate sia a quelle tramandate in forma manoscritta.
LinguaItaliano
EditoreE-text
Data di uscita1 mag 2021
ISBN9788828102540
Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 - volume ottavo

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    Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 - volume ottavo - Lodovico Antonio Muratori

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    QUESTO E-BOOK:

    TITOLO: Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 - volume ottavo

    AUTORE: Muratori, Lodovico Antonio [vedi note]

    TRADUTTORE:

    CURATORE:

    NOTE: Il testo, pubblicato sotto il nome di Ludovico Antonio Muratori, è in realtà di competenza di Antonio Coppi.

    Il testo è presente in formato immagine sul sito The Internet Archive (https://www.archive.org/). Realizzato in collaborazione con il Project Gutenberg (https://www.gutenberg.org/) tramite Distributed Proofreader (https://www.pgdp.net/).

    CODICE ISBN E-BOOK: 9788828102540

    DIRITTI D'AUTORE: no

    LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

    COPERTINA: [elaborazione da] Reddition de Mantoue, le 2 février 1797: le général Wurmser se rend au général Sérurier (1812) di Hippolyte Lecomte  (1781 – 1857) - Château de Versailles, Yvelines,  France – https://it.wikipedia.org/wiki/File:Lecomte_-_Reddition_de_Mantoue,_le_2_février_1797,_le_général_Wurmser_se_rend_au_général_Sérurier.jpg - Pubblico Dominio.

    TRATTO DA: Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750 / compilati da L. Antonio Muratori e continuati sino a' giorni nostri - volume ottavo - Venezia : G. Antonelli, 1847 - 1230 col. ; 26 cm.

    CODICE ISBN FONTE: n. d.

    1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 8 gennaio 2019

    INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1

      0: affidabilità bassa

      1: affidabilità standard

      2: affidabilità buona

      3: affidabilità ottima

    SOGGETTO:

    HIS020000 STORIA / Europa / Italia

    DIGITALIZZAZIONE:

    Distributed Proofreader, https://www.pgdp.net/

    REVISIONE:

    Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

    IMPAGINAZIONE:

    Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

    Carlo F. Traverso (ePub)

    Marco Totolo (revisione ePub)

    PUBBLICAZIONE:

    Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

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    ANNALI

    D'ITALIA

    DAL

    PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE

    SINO ALL'ANNO 1750

    COMPILATI

    DA L. ANTONIO MURATORI

    E

    CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI

    VOLUME OTTAVO

    www.liberliber.it

    CONTINUAZIONE

    AGLI

    ANNALI D'ITALIA

    DI

    LOD. ANT. MURATORI

    Chiunque abbia letto sin qui gli Annali d'Italia compilati da Lodovico Antonio Muratori avrà veduto quale immensa tela sia venuto intessendo l'illustre autore per discorrere l'italiana istoria di questi dieciotto secoli, senza che dalla necessità di balzare ogni anno da un punto all'altro della penisola sia derivato al suo lavoro interrompimento o disordine; ed avrà insieme ammirato in che giudizioso modo sia egli riuscito a mettere in tutto il loro lume i veri motivi che preparato hanno i più notabili cambiamenti e le conseguenze che gli accompagnarono; a fissare i luoghi e i tempi precisi che sono stati il teatro, o l'epoca degli innumerevoli avvenimenti narrati; a disgombrare ogni incertezza dall'ignoranza, dalla malizia, dalla inavvertenza o precipitazione degli antichi scrittori passata negli scrittori susseguenti; a sceverare dalle favole la verità; a rendere la dovuta giustizia a quei personaggi che le passioni aveano indebitamente o encomiati o biasimati, e, se dato non era raggiugnere la certezza, ad accennarne almeno ciò che più alla probabilità ed alla verisimiglianza si atteneva; ad interessare infine i lettori con un quadro svariatissimo in cui i trionfi o i danni della virtù contrastano colle alternate vicende del vizio, talvolta fortunato, ma quasi sempre punito o almeno smascherato e fatto segno al dispregio ed all'odio universale.

    Spesa la maggior parte della vita a scorrere il vasto campo della erudizione, indagando, discutendo ed illustrando le antichità dell'Italia, il Bibliotecario modonese, divenuto per tal guisa possessore d'immensi tesori, o sconosciuti o generalmente poco noti, si aprì la strada alla grande impresa, cui il fino suo discernimento giovò ad appianare e ad imprimere di quella profonda ragione storica che spicca in tutti gli altri suoi scritti.

    Esattezza somma e precisione riguardo ai luoghi, ai tempi ed alle cose accadute principalmente dal cominciare del quinto secolo sino al principio del decimosesto; sagacità e gran fondo di sana critica per determinare la vera cronologia, nè ammettere ciecamente il maraviglioso d'una fantasia riscaldata, nè i pravi giudizii della malignità o i delirii d'una puerile superstizione; esposizione sincera delle più strepitose rivoluzioni, se pur non abbia a dirsi delle calamità dell'Italia, purificata da quella tinta bugiarda che il genio, il partito, il timore o la speranza, la disperazione o il dolore aveano consigliato agli scrittori contemporanei; ecco il frutto delle estesissime cognizioni in fatto di storia acquistate coi diuturni suoi studii dal nostro Muratori, il quale, non taciuti i vizii ed i difetti, ma nè anche per avventura le virtù degli Attila, degli Alarico, degli Odoacre, degli Alboino, de' due Pippino, dei Carlo Magno, narra poi con ordine, con chiarezza e con tutta la imparzialità le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, i travagli dei romani pontefici, le intestine discordie delle città, le mutazioni dei reggimenti, le rivalità delle provincie ed il contendere dei varii popoli, i fasti e le sciagure di questa, bella e troppo sventurata parte dell'Europa.

    Se non che, ad esercitare le precipue virtù dello storico, il proprio giudizio e la sincerità, grandemente libero campo gli lasciava la lontananza dei tempi dei quali tenea parola; laonde potea rendere omaggio al merito, al valore ed alla virtù senza che nissuna gelosia si accendesse, e giustamente notare d'infamia il demerito, la viltà ed il vizio senza tema di dispiacere ad alcuno. Imperocchè, estinti interamente o in molto gl'interessi del momento, raffreddato lo spirito di parte, cessate le nemicizie e le rivalità, ed in tutto o parzialmente sanate le piaghe ad una nazione cagionate da disgrazie e da politici o guerrieri flagelli, può lo scrittore farsi sicuro di non incorrere sì di leggieri la taccia di maligno, di bugiardo, di adulatore, d'entusiasta, e sottrarre si può al pericolo di essere male interpretato, come se la sua fantasia preoccupata gli avesse fatto invadere il dominio della fredda ragione, o se il preteso suo zelo animato si fosse con danno di qualche altra passione.

    Ma ben altramente procede la bisogna per chi imprenda a parlare di cose correnti e vicine: non v'ha cautela che basti. Sia pure e debba pur essere la verità l'anima dello storico, debba pur tutto subordinarsi alla sua legge, ognuno però conviene che grande riservatezza è mestieri nel maneggiare questa verità della storia che ignuda non può sempre comparire mentre ancor durano e sono in fermento gl'interessi ed i partiti, gli odii e gli affetti degli uomini, le cui azioni formano il tema della narrazione, e, peggio ancora, mentre questi uomini vivono non solo, ma eziandio tengono in mano la forza ed il potere.

    Così il Muratori, allorchè, proseguendo la continuazione de' suoi Annali dopo il secolo XV, giunse a descrivere le cose d'Italia avvenute dopo il XVII secolo, tenne quel giusto mezzo che a saggio scrittore conviensi, per non sagrificare la verità nè sè stesso; riferendo esattamente i fatti de' quali era stato in qualche modo il testimonio e spettatore, ma rado pronunziando suo giudizio assoluto e positivo, se pur non faceasi interprete ed araldo del sentimento universale. E così dovrà adoperare chi prende ad annodare le ultime fila del suo lavoro, protraendole fino a' giorni nostri, tempi quant'altri mai, spezialmente per un periodo intermedio di circa vent'anni, pieni di maravigliose vicissitudini, pur troppo funeste all'Italia, e tali che qualunque sia il nostro proponimento, qualunque la pacatezza dell'animo nostro, forse non sarà sempre possibile non uscire in piuttosto concitate che gravi parole.

    Ad ogni modo, narreremo ogni cosa, e narreremo senza amore e senz'ira, procacciandoci di mantenere quel coraggioso sangue freddo che non ci farà mai sagrificare la verità alle preoccupazioni, l'imparzialità ai lamenti ed ai motteggi degli appassionati e dei malevoli. Niuno però voglia istituir un confronto tra il classico autore, al cui lavoro apponiamo queste continuazioni, e noi. Senza l'ingegno, altissimo in lui, in noi molto modesto, differentissime sono le condizioni ed i tempi. Mancava, o almeno scarseggiava il Muratori di memorie e documenti, e dovea trar fuori il suo racconto per la maggior parte dalla polvere delle biblioteche e degli archivii; abbonda adesso strabocchevolmente la suppellettile, ed eccede le forze dell'uomo il tutte librarne le parti sopra giusta lance, per discernere, nella frequentissima loro contraddizione, nel vario atteggiamento, nel diverso procedere, il vero dal falso, e far capitale di quello, questo rigettando. I tempi remoti si lasciavano esaminare, ponderare quetamente; i vicini tempi non consentono tutta calma; strascinano seco impetuosi chi si pone a descriverli, nè lasciano quella libertà di esporre, di giudicare, di sentenziare che avrebbe chi i fatti raccontasse dell'antica Grecia o di Roma, ai quali ciascheduno presta quella parte di compassione che alle vicende de' suoi simili generalmente concede, non quell'altra intimamente sentita, profonda, prepotente, che nelle cose proprie forzatamente, necessariamente, avvien che riponga.

    Per le quali considerazioni tutte, bandito il paragone che dicevamo, ne conforta la coscienza di aver fatto il meglio che per noi si potesse, nei ristretti limiti che pur ci vengono prefissi.

    Narrata dall'illustre Muratori, alla fine dell'immortale opera sua, la pace anche all'Italia donata col famoso trattato d'Aquisgrana del 1748, posto in esecuzione nell'anno susseguente in una colle condizioni convenute nel congresso di Nizza nello stesso anno concluso; ed esposto dal lodato autore la situazione in cui, al cadere del 1749, veniva per ciò a trovarsi l'Italia; si può da questo punto incominciare la nuova carriera per vedere le varie perturbazioni, benchè minime e quasi innocenti, che ne avvennero in appresso, finchè poi verso la fine del secolo scorso ed al principio del presente fu tutta sconvolta e trasformata.

    Ripigliando pertanto il filo della narrazione, ci faremo da Roma e dalle circostanze del presente anno 1750, ch'era l'anno santo.

    Aperta con le consuete cerimonie auguste nel tempio di San Pietro quella porta che per venticinque anni era stata chiusa, esultavano i fedeli come se si fosse ad essi in certo modo spalancata quella del cielo. In ogni ora di qualunque giorno vedevasi lo spettacolo d'un popolo infinito che, od unito in compagnie, o separatamente, procedeva alla visita delle aperte basiliche; ma lo spettacolo che più d'ogni altro edificava era appunto Benedetto XIV. Quei pellegrini e quei forastieri quasi innumerabili che a Roma concorsero in tale occasione, verificate cogli occhi proprii le mirabili cose che nei loro paesi aveano udito a raccontare della sua pietà, della virtù sua e dell'immensa sua dottrina, tenevano quello stesso linguaggio che in lontanissimi tempi tenne di Salomone la regina Saba. Il pontefice, in età più che settuagenaria, in mezzo alle infinite bisogna e cure dello Stato e della religione, attendeva a tutte le solenni funzioni ordinarie e alle altre colle quali bramava di dare maggiore risalto al suo giubileo.

    Ma tanta sua ed altrui compiacenza fu in gran parte amareggiata da un'inaspettata disgrazia, accaduta in Roma nel termine dell'anno stesso. Per le dirotte pioggie continuate ingrossato il Tevere, uscì dal letto con furore eguale a quello onde avea traripato ai tempi d'Augusto, cagionando un'orribile innondazione non solo nelle vicine campagne, dove in alcuni punti coverse fino le cime degli alberi, ma in molte principali contrade della città, nelle quali non si potea praticare se non con barchette. Nell'universale spavento e nella terribile calamità non mancò il governo di apprestare le più opportune provvidenze, e di far eseguire tutto ciò che potea ridondare in vantaggio del pubblico; e Benedetto, con tenerissimo paterno affetto, gemendo per quelli che le acque impedivano di uscire a procacciarsi il vitto, ordinò che per mezzo di barche fosse ad essi gratuitamente somministrato il bisognevole.

    Ed a viemmaggiormente funestare l'animo del pontefice, altre disgrazie amare si aggiunsero. Una pretesa di violazione dei privilegii e diritti della chiesa e del seminario di San Giacomo degli Spagnuoli avea messo in aperto disgusto la corte di Spagna con quella di Roma. Volea il re di Sardegna che nella promozione de' cardinali fosse inchiuso monsignor Merlini, nunzio alla sua corte, e che colla vendita delle più ricche badie del Piemonte fosse formato un appannaggio al duca di Savoia, a similitudine dell'infante don Luigi di Spagna. Faceva grande rumore nell'imperio, tra' principi della casa di Hohenlohe, il ristabilimento di certi consistori e ministri luterani nelle incumbenze dalle quali avea il conte cattolico di Hohenlohe trovato il modo di spogliarsi; e tutti i nunzii pontifizii nelle corti di Germania, considerando questo dissidio di gran rilievo per la religione e per la corte di Roma, ne aveano dato parte al papa. Una fiera persecuzione dei cristiani alla China, rinovando contro i medesimi i più rigorosi editti di sangue, e della quale rimasti erano vittime generose quattro Domenicani, oltre al vescovo di Mauricastro, facea giustamente temere non in quelle contrade si risvegliasse contro i fedeli un odio simile a quello che un secolo prima gli avea percossi al Giapone. Ma tra tutte le perturbazioni che toccavano l'animo del pontefice, quella che diede maggiormente allora a parlare fu la disputa insorta tra la repubblica di Venezia e la casa d'Austria pel patriarcato d'Aquileia.

    Aquileia rispettata e famosa al tempo di Augusto e degli altri imperadori romani; Aquileia considerata, dopo Roma, la prima città d'Italia, barbaramente disfatta da Attila, distruttore di tante altre città e provincie d'Europa, seppellendo sotto le sue rovine l'antica sua magnificenza, trovossi in quella catastrofe al punto di vedervi sepolto anche il nome. Se non soggiacque, ne andò debitrice al per altro funesto scisma dell'Istria, pel quale, sospesa i vescovi di quella provincia ogni comunicazione colle quattro antiche sedi patriarcali, conferirono essi diritto e nome di patriarca al loro metropolitano, ch'era appunto il vescovo di Aquileia, ed il quale, estinto lo scisma, pur ritenne il conferitogli titolo, e fu da Leone VIII, Giovanni XX ed Alessandro II considerato primo metropolitano di tutta l'Italia, come tenutone universalmente per il prelato più ricco.

    Divenuti poscia i patriarchi d'Aquileia anche principi temporali per donazioni lor fatte dai re longobardi, da Carlo Magno, dagl'imperadori franzesi e tedeschi, pensarono a ristabilire l'antico splendore dell'abbattuta città. Ma tutte le cure loro non andarono piene di effetto; imperocchè Aquileia, già distrutta dalla forza dell'armi d'Attila, soggiacere dovette ad una forza ancor più assoluta ed una forza ancor più assoluta ed imperiosa, al mare. Abbandonando le acque a poco a poco gli antichi termini all'estremità occidentale del golfo Adriatico, dove prima approdavano le triremi di Roma, lento lento formossi un paludoso terreno, sì che Aquileia, la quale per tanti secoli avea, come Ravenna, sentito a romoreggiare sotto le sue mura i marosi, si vide circondata da povere capanne peschereccie, alla purità d'un aere sano e delizioso succedute esalazioni pestifere e mortali. Tanta rivoluzione di clima sforzò i patriarchi a tramutare la sede loro quando in Gemona, quando in Cormons, ora in Cividal del Friuli, ora in Udine stessa; ed il principe prelato, che pensò di surrogare quest'ultima città all'antica, costituendola siede del suo dominio e metropoli della provincia friulana, si fu il patriarca Bertoldo, nel 1251. Passato per altro due secoli dopo, per la forza delle armi, il Friuli in mano de' Veneziani, e spogliato il patriarca del dominio temporale, per una transazione conchiusa tra il prelato medesimo e la repubblica, confermata dal papa Nicolò V e dall'imperadore Federigo III, assegnaronsi al patriarca di Aquileia le terre di San Vito e San Daniele, colla costituzione d'una dote ecclesiastica corrispondente.

    Da quel tempo i patriarchi furono sempre veneziani; e continuando a risiedere in Udine, esercitarono, dopo la lega di Cambrai, la giurisdizione ecclesiastica non solo sopra Aquileia, ch'era passata nel Friuli austriaco, ma eziandio nella parte della diocesi compresa ne' dominii della casa d'Austria, giurisdizione che mai sempre dispiacque ai principi di quella casa. Si convenne pertanto tra gli arciduchi d'Austria ed i Veneziani che le due potenze godessero alternativamente del diritto di nominare a questo patriarcato. Ma la convenzione si ridusse alle parole; poichè gli Austriaci non giunsero mai a godere del diritto, per l'attenzione sempre posta da' patriarchi d'Aquileia, veneziani, a scegliersi veneziani coadiutori, loro concessi dal senato, e muniti di bolle pontificie per la futura successione. Richiamossi l'imperadrice Maria Teresa contro questa usurpazione de' Veneziani, pretendendo che la tolleranza de' suoi predecessori non avesse valso a prescrivere il diritto che anch'essi avevano alla elezione del patriarca; ed i Veneziani, fondando la loro pretensione sopra il non essersi mai fatto da' principi della casa d'Austria uso del combattuto diritto.

    Da gran tempo e alla corte di Vienna e nel senato di Venezia agitavasi la controversia; e alle proposizioni e proferte da una parte surgendo dall'altra difficoltà e rifiuti, le cose tiravano in lungo senza speranza di componimento. Finalmente concordarono le due potenze in questo, di prendere il papa ad arbitro di una vertenza che in gran parte era ecclesiastica e religiosa, facendo, più della dottrina e della sapienza di Benedetto XIV, sperare giusta la pontificia decisione il suo carattere equo e moderato. I Veneziani poi tanto più erano concorsi di buon grado a sottomettersi al giudizio di lui, perchè, oltre ad un breve di Giulio III, che ad essi confermava il diritto di nominare il patriarca, non aveva la santa Sede nel progresso del tempo tenuto in alcun conto l'alternativa, e perchè, generalmente parlando, un lungo possesso non interrotto equivale ad un incontrastabile diritto.

    Ed in fatti Benedetto XIV conservò ai Veneziani il diritto di eleggere soli il patriarca; ma, affine di togliere i sudditi dell'imperatore dalla suggezione ad un vescovo straniero, nella parte austriaca di quella diocesi stabilì un vicario apostolico. Spiacque oltremodo al senato cotale decisione, e richiamò egli tosto i suoi ambasciatori tanto da Roma quanto da Vienna. Al tempo stesso la repubblica accrebbe di molto le sue armate di terra e di mare e si dispose alla guerra. Il papa dichiarò che, qualunque potessero essere le conseguenze di quella lotta, non credevasi egli mallevadore di quegli avvenimenti; che stabilito aveva un vicario apostolico, le regole seguendo della giustizia, e che alcun interesse non pigliando alle operazioni del veneto senato, rimettevasi alla saviezza dell'imperadrice regina. Il senato, all'incontro, manifestò a tutte le corti avere il papa stabilito quel vicario in una parte del patriarcato di Aquileia, ed a quella dignità inalzato il conte di Atimis, canonico di Basilea; grave pregiudizio quindi venirne al diritto di padronato dalla repubblica esercitato costantemente; essere perciò la repubblica stata costretta a richiamare il suo ministro da Roma dopo le proteste fatte contra quel breve; professare tuttavia, mentre gelosa era di conservare un diritto col lasso di più secoli acquistato, alla santa Sede in tutt'altro rispetto sentimenti di venerazione e di filiale obbedienza.

    Il re di Sardegna si proferì mediatore nella contesa, ma dal senato veneto non ottenne se non un rendimento di grazie. Fu proposto di smembrare il patriarcato, e di formarne due vescovadi, da stabilirsi l'uno ad Udine, l'altro a Gorizia; ma anche siffatta proposizione fu dal senato rigettata; ed il nuovo vicario apostolico, recatosi ad Aquileia, il possesso pigliò di quella dignità, malgrado le opposizioni de' Veneziani. Vollero questi ancora qualche tempo resistere; ma, troppo deboli forse per opporsi alle forze dell'Austria, acconsentirono finalmente alla proposta divisione: fu però stabilito che abolito sarebbe il titolo di patriarca d'Aquileia, e ripartita la diocesi in due vescovadi, dei quali la nomina apparterrebbe per l'uno al senato, per l'altro ai sovrani dell'Austria.

    Il chiudimento della santa porta segnò in Roma il termine dell'anno 1750, nel quale furono celebrate nella corte di Torino le nozze tra il duca di Savoia Vittorio Amedeo, figlio del re Carlo Emmanuele III, e l'infante Maria Antonia, sorella di Ferdinando VI re di Spagna.

    Manifestossi intanto in Parma un mal umore, perchè quel novello sovrano, Spagnuolo di nazione, avesse conferito le principali cariche del ducato, e particolarmente quelle della pubblica economia, agli Spagnuoli; e furon pubblicati viglietti, co' quali avvertivasi quel principe di ricordarsi delle istruzioni avute dal re suo padre Filippo V, cioè di reggere con dolce freno i suoi popoli. Tentando d'infrenare l'umor sedizioso col rigore, l'espediente non giovò; sicchè bisognò cambiare i ministri e scemare le tasse. Delle quali benefiche disposizioni contento il popolo, dimostrò la sincera sua riconoscenza verso il principe quando giunse di Francia in quello Stato la reale sua sposa, figlia di Luigi XV.

    A mantenere il benefizio della pace, di cui già da un anno erasi incominciato a godere in Italia, aveano il massimo interesse le due corti di Vienna e di Madrid; avvegnachè, se l'imperadore Francesco I possedeva i dominii della casa de Medici, due principi della casa regnante di Spagna teneano il regno delle Due Sicilie, e l'eredità della casa Farnese. Il conte Esterazi adunque, ministro cesareo alla corte di Madrid, in varie conferenze avute col signor di Carvaial e Lancastro, e col marchese dell'Ensenada, principali ministri del gabinetto spagnuolo, propose che, per allontanare il pericolo di nuove turbolenze, e stabilire la pace sulla base degli antichi trattati, il re Cattolico s'impegnasse di non prendere parte, nè direttamente nè indirettamente, in qualunque guerra che insorger potesse in Italia, nel caso che, contra ogni aspettativa, se ne accendesse alcuna che fosse prodotta da una causa straniera agli interessi di Sua Maestà Cattolica e della sua famiglia; che l'imperadrice regina, dal canto suo, per cooperare al medesimo fine, guarentisse nella più solenne forma gli Stati de' quali era in possesso il re delle Due Sicilie, non meno che quelli posseduti dall'infante don Filippo in vigore del trattato di Aquisgrana; che la stessa malleveria si facesse dall'imperadore nella sua qualità di granduca di Toscana; che finalmente, in forza di tale accordo, rimanesse estinta e diffinita ogni scambievole pretesa, oppure, se alcuna ne restasse, sopra la quale le due corti non si fossero acconciate, si avesse diffinire amichevolmente.

    Intanto che il conte Esterazi adoperava in tal modo alla corte di Madrid, un altro abile ministro della corte di Vienna, il conte Beltrame Cristiani, gran cancelliere di Milano, prevaleasi del suo soggiorno a Torino, dove erasi trasferito per regolare i punti di commercio tra gli Stati del re di Sardegna e la Lombardia austriaca, onde disporre l'animo di quel sovrano ad entrare nella convenzione meditata e stabilita tra l'imperadrice regina Maria Teresa e Ferdinando VI re di Spagna. Riusciti felicemente ne' loro maneggi ambedue i detti ministri, in brevissimo tempo venne fra le corti di Vienna, Madrid e Torino stipulato un trattato, di cui questa era la sostanza. Nel caso che le truppe nemiche invadessero gli Stati del re di Sardegna, dovesse l'imperadrice regina somministrargli un aiuto di sei mila uomini; fornisse ella lo stesso numero di gente per difesa del re delle Due Sicilie, dell'infante duca di Parma e del duca di Modena, allorchè gli Stati di questi principi si trovassero nello stesso caso; ad uguale sussidio fosse tenuto il re di Sardegna, nel caso che fossero attaccati i dominii posseduti in Italia dalla imperadrice regina, e ad egual impegno verso di essa fosse vincolato anche il re di Spagna; facesse Sua Maestà Cattolica il medesimo riguardo al re di Sardegna, e questi verso la Maestà Sua; in ognuno di questi casi il re delle Due Sicilie somministrasse cinque mila uomini di truppe ausiliarie, e tre mila per ciascheduno l'infante duca di Parma ed il duca di Modena; dovesse finalmente ciascuna delle parti stare mallevadrice pei dominii dalle altre rispettivamente posseduti in Italia, nello stato medesimo in cui allora si trovavano.

    In questa convenzione, intesa a mantenere la quiete d'Italia, non erano, come si vede, compresi gli altri principati italiani, cioè il papa, e le tre repubbliche, di Venezia, di Genova e di Lucca, nè poteano esserlo. I sommi pontefici, e specialmente Benedetto XIV, sicuri di conservare quegli Stati che dalla pietà e munificenza de' principi avea la santa Sede ottenuti, non poteva pensare mai a dilatarli per ambizione o per avidità d'imperio nè temere poteva di esserne, se non dalla violenza e dalla ingiustizia spogliato. Contenta la repubblica di Venezia de' suoi possessi nel continente e fuori, già da più d'un secolo avea rinunziato all'idea di meschiarsi nelle dissensioni dei principi in Italia, e faceva professione d'una rigida neutralità. Quella di Lucca, limitata alla ristrettezza del suo pacifico dominio, compreso e quasi incastrato nella Toscana, attendeva al commercio ed alle arti della pace, e stimavasi felice di non entrare per nulla in bilancia a fissare l'equilibrio della penisola. Quanto alla repubblica di Genova, che tanta parte aveva avuta nell'ultima guerra, non era stata nominata, perchè le direzioni da essa tenute a suo riguardo aveano disgustato la corte di Vienna; perchè le altre potenze, allora belligeranti e rivali della casa di Austria, non aveano trovato vantaggio nissuno dall'amicizia di lei; e perchè finalmente tutte le repubbliche, se non sieno potenti, interessare non possono nella loro sorte i sovrani assoluti, mancando quei vincoli di sangue o di affinità che devono o almeno possono talora stringere i principi fra loro.

    Ma la genovese repubblica, che da venti anni teneva a sè conversi gli sguardi dell'Europa per quella ribellione della Corsica, che, dopo la tanto decantata dei Paesi Bassi al tempo di Filippo II, non avea avuta ne' secoli moderni l'eguale o per l'energia de' suoi sforzi, o per la costanza nelle disgrazie o per l'accorgimento, trovossi nel presente anno in non troppo felici contingenze.

    Si è veduto a suo luogo (all'anno 1745) come la città di Bastia, capitale dell'isola, già smantellata pel furibondo fulminare di bombe e cannoni d'una squadra inglese, fosse dal suo governatore genovese abbandonata in mano del colonnello Rivarola, che con tre mila Corsi sollevati se le faceva sotto.

    Non vogliamo qui lasciar di notare, perchè da nessuno storico riferito, ma pure consegnato nelle memorie d'un insigne naturalista franzese, che un ministro della corte di Francia, vedendo lo spirito sempre inquieto e tumultuante di quelle popolazioni, propose di far tagliare tutti gli alberi de' castagni di quell'isola, che il nutrimento per alcuni mesi fornivano agli abitanti, affinchè costretti fossero a coltivare nelle lor montagne i grani e per ciò distratti dalle guerriere imprese; senza avvedersi che in quelle selve montane mai non si sarebbero seminate le biade, e che il popolo, privo d'un mezzo ad esso fornito dalla natura, ne sarebbe più feroce divenuto ed indomabile.

    Poichè pertanto il congresso d'Aquisgrana non avea fatto nessun conto della supplica colla quale i Corsi in commoventi termini esponevano le cagioni della loro insurrezione, ed imploravano l'assistenza delle corti europee onde non rimanere più oltre sottoposti alla oppressione de' Genovesi, quegl'isolani continuarono a coraggiosamente combattere per la loro indipendenza. Già la Francia, che, per tornare i ribelli all'ubbidienza del senato genovese avea, dopo il conte di Boisseux, spedito in Corsica il marchese di Maillebois, il quale disse ai Corsi come Sua Maestà Cristianissima prendesse la loro isola sotto la sua tutela e protezione, venuta era in determinazione di sostituire a questo comandante generale il marchese di Cursay. Ora, comandando questi da vicerè, contribuì molto a rendere sempre più odioso il governo antico ed attuale della repubblica di Genova; e la grande autorità che arrogavasi fece insiememente nascere puntigli e serie contese tra lui ed i comandanti generali, che volevano sostenere il decoro ed i diritti della genovese repubblica.

    Cotali disordini presero gran piede nei primi mesi di quest'anno in molte occasioni, e principalmente per certa paglia niegata da alcuni luoghi al marchese di Cursay, che volea pagarla, ed a lui invece fornita da' Corsi sollevati senza verun pagamento. Da ciò insorte nuove questioni tra le truppe franzesi e le genovesi, unite a' Corsi fedeli, sì che vennero più volte alle mani, quel comandante dovette appigliarsi al partito di vietare a' suoi di approssimarsi ai presidii genovesi. D'uopo è notare che mentre i Corsi sostenevano una lotta accanita coi Genovesi, le diverse corti, e quelle specialmente di Francia e di Spagna, gelose erano a vicenda, e timorose sempre che l'isola cadesse in dominio dell'una o dell'altra; dal che derivava che mentre si ostentava talvolta di prestare aiuto ai Genovesi, e di voler ricondurre la pace, non si lasciava di fomentare in qualche modo la sollevazione e di favoreggiare l'indipendenza di quella nazione.

    Intanto la discordia, che regnava tra' Franzesi e Genovesi, riaccese quella delle comunità del regno, senza che il generale franzese, il quale procurava di sopirla, o almen frenarla con la dolcezza e con l'autorità, prevalesse a ristabilire la quiete, spesso interrotta da vie di fatto funeste e sanguinose.

    Informata la repubblica di Genova di quanto era accaduto ed accadeva in Corsica tra il marchese di Cursay ed il suo comandante, tra le milizie di ambedue le parti e tra le comunità del regno, elesse subito il marchese Giacomo Grimaldi, uomo di gran merito e di molta estimazione, per mandarlo nuovo commissario in Corsica a trattare col comandante franzese un aggiustamento di tutte quelle vertenze; inviando al suo ministro a Parigi ampie istruzioni onde giustificare presso quella corte il modo di operare suo e de' suoi.

    Ma anche il marchese di Cursay avea già di tempo in tempo portate alla sua corte le proprie doglianze, e da ultimo l'aveva ragguagliata delle recenti contese; senza nel frattempo tralasciar l'esecuzione degli ordini ricevuti dal cavaliere di Chauvelin, plenipotenziario del re a Genova, di convocare pei 10 del mese di giugno un'assemblea generale del regno, onde farvi l'elezione di cinque deputati, che, unitamente con lui, col plenipotenziario suddetto e coi commissarii del senato di Genova, dovevano trasferirsi a Tolone, per regolarvi diffinitivamente in una specie di congresso tutte le bisogna della Corsica.

    L'adunanza non ebbe luogo, perchè la Francia, disgustata grandemente, per le relazioni del Cursay, e de' Genovesi e de' Corsi, venne in determinazione di richiamare dalla Corsica le sue genti, lasciando in balia di sè stessi non meno quegli abitanti che la repubblica di Genova; e già tutto era apparecchiato per la partenza.

    Sensibilissima riuscì alla repubblica e del pari ai capi de' Corsi l'imminente partenza delle truppe franzesi dall'isola, perciò che lasciavanla esse in un abisso di disordini, de' quali non poteasi sperare allora nè rimedio nè fine. Fecero dunque lor pruove ambe le parti per sospendere l'effetto della presa risoluzione, il senato di Genova dando ordine a' suoi deputati in Parigi di sottomettersi a qualunque soddisfazione che il gabinetto di Versaglies esigesse, e promettendo i Corsi di ricevere con intera sommissione quei regolamenti che al re piacesse di fare intorno agli affari loro.

    Corse allora voce che qualche bella soddisfazione venisse data da' Genovesi a Luigi XV, ma niuno poi seppe dire in che consistesse. Si seppe bensì tosto che, calmato quel monarca, avea dato ordine al suo ministro Chauvelin di proporre ai Corsi il chiesto regolamento, facendo loro intendere che Sua Maestà, mossa dalla idea delle calamità che per la partenza delle sue truppe sarebbero toccate ai Corsi, era discesa a sospendere l'esecuzione de' suoi ordini, onde terminare un'opera ad essi favorevole, come era quella di restituir loro la pace e far che godessero d'un dolce reggimento e permanente.

    In conseguenza de' quali ordini, passato nell'isola lo stesso de Chauvelin, il marchese di Cursay intimò di bel nuovo una generale adunanza; alla quale essendosi portati i deputati corsi, dopo comunicate ad essi le condizioni dal re di Francia procurate per assicurar loro uno stato felice e tranquillo, furono anche chiamati a conoscere che felicità e tranquillità, mediante un moderato e giusto governo, non poteano ottenere se non se da quella potenza che avesse sopra di essi una legittima e sovrana autorità, come appunto era la repubblica di Genova; nello stesso tempo dichiarando che Sua Maestà Cristianissima, per un effetto della sua naturale bontà, addossavasi la malleveria di tutto ciò che fosse loro concesso, e di cooperare all'esecuzione. Tutti i deputati ad una voce fecero sapere che si sottomettevano rispettosamente a quanto Luigi XV richiedeva, ed anzi sottoscrissero un atto, col quale giurarono sopra l'Evangelio di volere da allora in poi riconoscere la repubblica di Genova per sola legittima loro sovrana, tornando sotto la sua obbedienza, e rinunziando ad ogni passo od atto in contrario. Laonde fu letto e dato loro a sottoscrivere il regolamento, contenente le condizioni che il re di Francia aveva per essi conseguite dalla repubblica, e comprese in otto articoli, tutti risguardanti al generale governo dell'isola, senza parola da cui argomentare che seguire ne dovesse essenziale mutazione di reggimento.

    A questi passi, un altro i Corsi ne mandarono dietro. Quattro fra i deputati recaronsi a Bastia, e a nome di tutta la nazione rinnovarono al già detto commissario Grimaldi le sicurezze della loro sommissione e del sincero loro ritorno sotto il dominio dell'antico legittimo Sovrano, presentandogli in pari tempo, ed alla presenza del cavaliere de Chauvelin, una lettera, nella quale, riconoscendo la repubblica per loro sola e legittima sovrana, protestavano che la principal cura dei padri di famiglia e de' capi delle comunità sarebbe stata quella di avvezzare i popoli al dovere ed alla subordinazione, e nel tempo stesso imploravano dal commissario che volesse presso la Repubblica interporsi, affinchè ottenesse dal re di Francia che tuttavia in Corsica restassero le sue truppe, mezzo valevole, forse e unico per assodare quella tranquillità che per esse si era veduta a rinascere. A simile domanda furono i Corsi indotti per un fine politico: sudditi, essi non potevano chiedere al re l'ulteriore soggiorno delle sue milizie; sembrava inconveniente che lo facesse la repubblica riguardo ad un paese pacificato e messo sotto la sua obbedienza; il re di Francia di suo moto proprio nol dovea. Dall'altro canto a tutti conveniva, o per interesse o per decoro, che quegli armati si rimanessero. Fu dunque trovato l'espediente della lettera, che togliea di mezzo tutti gli scrupoli e delicatezze.

    Se non che non tardò molto a manifestarsi la necessità di quelle truppe. I deputati che aveano firmata la pacificazione della Corsica furono disapprovati da' loro committenti di là dai monti, che si sollevarono, e se di qua il fuoco non iscoppiò nè così presto nè con tanto impeto, covava sotto la cenere, ed anzi si credette che di qui partissero le scintille che appiccarono l'incendio dall'altra parte.

    Gli abitanti di Niolo, considerati sempre come i meno trattabili dell'isola tutta, furono i primi a tumultuare contro il regolamento, perchè non procacciasse i vantaggi ch'eransi fatti sperare, non parlando esso punto de' privilegii della nazione, che pur erano l'argomento principale della gran lite co' Genovesi, e per tal modo rimanevano, come per l'addietro, soggetti all'autorità dispotica della Repubblica e de' suoi uffiziali. Nè a persuadere i Niolesi e gli altri abitanti di parecchie pievi della parte oltramontana, che ne avevano seguito l'esempio, valsero le parole dell'abbate Olivetto, ecclesiastico molto stimato da quelle genti, ed il medesimo che per esse avea scritto alla corte di Francia promettendo a loro nome tutta la sommessione, perchè si lasciassero nell'isola le truppe che il re ne avea richiamate: prese di bel nuovo l'armi, posero ogni cosa in disordine tale, che forse potea dirsi peggiore di quel di prima. Se non che, recatosi sui luoghi il marchese di Cursay con buona mano di soldati, giunse a calmare gli animi ed i ribelli, deposte l'armi, gli diedero anche statici per sicurezza della loro fede: vedremo in appresso che calma e che sommissione fossero quelle.

    I corsari africani, che in quest'anno ricomparvero baldanzosi sulle acque della Corsica, ed ogni dì faceano udire il suono di qualche novella preda, e minacciavano di sbarco le coste dell'Italia, senza che a reprimerne l'insolenza valessero una squadra napolitana e le galee di Malta e del pontefice, furono cagione di grave querela tra la corte di Napoli e quella di Vienna.

    Avendo le galee pontificie e napoletane data la caccia a due galeotte tunisine, ne catturarono una; ma l'altra riuscì a ripararsi sotto il cannone della torre del Giglio, situata all'altura degli Stati de' presidii, sulle terre all'imperadore spettanti nella sua qualità di granduca di Toscana. Allora le galee pontifizie, cessando l'impresa, diedero di volta; ma le napoletane, niente curando i segnali del comandante della torre, che avvisava trovarsi la galeotta in paese sicuro, l'incalzarono sì, che costrinsero i Turchi a salvarsi in terra, dove pure sbarcati, gli attaccarono più volte, finchè li videro in luogo di sicurezza, e quindi condussero seco il legno nemico ed una barca napolitana poc'anzi da quello predata, in tutta questa fazione lavorando col cannone gagliardamente con qualche danno eziandio della torre, che continuava a protestare ed a far fuoco per far rispettare i suoi diritti.

    Informata la corte imperiale, allora residente a Presburgo, dell'accaduto, lo imperadore, come granduca di Toscana, considerandosi altamente offeso per la violenza praticata a quel corsaro sotto la sua protezione, chiese alla corte di Napoli pronta e solenne soddisfazione colla restituzione immediata del bastimento predato. Alle quali rimostranze re Carlo rispose, aver lui fatto più volte rappresentare alla reggenza di Firenze non potersi avere riguardo alcuno alla pretesa neutralità della corte di Toscana, però che di questa i Barbareschi prevalevansi per impunemente e come da sicuro asilo assaltare le navi napoletane con incredibile danno de' suoi sudditi e del loro commercio; nè dovere quindi parere strano se il duca di San Martino, comandante delle galee napoletane, non avea avuto difficoltà di assalire il legno tunisino, trovatosi appunto nel caso per cui state erano mosse quelle doglianze e proteste. O sia che cotale risposta fosse riconosciuta concludente, o che altri motivi a ciò consigliassero, l'affare rimase allora sopito.

    Tuttavia, a mettere qualche rimedio al sommo pregiudizio che generalmente recava al commercio d'Italia, quel ricovero che ne' porti di Toscana trovavano i Barbareschi, per la pace da Francesco I imperadore, quale granduca, colle reggenze africane conchiusa; mosse calde lagnanze alla corte di Vienna dal papa, dal re di Sardegna e dalle repubbliche di Genova e di Lucca; l'imperadore stesso, sul cui animo avere doveano maggior forza le ragioni giustissime di quattro italiane potenze che non qualunque trattato o impegno in cui fosse entrato coi governi di Barbaria, s'indusse finalmente a permettere alla reggenza di Firenze di servirsi delle due navi da guerra recentemente a Porto Ferraio tornate dal Levante, per tener lontani dalle coste di Toscana i corsari, non permettendo loro di accostarsi, se non ne' casi di disgrazia, che furono specificati. Alla quale permissione imperiale fu allora creduto che maggiormente avessero contribuito i lamenti de' negozianti di Livorno per le ingiustizie ed avanie che le loro navi pativano da coloro, a' quali la fede de' trattati era lieve freno per trattenerli dal commettere mille estorsioni ed iniquità.

    A questa provvidenza giusta e salutare, diretta ad assicurare possibilmente il commercio italiano dalla rapacità e malafede degli Africani, un'altra ne mandò dietro Benedetto XIV, e come capo della religione e come principe temporale, molto più dilicata di sua natura, ed assai più importante nelle sue conseguenze, riguardo ai così detti Liberi Muratori. Già da circa venti anni diffusa e clandestinamente dilatata ne' paesi cattolici, e più ancora in quelli che fuor del cattolicismo viveano, teneva questa società in continuo sospetto i principi ed i governi. Chi le ha dato per progenitori coloro che edificarono la torre di Babele, chi quelli del tempio di Salomone; altri, più sistematici, vollero riconoscerne padri i cavalieri Templari. Amava le tenebre, ed in seno dell'oscurità andava ampliando il numero de' suoi confratelli. Sulla porta di quelle stanze che le serviano di notturno ricetto non vedevi impressi caratteri materiali; eppure era scritto: Lungi, o profani; è questo il regno della luce ed il tempio della verità. Riti misteriosi ne accompagnavano le iniziazioni. Non diversità di patria, non differenza di governo, non disparità di culto era di ostacolo o ragion di ripulsa a chi chiedea d'entrare. Nel regno della luce, nel tempio della verità ammetteansi egualmente, e come cittadini e come adoratori, i fedeli di Cristo, i discendenti di Abramo, i seguaci di Calvino o di Lutero, di Maometto e di Confucio. La differenza stessa della nascita, del grado, delle fortune quivi spariva; chè l'opulento ed il misero, il dignitario e l'artigiano, principi e sudditi, dotti ed indotti trovavansi indistintamente registrati sulla lista dei Liberi Muratori, e non rado un uomo, cui per le vene scorreva un sangue per trenta o quaranta generazioni purificato, siedeva fra due compagni lordi ancora di quel fango ond'erano usciti nascendo. Soave giocondità presiedeva alle notturne loro adunanze, e parea un'innocente allegria fosse il nume geniale de' loro banchetti. Uno spirito di fratellanza, di benevolenza generale, mentre congiungeva le destre, ne annodava i cuori. I soccorsi, che una mano benefattrice porgea a chi avea bisogno, erano sempre tanto spontanei quanto copiosi; ed il fratello beneficato, lungi dal vedere nel suo benefattore, come suole troppo di sovente, chi della sua superiorità approfitta per farsi dipendente e schiavo un infelice, vedevasi appena obbligato al tacito tributo dell'intima riconoscenza.

    Come dunque una congregazione di uomini, sì innocente nel suo vantato istituto, sì benefica ne' pretesi suoi effetti, che proponeasi di mettere in pratica quelle sante massime che, proposte dal Vangelo colla promessa di non terminature ricompense, trovano nondimeno tra i cristiani sì scarso numero di cultori, come mai farsi potè sospetta ai governi, tirarsene addosso lo sdegno, e meritar in fine d'esser punita? Facile a conciliarsi è l'apparente contraddizione. La società dei Liberi Muratori è tutta fondata sul più rigoroso secreto. Coloro che vi sono ammessi non entrano a parte del mistero, e nulladimeno si esige da essi sotto i più terribili giuramenti di starne fedeli al silenzio. Se la società ha per oggetto del suo istituto la virtù, a che tanta precauzione per tenere celata la sostanza delle sue massime e delle sue dottrine? Perchè non far vedere agl'iniziati il codice della loro associazione? A che tanta diffidenza, a che tanta gelosia?

    Tutti questi segreti, tutti questi misteri, che all'illustre Annalista d'Italia sembrarono inezie, e ad altri parve che contenessero l'enigma e non l'arcano, divennero sospetti non solo alla podestà ecclesiastica, per credere che si macchinassero insidie alla religione, ma eziandio alla stessa secolare podestà, prevedendo che potesse turbarsene la quiete civile. Quindi in poco tempo si videro a circolar per tutta l'Europa editti sopra editti contro i Liberi Muratori. Prima a comparire nella lista delle potenze che proscrissero la società fu la Francia, nel 1727. L'Olanda nello stesso anno, e molto più rigorosamente nel 1755, manifestò il suo sdegno contro i supposti discendenti dei Templari. Tre anni dopo lo stesso fecero la Fiandra e la Svezia. La Polonia nel 1739, la Spagna ed il Portogallo nel 1740, il governo di Malta nel 1741, e la regina d'Ungheria nel 1743 fulminarono gli apostoli della verità e gli angeli della luce, come furono poi proscritti, nel 1748, negli Svizzeri, dal cantone di Berna.

    Tredici anni erano scorsi da che Clemente XII, stato informato che il mostro, varcate le Alpi, avea posto in Italia il piede, gli scagliò contro gli anatemi del Vaticano. (Ved. sopra all'anno 1736; tomo VII, col. 429 e seg.) Se non che alcuni divulgavano che le censure fulminate della Chiesa, per non essere la bolla di Clemente stata dall'attuale pontefice confermata, non aveano più vigore alcuno. Si volse adunque Benedetto XIV a distruggere sì pernizioso errore, e nel giorno 18 maggio del presente anno comunicò a tutto il mondo cattolico i suoi sentimenti e le risolute sue determinazioni in tale proposito con una bolla, nella quale sei motivi adduceva, pei quali aveasi la società a riguardare come direttamente contraria al bene della religione e dello Stato. Unirsi, diceva, in siffatte adunanze persone di ogni religione e di tutte le sette; occultarsi con istretto costante impegno di segretezza le cose che in dette conventicole si fanno: asserendo essere colpevole il giuramento con cui si obbligano ad inviolabilmente osservare il segreto, come se fosse lecito ad alcuno di premunirsi del pretesto di qualche promessa o giuramento per esimersi dal manifestare le cose tutte, intorno alle quali fosse dalla legittima podestà interrogato; opporsi società simili alle leggi civili non meno che alle ecclesiastiche, essendo dal gius civile vietati tutti i collegi e corporazioni tutte formate senza pubblica autorità; essere in molti paesi state proscritte dalle leggi di principi cotali società ed aggregazioni; cadere esse mai sempre in sospetto degli uomini saggi, riputati perversi coloro che vi si aggregavano.

    Quantunque in Napoli più che altrove si guardasse con sospetto qualunque adunanza od unione di genti, per le ripetute rivoluzioni alle quali andò quel regno suggetto, così teneasi che colà e nelle altre napoletane provincie si fossero assai moltiplicate le logge di Muratori. Appena dunque venuta in luce la costituzione di Benedetto XIV, il zelo di molti ecclesiastici fece sì che tuonassero, sul fondamento delle voci che correano, contro la setta dei Liberi Muratori; e quindi il popolo a credere di veder sempre chi portasse in fronte i contrassegni del fulmine pontificale; a mormorare che la corte in sì delicato argomento si tenesse in silenzio. Intanto i settatori, benchè con tutta giustizia perseguitati, e quantunque conoscer dovessero il proprio torto, osservavano gelosamente quel segreto ch'era l'anima della loro istituzione, guardavano un rigoroso silenzio sulla sostanza delle loro massime e sulla natura dei dogmi loro, non meno che intorno al nome dei consocii, e continuavano a radunarsi clandestinamente. Ma, per quanto occultamente adoperassero, non valeano a sottrarsi affatto alle suspizioni. Potea il disordine crescere da una parte, crescer dall'altra lo scandalo. Laonde il re, risoluto d'andare alla radice del male, condiscendendo ancora alle istanze del sommo pontefice, elesse cinque giudici particolari, uno per ciascun ordine di persone, onde fossero processati e puniti tutti coloro che alla setta de' Muratori si trovassero aggregati. Ma perchè tali regie disposizioni forse non bastavano, se anche la nazione tutta non fosse senza equivoco e perfettamente istrutta della sovrana volontà, il re Carlo emanò un severo editto, in cui proibì assolutamente ne' suoi dominii i Liberi Muratori, da dover essere puniti come perturbatori della pubblica tranquillità e rei di crimenlese.

    La convenzione nell'anno scorso da noi mentovata, tra le corti di Vienna, Madrid e Torino, fu nell'anno presente ridotta a solenne trattato, reso poi celebre sotto il nome di trattato di Madrid, o di Aranjuez, dal luogo in cui fu stipulato, ed il quale in sostanza non era che una pura rinnovazione della convenzione sopraccennata, le sole mutazioni fatte consistendo negli aiuti scambievoli promessi da' tre sovrani in caso di aggressione ai loro Stati in Italia, e nell'alternativa di dare in vece di soldati uno stabilito sussidio in denaro contante. Alla diffinitiva conclusione di siffatto accordo molto cooperò il re d'Inghilterra, siccome quegli a cui stava molto a cuore la perfetta esecuzione del trattato di Aquisgrana e della convenzione di Nizza, che ne furono come la base ed il principal fondamento. Ed al totale ristabilimento della pubblica tranquillità concorsero quasi tutte le italiane potenze, con sì buona intelligenza e concordia, che in brevissimo tempo, per mezzi del tutto amichevoli e pacifici, congressi, maneggi, concordati, furono accomodate tutte le questioni e vertenze insorte necessariamente per le perturbazioni delle guerre, intorno ai confini ed alle giurisdizioni tra il regno di Napoli e lo Stato pontificio, tra questo e la Toscana, tra esso granducato ed il duca di Modena, tra il Milanese e gli Stati del re di Sardegna, tra questi e la repubblica di Genova, tra il Mantovano ed il Tirolo colla repubblica di Venezia.

    Le sollecitudini de' principi contraenti nel detto trattato ebbero per quaranta e più anni un effetto salutare. E forse anche più durato avrebbe il suo beneficio, senza quel turbine che dalla Francia proruppe a disordinare ogni meglio connesso edifizio, verso la fine del secolo, come a suo luogo verremo a mano a mano descrivendo. Ma intanto ci è d'uopo ripigliare il filo delle cose di Corsica, che tenevano allora desta l'attenzione generale dell'Italia non solo, ma di tutta l'Europa.

    Guardavansi di mal occhio i due primarii personaggi che allora reggevano la isola, il commissario genovese marchese Grimaldi ed il marchese di Corsay comandante franzese, e tanto innanzi procedute erano le cose, che quel primo dalla Bastia erasi ritirato in Aiaccio, per isfuggire le contese quotidianamente insorgenti per l'autorità che questi arrogavasi, in gran parte contraria alla sovranità della repubblica. Ora ad accrescere le discordie accadde che una squadra franzese, tornando da' lidi dell'Africa, dov'erasi portata a minacciare i Tripolini, bombardandone il porto, comparve sulle coste della Corsica e diede fondo nel porto d'Aiaccio, senza che i Genovesi sapessero che pensarsi di quella comparsa, e con grave scontentezza de' Corsi, tra' quali corse come sicura la voce che fosse venuta per opporsi ad altra squadra inglese, che dovea liberar l'isola dalla schiavitù e dall'oppressione. Come il senato di Genova avea già significato al suo commissario che gli chiedea il modo del contenersi, la squadra, dopo rinfrescato, veleggiò per Tolone; ma in quell'occasione il senato stesso avea pur fatto intendere al Grimaldi come stata fosse ottima cosa che se la passasse con miglior accordo col comandante franzese, in pari tempo lagnandosi alla corte di Francia delle costui procedure. E a tali insinuazioni del senato il Grimaldi replicò con sentimenti di buono e zelante repubblicano, lui chiedere piuttosto di essere richiamato, di quello che rimanere in un impiego in cui fosse obbligato a riconoscere autorità altra qualunque fuor di quella della repubblica. Ma l'impossibilità di trovare suggetto capace da sostituire al Grimaldi nel posto di commissario generale in Corsica, il non poterglisi rimproverare altro che un troppo vivo zelo nel sostenere il decoro e gl'interessi della sua patria, determinarono il senato a non aderire alle domande del suo cittadino.

    Nè solamente le gelosie e le reciproche diffidenze de' due generali in Corsica tenevano molto occupati i Genovesi ed inquietavano la corte di Francia; ma il regolamento stesso comunicato l'anno scorso ai capi dei sollevati dal marchese di Cursay per parte del re di Francia, di cui quei popoli non eransi mostrati troppo contenti, non appagava neppure interamente i Genovesi; sì che si rese necessario concertare col cavaliere di Chauvelin, ministro franzese, che di Francia venisse una riforma, la quale e questi e quelli appagasse. Ma nè anche giovò la riforma creduta opportuna dal gabinetto di Versaglies, poichè, per lo contrario, non appena fu comunicata ai capi delle pievi, che destò uno straordinario ed universale impeto di furore, tutti protestando di non accettare quel regolamento, benchè modificato, nè sottomettervisi in verun modo, altro scopo esso non avendo che rimettere loro sul collo l'abborrito giogo della repubblica. Indarno furono chiamati a nuovo congresso. Ripigliate l'armi, obbligaronsi con fortissimo giuramento di trattare da nemico chiunque ardisse di parlare d'accomodarvisi. Scriveva il marchese di Cursay al cavaliere Chauvelin, non esservi in quello stato di cose che due soli partiti da prendere: o abbandonare la Corsica al suo destino, o far uso della forza contro la medesima. Ma, invece di risposta, si vide il marchese posto in arresto, guardato a vista, indi trasportato in Antibo, e colà custodito come prigioniero di Stato.

    Tra le accuse che allora si sparsero contro il detto comandante, la principal era quella di un'eccessiva ambizione, per appagare la quale avea voluto rendersi come necessario ad ambe le parti. In fatti un'autorità quasi illimitata erasi egli acquistata, specialmente facendo con una saggia amministrazione godere a quei popoli una vera felicità; temperato per lui il furore dei partiti, le leggi erano rispettate, divenuti rarissimi i delitti, e tutta la nazione tornata per un pezzo in dolce concordia. Fondata egli aveva perfino un'accademia in Bastia, la quale, sebbene lungo tempo non durasse, aveva tuttavia risvegliato tra' Corsi il gusto delle lettere.

    Arrestato il Cursay, le truppe franzesi rimasero sotto il comando d'un signor di Curci, il quale, facendo suo pro dell'esempio del predecessore, fu dal Grimaldi, e tutto si proferse a' suoi desiderii. Ma intanto le fazioni, le risse, le discordie, le diffidenze continuavano, accompagnate da incendii, violenze e spargimento di sangue; ed i Corsi di là dai monti, a segnalare di bel nuovo l'odio loro contro la repubblica, si elessero de' capi, e questi pubblicarono un editto rigorosissimo contro chiunque avesse avuto l'ardimento di fare qualsiasi proposizione a nome di Genova, e facevano inoltre arrestare ed impiccare senza formalità di processi coloro che erano, o si parea, sospetti di segrete intelligenze co' Genovesi.

    In mezzo alla universal pace, ogni lieve commovimento diventava osservabile, e tal fu l'attentato sedizioso di quei di Subiaco, grossa terra della Campagna di Roma, che tanto nel temporale come nello spirituale dipendeva dall'abbate commendatario di Santa Scolastica. Questi pastori, che tali sono per la maggior parte, irritati per aver perduto nella Rota di Roma una lite co' Benedettini di quella badia circa i pascoli di certa montagna, invece di rispettare il giudizio, o prevalersi contro d'esso de' rimedii legali, dato di mano all'armi, investirono il convento, costrinsero priore e frati a fuggirsene per le finestre, fugarono quanti accorsero in aiuto de' monaci, ed ucciso uno sbirro, trassero dalle carceri dell'abbadia diversi loro compagni. Giunto l'avviso del caso a Roma, furono mandate truppe, il cui solo aspetto sedò immantinenti il tumulto; parte dei principali autori fuggiti, parte arrestati, e tornati i Benedettini al loro convento. Ma, per non lasciare impunito un fatto di tanta conseguenza, fu comandato a quella popolazione di portare l'armi a Roma, il che fu subito eseguito. Formato intanto il processo ai capi della sedizione, dieci, che erano stati trasferiti nelle carceri di Roma, furono esiliati per sempre dalle terre dello Stato ecclesiastico; ed altri undici, già fuggiti, si sentirono fulminati in contumacia dalla condanna di morte. Quindi in poi il pontefice colse ogni occasione, per isfuggire simili disordini, di separare dalla spirituale la giurisdizione temporale in tutte quelle badie e governi, nei quali erano prima congiunte, assoggettandoli tutti all'immediata direzione della sacra consulta.

    Accadde in quest'anno in Piacenza la morte del celeberrimo cardinale Giulio Alberoni, che tanta parte ebbe nelle bisogna della Spagna e dell'Europa tutta. Ne era stata la vita in forse qualche tempo prima; ma colto avendolo, nel 24 giugno, fieri dolori seguiti da deliquio, tornarono vani tutti i soccorsi dell'arte, e due giorni dopo spirò, conservando sino all'ultimo una somma presenza di spirito; potendosi dire che fu tanto singolare in quest'uomo la morte, come disse Benedetto XIV, quanto erano state la fortuna, l'ingegno, l'età e la fama. Di tutti i suoi beni, che faceansi ascendere ad un milione di scudi romani, lasciò erede il seminario di San Lazzaro, da lui eretto e fondato con ispesa gravissima fuori di Piacenza; fondazione che sola avrebbe bastato ad immortalare un altro nome. Di quest'uomo molto e variamente fu parlato e scritto, e nel corso della rapida sua elevazione e poi della sua caduta, dopo la quale, quantunque paresse interamente staccato dagli affari politici, pur non lasciava di avere molta influenza in quelli che trattavansi in Europa. Tenendo corrispondenze in tutte le corti ed in tutti gli Stati, i più celebrati ministri lo hanno consultato; e siccome possedeva in grado eminente l'arte delle combinazioni politiche unita a penetrazione profonda ed a sano giudizio, così prevedeva quasi sempre l'esito de' grandi affari, e raro fu che il successo non corrispondesse alle sue conghietture.

    Tre mesi circa prima dell'Alberoni, passò di questa vita il doge di Venezia Pietro Grimani. Già ambasciatore della patria a Londra ed a Vienna, se colà guadagnossi la stima dell'inglese nazione e fu ascritto alla reale società, legato ancora d'amicizia col primo uomo che allora fosse al mondo, con Isacco Newton, quivi destramente maneggiò gl'interessi del veneto senato, concertando coll'imperadore Carlo VI la sacra lega a danni del comun nemico del nome cristiano. Tornato da sì splendide legazioni in patria, fu insignito della dignità di procuratore di San Marco, e poi, nel 1741, collocato sul trono ducale. Culto letterato e filosofo sublime, gloriosamente regnò dieci anni ed otto mesi, ferma tenendo la repubblica nella saggezza del suo divisamento di starne lontana da straniere guerre. Ma se di grave cordoglio fu per questo conto la sua perdita a tutta la città, che conosceva il pregio d'un tal principe, gli uomini di lettere rimasero altamente contristati, in lui perdendo, più che il mecenate, un amico ed un compagno. Gli fu sostituito Francesco Loredano, cittadino di rara pietà e fornito di virtù morali e civili, tra le quali risplendeano egregie la liberalità e la beneficenza; consumato sino dalla gioventù ne' politici maneggi, ed occupato lungo tempo nel posto di savio grande, che val come chi dicesse nella carica di ministro di Stato.

    Nel mezzo tempo i corsari africani tenevano, secondo il solito, in apprensione le potenze europee colle continue loro scorrerie sul Mediterraneo, danneggiandone principalmente il commercio. Mentre pertanto alcune con esorbitanti tributi, sotto lo specioso titolo di regali, compravano la mal sicura amicizia delle africane reggenze, due squadre, di Napoli una, l'altra di Malta, segnalaronsi in due diversi incontri. In quella prima, i prodi capitani di due sciabecchi, Martinez e Gratto, andando in traccia di quattro sciabecchi algerini che infestavano le coste della Calabria presso il mare Adriatico, ne trovarono uno, chiamato il Gran Leone, tra l'isole di Zante e di Cefalonia. Era il maggiore di tutti, e montato dal comandante. Lo investirono con sommo coraggio; si difese l'algerino con non minore intrepidezza per due interi giorni, ma vedendosi oltramodo maltrattato dal cannone degli assalitori, fece forza di vele per salvarsi. Il capitano Martinez, temendo non forse potesse ripararsi in qualche spiaggia o porto del dominio ottomano, ove non gli fosse dato d'assalirlo, determinossi ad andarne all'arrambaggio, ed eseguì con tanta energia il suo disegno, pur secondato dal capitano Gratto, che gli riuscì d'impadronirsene e di fare cento ventiquattro prigioni, dalle catene liberando molti cristiani. Era intenzione de' comandanti napoletani di togliere quanto in quella nave era; ma scorgendola tutta forata dalle cannonate, e sì che faceva acqua da ogni lato, si appigliarono al partito di affondarla, senza che si prevalesse a salvarne se non le ancore e qualche sartiame. I regi sciabecchi non ebbero che dodici uomini uccisi e da venticinque feriti, tra' quali i due capitani Martinez e Grotto, che furono, come gli altri uffiziali, proporzionatamente ai meriti, rimunerati. Giusta le deposizioni degli Algerini presi, il numero loro era di ducento e trenta, ed il loro bastimento bene armato portava sedici cannoni e dodici petriere, allestito a spese del re d'Algeri, che ne avea dato il comando al rais Ismachid Nalif, nativo di Candia.

    Ma più fiero e sanguinoso fu il combattimento tra le galee di Malta ed altri due sciabecchi algerini; conflitto seguito alle alture di Gallizia, dov'è una torre difesa da cannoni e da presidio tunisino, a poca distanza dal capo Bon, tra Tunisi e Maometta. Affinchè non potesse loro fuggire di mano, le galee maltesi si posero tra la torre e i due bastimenti nemici. Menando quindi le mani, se fu straordinario il valore de' cristiani nel combattere, non minore si rimase la resistenza degl'infedeli nel difendersi. Nel famoso combattimento segnalossi il coraggio di tre soldati maltesi, i quali, nell'atto che una galea tentò d'impadronirsi d'uno dei legni turchi, e andolle fallito il colpo, v'erano saltati dentro. Tagliato a pezzi il primo, l'altro, quantunque ferito, troncò il capo all'Algerino che gli stava a fronte, ed indi, gettandosi in mare, ebbe la ventura di salvarsi ad una delle galee; ed il terzo, parimente slanciatosi in acqua, in mezzo al fuoco ed a' remi dei barbari, ebbe una sorte eguale. Due ore durò la pugna, ma infine ambi i sciabecchi rimasero presi, ad onta della disperata foga del rais comandante del più grosso, che, coperto di sangue che uscivagli da diciotto ferite, tra le quali quattro gravissime, non apparia modo di costringerlo. Tra i cavalieri di Malta che spiegarono in queste pruove estremo valore, contaronsi il cavaliere di Valenza, colonnello del reggimento di Bearn al servigio della Francia, il cavaliere Aldobrandini, il cavaliere di Pennes, il cavaliere di Elvemont; ma ben direbbe chi nominasse per tal conto tutti gli uffiziali e soldati maltesi, la perdita de' quali fu di tredici morti e quarantasette feriti, compresi i sopraddetti cavalieri Pennes ed Elvemont.

    Il ritorno de' vincitori coi vinti legni e coi prigionieri a Malta fu una specie di trionfo. Nè il solo gran maestro ed i cavalieri, ma tutti in Italia fecer plauso al valor loro, ed il giubilo fu tanto maggiore, in quanto che quei due sciabecchi erano i primi bastimenti algerini che fossero caduti in potere dell'ordine

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