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Misteri e segreti dei quartieri di Napoli
Misteri e segreti dei quartieri di Napoli
Misteri e segreti dei quartieri di Napoli
E-book585 pagine7 ore

Misteri e segreti dei quartieri di Napoli

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Info su questo ebook

Itinerari per scoprire nuovi scorci, leggende, aneddoti e tradizioni

A Napoli le pietre parlano. Ogni anfratto, ogni angolo, ogni facciata di palazzo reca in sé una storia nascosta. Per scoprirle bisogna scrostare i sedimenti del tempo, quelli di una città in cui i millenni passati convivono con l’oggi tra una via e l’altra, sia che passeggiamo nel centro storico, sia che ci perdiamo in una strada di periferia. Misteri e segreti dei quartieri di Napoli racconta come farlo, attraverso 10 passeggiate narrative che attraverseranno tutta la città. Dal cuore di Neapolis fino al porto, da Montecalvario a Chiaia, da Posillipo a Fuorigrotta, il lettore sarà protagonista di una sorta di flânerie tra strade, vicoli, monumenti e piazze fatta di aneddoti, cenni storici, curiosità, aspetti misteriosi del luogo che si andrà esplorando.

Un viaggio nel cuore di Napoli tra mistero, storia e leggenda

SAN LORENZO
Giuditta la dannata e la colonna infame
Il forno dell’agorà: qui l’origine della pizza?

VICARIA
Taverne, prostitute e femminielli all’Imbrecciata
Il primo stadio degli azzurri

SAN GIUSEPPE
Santa Chiara e lo spettro della regina tormentata
Cappella Sansevero e l’arcano del sepolcro del principe

MERCATO
Teste innamorate e richiami templari a Sant’Eligio
Il palazzo dell’impiccato

CHIAIA
Frankenstein, Casanova e le centauresse: benvenuti alla Riviera
«Vedi Napoli e poi muori», Conrad e la Villa Comunale

e tanti altri argomenti...
Marco Perillo
è nato nel 1983. Giornalista professionista, ha lavorato per il dorso campano del «Corriere della Sera» ed è redattore a «Il Mattino» di Napoli. Ha pubblicato romanzi, poesie e saggi. È autore, con Alessandro Chetta, del documentario Mirabiles – I custodi del mito (2016). Un suo antenato, Donato Stanislao, scrisse Ragguaglio delle ville e dei luoghi di Napoli e Campania (1737) per Carlo III di Borbone. Oggi lui cerca di seguire i suoi passi.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2016
ISBN9788854199040
Misteri e segreti dei quartieri di Napoli

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    Anteprima del libro

    Misteri e segreti dei quartieri di Napoli - Marco Perillo

    Introduzione

    Partenope e le storie oltre il velo

    A Napoli, forse più che altrove, le pietre parlano. Ogni anfratto, ogni angolo della città reca in sé una memoria nascosta, una storia pronta a essere rivelata. Basta guardare più a fondo, sollevare quel labile velo di Maya che separa i monumenti dalla nostra percezione e resteremo sorpresi.

    Non è difficile. Bisogna scrostare i sedimenti del tempo, quelli di un luogo in cui i millenni passati convivono con l’oggi tra una via e l’altra, mentre ci inoltriamo nel cuore antico o ci perdiamo in una strada di periferia. Lo sapeva bene, già nel Seicento, il canonico Carlo Celano, autore di quel Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli (1692) che fu a tutti gli effetti la prima guida della città. Un’opera poderosa – stampata da Giacomo Raillard in dieci volumi – che nacque da un’esigenza precisa: passeggiando tra le strade della città, al Celano capitò di ascoltare un viaggiatore straniero lamentarsi che a Napoli, oltre il cielo e il mare, non vi fosse null’altro d’interessante. Un’opinione che ferì non poco il canonico partenopeo e che ancor oggi è un errore in cui si può facilmente cadere.

    Napoli è città ascosa; non si concede facilmente. Le meraviglie vanno scoperte gradualmente, scavando sotto la superficie, al di là delle apparenze. Se altre città importanti d’Italia come Firenze o Roma hanno tesori più o meno accessibili, a Partenope non è così: bisogna essere come degli Indiana Jones pronti alla scoperta. Così come fece il Celano, che con grande arguzia letteraria – dopo la triste pugnalata alle spalle dell’amico Pompeo Sarnelli, il quale pubblicò una guida a suo nome usando gli appunti che lo stesso canonico gli aveva fatto vedere – indagò aspetti noti e meno noti della cosiddetta città porosa. Un termine, quest’ultimo, coniato dal filosofo Walter Benjamin che nel 1925 pubblicò sulla «Frankfurter Zeitung» una corrispondenza di viaggio dedicata proprio a Napoli. «Porosa come questa pietra è l’architettura», scrisse Benjamin insieme con Asja Lacis. «Struttura e vita interferiscono continuamente in cortili, arcate e scale. Dappertutto si conserva lo spazio vitale capace di ospitare nuove, impreviste costellazioni. Il definitivo, il caratterizzato vengono rifiutati».

    È bello pensare che possa esserci un fil rouge che unisca Celano al pensatore tedesco. In fondo, con Benjamin, assistiamo a un ribaltamento non da poco nell’arco di tre secoli: se infatti nel Seicento un viaggiatore straniero non riscontrò interesse per la città, ecco che nel Novecento – ma di sicuro anche prima, col Grand Tour settecentesco e ottocentesco – qualcuno s’accorge che invece c’è di tutto e di più.

    Napoli è come una spugna, simile al materiale di cui è composta: il vulcanico tufo. Napoli è un mondo che assorbe gli umori e le storie di chi vi ha vissuto, in cui la mitologia si respira in ogni dove e i fantasmi possono diventare carne. Un caleidoscopio, come ebbero a definire la città Fabrizia Ramondino e Andreas Friedrich Müller nel libro Dadapolis (Einaudi, Torino 1989) che raccoglie i pensieri e le opinioni dei tantissimi intellettuali che negli ultimi secoli hanno visitato la città. Colpiscono in particolar modo le parole dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun: «Napoli è una città che ha la struttura di un romanzo. Le strade sono piene di storie che chiedono di essere trascritte. Ma quello di Napoli può essere solo un romanzo barocco e surrealista, ma incompiuto, irrisolto, contraddittorio, dove convivono l’apoteosi della religione cattolica e la bestemmia». Ha ragione da vendere l’autore maghrebino (che qui ambientò i romanzi L’albergo dei poveri e Il labirinto dei sentimenti): Napoli è un po’ come il dio Giano, ha due facce almeno. Il duplice, la coincidenza degli opposti, sono un suo tratto distintivo: sacro e profano convivono, così come nobile e plebeo, apollineo e dionisiaco. In modo sorprendente, ciò che sembra inconciliabile diventa conciliabile, le forze contrapposte si fondono dando vita a quel «paradiso abitato da diavoli» che tutti conosciamo. Del resto, lo spiega bene Goethe in poche righe del suo Viaggio in Italia: «La terribilità contrapposta al bello, il bello alla terribilità: l’uno e l’altra si annullano a vicenda».

    E allora proviamo a viaggiare, naso all’insù e mente aperta, tra i quartieri napoletani. Lo faremo in dieci tappe, tra reale e irreale. Un numero non a caso, connaturato nella città – da Pitagora a Maradona – e utilizzato anche dal Celano. Dieci sono, manco a farlo apposta, le sue passeggiate narrative. E noi, muniti del suo stesso intento, ne ricalcheremo le orme, pronti a scandagliare i risvolti meno noti. Una flânerie, proprio come la concepiva Baudelaire: l’emozione profonda nell’osservare il paesaggio camminando. Ma attenzione, alla fine potremmo sì aver scoperto la città, ma probabilmente non riusciremo a capirla fino in fondo. Il perché? Ce lo spiega Curzio Malaparte in una delle pagine più belle del suo capolavoro La pelle (1949):

    Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli.

    Marco Perillo

    Prima tappa. Il cuore di Neapolis

    San Lorenzo, Vicaria, Poggioreale, Zona industriale

    San Lorenzo

    Dalla città greca ai vicoli d’oggi

    Il vento batte tenue sulle colonne corinzie. Si alternano nubi e squarci d’azzurro, in una mattinata come le altre. Le colonne sono lì, una accanto all’altra. Bianche e scanalate, invecchiate dal tempo eppure mai cadute. Noi ci troviamo in mezzo a entrambe, uniche superstiti dopo il terribile terremoto del 1688. Ne immaginiamo altre sei, identiche a quelle in piedi, tutte di epoca greca, a formare quello che secoli fa era il tempio dei Dioscuri.

    Ebbene sì, proprio loro: i mitici gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus e di Leda, che il padre degli dèi sedusse sotto forma di cigno. Due eroi che nacquero da un uovo – simbolo cosmico – e che furono costretti a vivere e a morire ciascuno a giorni alterni. Da queste parti sono stati venerati e osannati per secoli; la loro impronta resta indelebile nel dna delle strade.

    No; non ci troviamo nella Grecia classica, sul Partenone o a Delfi. Basta voltarci di qualche grado, verso la città brulicante ai nostri piedi, per capirlo. Siamo a Napoli, in piazza San Gaetano, dove forse più che altrove il passato sembra andare a braccetto con ciò che siamo oggi. Alle nostre spalle, davanti alle colonne, sullo stesso luogo dedicato ai Dioscuri, s’innalza la seicentesca basilica di San Paolo Maggiore, edificata tra l’viii e il ix secolo per celebrare la vittoria dei napoletani sui saraceni. Al posto delle statue di Castore e Polluce spiccano le grandi sculture di Pietro e Paolo, propulsori del cristianesimo nel mondo. Eccola la religione di Cristo che dialoga con l’antico culto pagano, in una teoria di corsi e ricorsi storici e di opposti che coincidono, proprio come i Dioscuri.

    A Napoli tutto questo è possibile. Il buio e la luce si alternano, alla bellezza succede l’orrore e viceversa, così l’antico al moderno. Ci viene da pensarlo sorridendo, mentre gettiamo lo sguardo più avanti e intravediamo, sotto un campanile ad arco rosso, San Gregorio Armeno, la mitica strada dei presepi in cui il Natale vive trecentosessantacinque giorni l’anno. Ci accerchiano l’odore di babà e di sfogliatelle appena sfornate, di pizze sortite da forni di tufo e di mare in lontananza. C’è un vociare interminabile, una folla di gente che sovrasta lo stridio dei gabbiani e il tubare dei piccioni sulle sommità dei palazzi attorno. Ci arriva l’eco di qualche tamburello, il suono di una tarantella improvvisata in piazza o il verso di qualche canzone che un artista si diverte a strimpellare. Questo posto è il cuore di una città millenaria, qui vi fu – e c’è ancora – l’agorà dei greci, divenuta poi il foro dei romani. È il centro gravitazionale in cui tutto si racchiude e ogni cosa si esplica; sembra di trovarci nell’ombelico del mondo, un crogiuolo dove confluiscono riti arcaici, memorie di un trascorso ancora presente. La nostra passeggiata tra i quartieri napoletani e i loro segreti non poteva che cominciare da qui; da San Lorenzo che è l’ago della bilancia, punto di partenza e di arrivo.

    Lo sapevano anche gli antichi che ogni città ha bisogno di un posto attorno al quale tutto ruoti. E anche se la storia della città non è iniziata qui – ma sulle alture di Pizzofalcone dove i coloni calcidesi provenienti da Cuma, il più antico insediamento greco d’Occidente, fondarono Partenope intorno al 680 a.C. su un preesistente nucleo abitativo dei rodii – in questo posto sorgeva Neapolis, la città nuova costruita per volere di un oracolo e legata al culto della sirena che sull’isolotto di Megaride, dove oggi è Castel dell’Ovo, venne a morire. Partenope, come si tramanda, fu straziata dal dolore infertole da Ulisse, l’eroe omerico che, legato all’albero della nave, resistette al canto suo e a quello di Leucosia e Ligea nelle acque antistanti l’arcipelago de Li Galli, al largo di Positano. Le tre sirene, mezze donne e mezze uccelli – solo nel Medioevo l’iconografia le ritrarrà con la coda di pesce – si suicidarono per l’onta subita e andarono a perire in luoghi diversi. Leucosia scelse il Cilento, l’attuale Punta Licosa, mentre Ligea fu trasportata dalle correnti fino alla foce del fiume Okinaros, in Calabria, dove alcuni pescatori la seppellirono e venerarono.

    Questa è la leggenda. Un’altra versione, forse meno fantasiosa, ci viene dal Celano, che attribuisce la fondazione della città a Eumelio Falero, figlio di quell’Alcone che fece parte della spedizione degli Argonauti di Giasone. Eumelio era un ateniese e tali erano i coloni che portò con sé su queste sponde. Partenope sarebbe arrivata soltanto dopo, per ampliare la città preesistente e darle il suo nome. E non sarebbe stata una sirena, bensì una donna in carne e ossa, figlia del re di Fera, giunta su queste sponde dall’isola di Eubea con molti calcidesi. Qualche altro storico ritiene invece che Partenope potesse essere addirittura la figlia o la compagna di Falero – nome, quest’ultimo, che figura tra gli arcaici appellativi di Napoli. Di certo, che si trattasse di una bella fanciulla o di una creatura mitologica, Partenope era una illibata, indiscussa qualità sacra per gli antichi. Secondo alcuni studiosi, probabilmente essa rappresentava proprio l’emblema della costellazione della Vergine e in suo onore furono istituiti dei giochi, forse la forma embrionale di quelli che sotto Augusto sarebbero diventati i celebri Giochi Isolimpici¹.

    Ma torniamo a noi e al passaggio da Partenope a Neapolis. Nel 530 a.C. la città vecchia, o a dirla alla greca Palepolis, decadde. I cumani erano spesso minacciati dagli attacchi degli etruschi, evoluto popolo che in Campania, godendo di fertili terre, aveva fondato le città di Nola e di Capua. Dopo aver vinto la guerra contro di loro verso il 474 a.C., i greci partenopei decisero di stare più sicuri e di costruire un nuovo avamposto. Scelsero perciò di spostarsi più all’interno, in un’altra zona collinare – quella dell’attuale San Lorenzo – che vollero proteggere con forti mura di tufo, non rinunciando a un affaccio sul mare. L’intuizione fu vincente, poiché le mura resistettero persino agli attacchi di Annibale e soltanto i saraceni, intorno all’anno Mille, riuscirono a penetrare in città dal mare².

    L’antica Neapolis si estendeva dalla zona sepolcrale corrispondente all’attuale rione Sanità fino all’odierna zona del corso Umberto; tutt’intorno scorrevano le acque scroscianti dalle alte zone limitrofe come Capodimonte o i Camaldoli. Grazie alla moda in voga in quel periodo, la città fu progettata secondo un impianto di strade pseudo-ippodameo, che ancor oggi – caso forse unico al mondo – sussiste inalterato. Ippodamo da Mileto era un architetto che nel 470 a.C., per ordine di Pericle, si recò a visitare le metropoli asiatiche di Babilonia e Ninive, importando i loro schemi costruttivi, grazie ai quali furono elevate in Grecia le città di Pireo e di Alessandria. In Magna Grecia, secondo gli stessi dettami, sorsero Thurii – nell’odierna Calabria – e appunto Neapolis. In origine la città misurava in totale tre chilometri e settecento metri. Le tre arterie principali (oggi via Anticaglia, via dei Tribunali e via San Biagio dei Librai) erano chiamate plateai – o decumani in epoca romana – e larghe cinque metri e novantadue centimetri, s’intersecavano con una ventina di stenopoi di circa tre metri – chiamati in seguito cardi – formando così una sorta di griglia. L’incrocio tra questi assi dava come risultato le insulae, larghe trentacinque metri e lunghe centottantacinque, antenate degli odierni isolati. Ne sono tuttora diciannove, lungo le quali non è raro sorprendersi a scoprire pezzi di antiche colonne, basamenti o iscrizioni incastonate tra un palazzo e l’altro.

    In origine a Neapolis si contavano circa ottomila abitanti, che divennero trentamila nel i secolo a.C., tanto che occorrerà trovare nuovi insediamenti nelle zone di Chiaia e di Posillipo, nonché nei centri flegrei, nei dintorni del porto commerciale di Pozzuoli, raggiungibili attraverso il grande antro della Crypta Neapolitana. In ogni modo, il centro nevralgico restò l’agorà, dove si svolgeva la vita politica e religiosa. Qui si riuniva l’assemblea dei cittadini per discutere le sorti della città; qui si eleggevano i magistrati, tra i quali alcuni formavano il collegio sacerdotale della Laucerlachia che si occupava di celebrare riti e misteri³. Nonostante la nota forma di democrazia – a capo della città c’erano il demos, il popolo, e la bulè, l’assemblea – alla fine a farla da padrone erano i signori dell’oligarchia cittadina, i demàrchi, che in seguito avrebbero preso accordi segreti coi romani. A quei tempi la città era suddivisa in quattro quartieri principali, che a loro volta erano frammentati in tre parti ognuna delle quali amministrata da fratrìe, sorta di tribù che erano le principali famiglie dell’epoca⁴. La prima regione che contraddistingueva gli originari quartieri di Neapolis era quella Ercolanense o Forcillense, situata tra l’odierna San Lorenzo e Forcella. Qui si trovavano il tempio di Ercole, numerose terme, il Ginnasio e pare vi si svolgessero le mitiche lampadoforie, le corse con le fiaccole in onore di Partenope. La seconda zona era quella Nilense, compresa tra l’antico porto – rinvenuto in tempi recenti vicino al Maschio Angioino – e Mezzocannone. Era detta Campana o Palatina la terza regione, in corrispondenza dell’attuale zona del Duomo, che un tempo ospitava il tempio di Apollo, dio solare che rappresentava uno dei culti principali dell’epoca. L’ultima regione era chiamata Montagna e riguardava la zona di Sant’Aniello a Caponapoli dove da alcuni ritrovamenti di statuette votive – antenate degli ex voto che troviamo in tutte le chiese napoletane – sappiamo che sorgevano un santuario dedicato alla Dea Madre e un tempio dedicato alla Fortuna. Era questa la zona dell’acropoli, dove si svolgevano processioni e sacrifici. Un luogo molto più alto rispetto all’attuale, che ha subìto nei secoli terremoti, alluvioni e l’incedere della Storia.

    Intorno al 326 a.C. Roma fu impegnata nella seconda guerra sannitica e cinse d’assedio Neapolis che all’inizio si era schierata con la popolazione a lei più vicina. A causa di divisioni interne la città cedette, ma i romani le consentirono ampia autonomia e lo status di civitas foederata. Nell’89 a.C. Neapolis divenne a tutti gli effetti un municipio romano e fiorirono i commerci, le attività produttive. Nel cuore della città si moltiplicarono le tabernae vinariae, accanto al macellum, il mercato coperto. Nell’attuale via Sapienza era ubicata l’imponente Porta Romana, distrutta solo in epoca medievale. Nei pressi della zona dei Girolamini, come racconta lo storico Bartolommeo Capasso in Napoli greco-romana del 1905, doveva trovarsi l’aerarium, ovvero il tesoro pubblico, accanto al carcere cittadino. Più a meridione, ecco spuntare uno stadio e un ippodromo. Si è parlato molto anche della possibile presenza di un anfiteatro, tra la porta di Forcella e quella che oggi è Porta Capuana; probabilmente si trovava dalle parti della diruta chiesa di San Nicola dei Caserti, che anticamente era chiamata ad Amphitheatrum.

    Per secoli Neapolis fu punto d’incontro tra popoli e culture, come testimonia la folta presenza di mercanti provenienti da Alessandria d’Egitto, ma anche di ebrei. La città restò l’esempio del cosmopolitismo più vario e dell’osmosi tra le razze. Ci si poteva permettere – anche nel periodo romano e ben oltre – di parlare greco e di vestire alla greca. Sorgevano, nel centro, importanti scuole di filosofi e rètori, secondo la più rigorosa tradizione ellenica. Neapolis era una sorta di novella Atene, tra le più dotte città d’Occidente. S’innamorarono di questi luoghi poeti come Orazio, Ovidio, Giovenale, Stazio. Quest’ultimo addirittura preferì lasciare la frenetica vita di Roma per la tranquillità partenopea, decantandone in versi le delizie così come gli inverni miti e le estati gradevoli. «In quei tempi la dolce Partenope ospitava me che fiorivo d’entusiasmo per un licenzioso ozio» ebbe a scrivere Virgilio, altro protagonista della città, che secondo tradizione popolare qui dette prova di efficiente mago.

    In epoca augustea Napoli fu dotata di un grandioso acquedotto che da Serino, nell’attuale Irpinia, arrivava fino in città terminando la sua corsa a Miseno, dov’era ancorata la flotta imperiale che fu comandata anche da Plinio il Vecchio, morto nel 79 d.C. nel corso dell’eruzione che distrusse Pompei ed Ercolano. Intorno al iii secolo d.C. si sviluppò nella regione Nilense, accanto alle comunità orientali, quella cristiana, che si radicherà negli strati sociali nonostante terribili persecuzioni come quella di Decio e di Diocleziano, sotto cui cadrà martire san Gennaro. Nel v secolo la città subì un forte declino – tra l’altro comune a tutta la penisola italica – e come una metafora l’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, spodestato nel 476 dal barbaro Odoacre, finì i suoi giorni in esilio sull’isolotto di Megaride, proprio là dove undici secoli prima Partenope era nata con la morte della sirena.

    San Lorenzo, però, non è soltanto reminiscenza di antichità greco-romane. È un quartiere che comprende una concentrazione significativa di palazzi nobiliari che vanno dal Quattrocento all’Ottocento, di insulae conventuali che hanno fatto la storia della città e d’Europa attraverso le loro farmacie. Questa zona è una sintesi di ciò che di più interessante si possa vedere a Napoli, dall’Accademia di Belle Arti composta interamente di pietre di tufo – opera del 1863 di Errico Alvino – fino al Teatro San Ferdinando che fu il palco di Eduardo De Filippo. Un quadrilatero vasto, che dall’antico largo delle Pigne – oggi piazza Cavour – finisce a Castel Capuano.

    Lungo il percorso calpestiamo la Storia, in un andirivieni di epoche che si susseguono. Questo la dice lunga su una città dominata nel corso dei secoli da greci, romani, bizantini, normanni, tedeschi, francesi, spagnoli, austriaci e che ha fatto del cosmopolitismo uno dei suoi punti di forza. Troppo spesso dimentichiamo che Napoli fu metropoli ben prima di Parigi, Londra e New York. Le strade di basolato grigio che percorriamo sono figlie dei vulcani e ci raccontano, passo dopo passo, la magmaticità della gente che le abita.

    Gli antichi quartieri: la simbologia dei Sedili

    Alziamo lo sguardo e scorgiamo il campanile. Siamo davanti alla basilica di San Lorenzo Maggiore; quattro piani di massi in piperno compongono la torre campanaria edificata nel 1487 per sostituire la precedente del xiii secolo. Una torre che ne ha viste tante: da quando serviva da tribunale della Fortificazione delle acque e del mattonato – poi della Pecunia, della Visione e revisione dei Conti e della Salute – fino alla sua funzione come deposito di armi e relativi assalti durante l’insurrezione contro il viceré don Pedro di Toledo nel 1547 o quella di Masaniello esattamente cent’anni dopo. Un luogo simbolo, da dove il generale francese Championnet il 24 febbraio del 1799 fece sventolare la bandiera della Repubblica Partenopea.

    Accanto a noi scorre frenetica la via di San Gregorio Armeno; gli artigiani dei presepi montano i loro allestimenti variopinti sui banchi. C’è un viavai continuo; gente che entra ed esce dal portone trecentesco di San Lorenzo, sormontato dalla facciata di Ferdinando Sanfelice del 1743, ricostruita dopo la distruzione di un terremoto undici anni prima. In epoca aragonese sulla controfacciata rimase sospeso per molti anni il carro trionfale con cui Alfonso i fece il suo ingresso in città nel 1442. Oggi al suo posto vi è una tavola di Francesco Curia che rappresenta Cristo e San Francesco nell’atto di donare agli uomini il cingolo dell’ordine francescano.

    I nostri occhi si posano di nuovo sulla torre, dove al primo piano una bianca statua del martire cristiano, arso sulla graticola secondo tradizione, pare benedirci. Poco più sopra ci osservano un orologio immobile e una campana di bronzo che tace. Ma è spostando il nostro sguardo a sinistra, sopra l’ingresso al Museo dell’opera, che li notiamo: sono sette stemmi in terracotta, raffiguranti i simboli dei Sedili o Seggi, gli antichi quartieri della città, i cui rappresentanti partecipavano al governo. Gli stemmi furono posti lì nel 1879, a memoria imperitura delle riunioni che si svolgevano nella sala capitolare dell’allora Tribunale di San Lorenzo. In senso orario, gli stemmi regalano agli occhi un cavallo nero rampante per indicare il Sedile di Nilo (o Nido), Orione per il Sedile di Porto; una porta d’oro per il Sedile di Portanova; la lettera P che stava per il Sedile del Popolo; la Y pitagorica per quello di Forcella; tre monti per il Sedile di Montagna e un cavallo frenato bianco per il Sedile di Capuana. La primissima forma di vita di queste istituzioni pare sia risalente addirittura all’epoca di Costantino. I Sedili erano formati esclusivamente dai nobili, almeno fino a quando gli Angioini costituirono il Seggio del Popolo, soppresso sotto gli Aragonesi e ristabilito da Carlo viii di Francia nel 1495.

    Fu nel xiii secolo che queste organizzazioni si svilupparono in tutto e per tutto; nel 1266 erano ben ventinove, per passare a dieci nel 1300 e più tardi a sei. Ogni Sedile era comandato da sei rappresentanti che divennero otto nel Rinascimento⁵. Possiamo considerarli i parlamenti della Napoli di un tempo e si occupavano di tutto: dalla difesa in tempo di guerra alle epidemie, dalla salvaguardia delle incombenze giuridiche fino alla nomina dei ministri.

    La rivoluzione del 1799 decretò la fine dei Sedili, con l’avvenuta restaurazione del Regno delle Due Sicilie. Ferdinando iv non perdonò l’appoggio che essi diedero alla causa repubblicana. E così, proprio nel ’99 nacquero i quartieri napoletani come più o meno li conosciamo oggi: Chiaia, San Ferdinando, Montecalvario, Avvocata, Stella, San Carlo all’Arena, San Lorenzo, Vicaria, Mercato, Pendino, Porto, San Giuseppe. A quell’epoca, Chiaia arrivava fino a Posillipo e ad Agnano; Montecalvario fino a San Martino; l’Avvocata fino al Vomero, Arenella e Camaldoli; San Carlo all’Arena fino a Capodimonte e Capodichino; Vicaria fino a Poggioreale⁶. In seguito, dal 1885 e col Risanamento, i quartieri arrivarono a ventinove – praticamente come i primi Seggi – aggiungendo i vari Bagnoli, Fuorigrotta, Ponticelli, Barra e altri. Nel 1976 nacquero le ventuno circoscrizioni, divenute in seguito le attuali municipalità.

    Eppure i Sedili hanno un’origine ben più arcaica di quella che possiamo pensare. Sono la naturale conseguenza delle fratrie greche, che secondo lo storico Filippo Pagano si trasformarono nel ix secolo⁷. Anche le fratrie, come sappiamo, erano famiglie aristocratiche che si occupavano attivamente della vita pubblica. E poi vi è una connessione a livello simbolico. Pensiamo a quella della Y di Forcella, legata al mito di Ercole cui era dedicato un tempio in zona. Si racconta che il dio, dopo la sua decima fatica, transitò in Campania trasportando la mandria di buoi del mostruoso gigante dai tre corpi Gerione dalla Spagna alla Grecia. Giunto dalle nostre parti, Ercole fondò la città di Ercolano, la cui via probabilmente si prendeva inforcando la giusta direzione del bivio a forma di Y – tuttora presente – della regione Forcella. Una lettera che è soprattutto simbolo pitagorico, emblema della perfezione e metafora, secondo gli studiosi di esoterismo, della scissione tra mondo visibile e invisibile, tra il Bene e il Male. Insomma, l’ennesimo doppio napoletano, proprio come i Dioscuri.

    Altra figura fondamentale è quella di un uomo villoso che rappresenta il Sedile di Porto, ulteriormente presente sotto forma di bassorilievo sulla facciata di un palazzo in via Mezzocannone 9. Una figura fornita di coltello nella mano destra che secondo tradizione non sarebbe altri che Orione, il gigante cacciatore che volle sfuggire alla collera di Apollo rifugiandosi in mare, dove però fu colpito a morte da una freccia di Diana, che lo mutò nella costellazione conosciuta anche oggi. Un mito che ha avuto molto a che fare col Sud e in particolare con la Sicilia – Orione fu infatti ucciso nelle acque di Ortigia, l’isolotto di Siracusa – e ben presto la storia si trasformò nella leggenda di Colapesce, il ragazzo che passava così tanto tempo in mare da essere maledetto a restarvi per sempre dalla sua stessa mamma. Narra la vicenda che Colapesce arrivò anche a Napoli, dove svelò ai pescatori i traboccanti tesori celati nelle grotte del Castel dell’Ovo. Dopo qualche tempo, però, andò incontro a una fine tragica, esattamente quando il re chiese di portargli una palla di cannone sparata in mare dalla cima di una collina. Obbedendo, Colapesce si scavò la fossa: scese così in fondo agli abissi da non riemergere più.

    Un altro simbolo nodale è senz’altro quello del cavallo, comune al Seggio di Nilo – nome derivante dalla vasta colonia alessandrina presente in zona – e a quello di Capuana. Il cavallo ha avuto nel corso dei secoli un ruolo fondamentale per la città di Napoli. Ma lo scopriremo meglio in seguito, passeggiando lungo via San Biagio dei Librai, non lontano da qui.

    La delizia di Boccaccio e la croce di Petrarca

    A passo lento, entriamo nella gotica basilica di San Lorenzo. Le arcate di tufo, in stile provenzale, ci sorprendono e ci fanno tornare indietro nel tempo. Sembra di stare in Francia, all’interno di una di quelle cattedrali irresistibili dal sapore provenzale. In alto, dall’abside in fondo, attraverso le vetrate chiare di sette bifore affiancate, la luce arriva fino a noi e ci avvolge. C’è silenzio mistico tutto intorno, a stridere col vociare della piazza che abbiamo appena lasciato. Camminiamo verso il centro, rapiti dall’immane bellezza dell’edificio. Attorno a noi cappelle che custodiscono sepolcri importanti, come quello di Giambattista Manso, marchese di Villa e fondatore nel 1611 dell’Accademia degli Oziosi dopo essere stato protettore e primo biografo del Tasso⁸; di Ludovico Aldomoresco, opera di Antonio Baboccio da Piperno; del vescovo di Scala Giacomo Pisanelli o delle illustri famiglie Carmignano e Cacace. Ma la tomba più bella si trova vicino all’altare, quel monumento sepolcrale di Caterina d’Austria, duchessa di Calabria, realizzato da Tino di Camaino nel 1323. Un gioiello gotico a forma quadrangolare con baldacchino a sesto acuto per la prima moglie del primogenito di Roberto d’Angiò, re detto il Saggio e figlio di quel Carlo i che diede impulso alla ricostruzione, nel 1300, di San Lorenzo – che già era basilica paleocristiana datata iv secolo d.C., come dimostrano due mosaici all’altezza del transetto.

    Nella zona absidale c’è un pulpito del tardo Trecento, oggetto di una spassosissima novella di Masuccio Salernitano che narra la burla di tal Jeronimo di Vitavolo e dei suoi amici. Questi nascosero due trombettieri in quel luogo e fecero sussultare il popolo facendo credergli di essere al cospetto di angelici suoni, svergognando così un frate che diceva di far resuscitare i morti⁹. Fu però un altro compositore di novelle, l’immenso Giovanni Boccaccio, a diventare uno dei principali protagonisti di questo tempio. Tra queste mura, ispirato da una personale storia d’amore, il letterato ambientò l’incontro tra Panfilo e Fiammetta nell’opera Elegia di madonna Fiammetta del 1344. Boccaccio risiedé a Napoli per quattordici anni; vi arrivò nel 1328 quando era quindicenne, spinto dal padre all’apprendistato in materia bancaria presso la casa fiorentina dei Bardi. Ma in terra partenopea, frequentando gli ambienti della corte di Roberto d’Angiò, capì che la sua vera vocazione erano le lettere. Cominciò dunque a scrivere le sue prime prose e a interessarsi allo scandaglio della natura umana; a Napoli per esempio concepì il Decameron. A corte si respirava un’atmosfera romantica; lì i poeti cantavano canzoni in lingua d’oc o nel dialetto siciliano di Jacopo da Lentini. In questo ambiente Cupido non poteva che scoccare un dardo nei suoi confronti e così Boccaccio s’innamorò perdutamente di Maria d’Aquino, figlia naturale di Roberto d’Angiò, divenuta poi la Fiammetta letteraria. Lo scrittore di Certaldo la incontrò per la prima volta proprio a San Lorenzo Maggiore, esattamente il 30 marzo del 1336, un sabato santo. Maria aveva sei anni in meno rispetto a Giovanni; era una donna alta, snella, bionda, dalla fronte nobile su cui spiccavano sopraccigli neri e sottili. I suoi occhi «brillavano come stelle, simili a quelli del falcone peregrino»¹⁰. Tuttavia l’amore per lei non fu semplice; Maria si era sposata alla tenera età di quindici anni, dopo un non breve periodo nel convento di Sant’Arcangelo a Baiano, durante il quale pensò seriamente di farsi suora. Boccaccio, dimentico del suo status di sposa e temendo una possibile concorrenza – la ragazza era di frequente lusingata dagli uomini dell’epoca – cominciò a frequentarla assiduamente e riuscì a intessere una bella amicizia. I due si vedevano lontano da occhi indiscreti, proprio nel convento di Sant’Arcangelo – oggetto di scandalose tresche amorose e delittuose nella Napoli vicereale, narrate in un libello del 1860 attribuito a Stendhal. Pare che fu proprio Maria a spronare Giovanni a scrivere il Filocolo, narrando gli amori di Florio e Biancofiore. Ma presto l’autore accantonò il progetto per dedicarsi al poetico Filostrato, dove attraverso la storia d’amore di Troilo e Criseide sfogò tutta la sua passione per una donna di cui presto divenne cavalier servente, fingendo addirittura amicizia col marito.

    Boccaccio sospirava per lei in ogni dove: a corte, durante i tornei, nel corso delle danze, nei banchetti sulle spiagge, o cullati sulle barche che conducevano ai lidi della deliziosa Baia. Sperava di conquistarla con la poesia, e sotto i colpi dei versi pian piano lei cominciò a cedere. La grande occasione arrivò quando il marito di Fiammetta dovette recarsi a Capua per visitare alcune terre finite in suo possesso. Quasi come in una scena del Decameron, con la complicità di una domestica, Boccaccio riuscì a introdursi nella camera da letto di Maria, nottetempo, e ad attenderla dietro le tende. Arrivata nella sua stanza e spogliatasi, Fiammetta si mise a letto e s’addormentò. A quel punto, nel semibuio, il poeta si avvicinò. Lei, credendo fosse il marito, lo strinse a sé e prese a baciarlo. Ma subito si rese conto che non si trattava di lui e urlando, spaventata, domandò chi fosse. A quel punto Boccaccio si rivelò e confessò apertamente il suo amore, disposto anche a morire se non fosse riuscito ad averla. Maria finse sdegno, poi cedette alle lusinghe e al suo coraggio. L’amore tra i due durò soltanto una stagione, perché presto il poeta fu costretto a tornare in Toscana, per poi tornare a Napoli diverso tempo dopo, quando i sentimenti della donna erano ormai mutati.

    Se San Lorenzo fu cagione di sospiri amorosi per Boccaccio, sentimenti davvero opposti suscitò in un’altra pietra miliare della letteratura italiana: Francesco Petrarca. Siamo nell’autunno del 1343, a sette anni dall’incontro tra Boccaccio e Maria d’Aquino. Nella notte tra il 24 e il 25 novembre accadde l’incredibile: un tremendo uragano si abbatté sulla città di Napoli, insieme con un terremoto. L’autore del Canzoniere, ospite dei francescani nel convento di San Lorenzo, fu scaraventato a terra tra urla di terrore. «Oh, il diluvio!», ebbe a scrivere il giorno seguente in un lungo memoriale, «oh i venti e le saette! Oh fragore di cielo, oh sommovimento di terra, oh mugghio di mare! Oh ululato degli uomini!». Petrarca pianse, pregò, e fu quasi miracolato perché, scansando i crolli, riuscì a mettersi in salvo guadagnando nel buio l’esterno del chiostro dove i frati cercarono riparo.

    Napoli fu travolta da quel fenomeno che oggi potremmo identificare con uno tsunami. Il giorno dopo si scoprì che il molo angioino era completamente distrutto, che un’intera ala di Castel dell’Ovo era franata, che diverse galere in mare erano disperse, che il borgo dei pescatori era stato spazzato via. Disperato e attonito, Petrarca si mise a cavallo per capire cosa fosse accaduto. L’orrore che vide – «era tutto pieno quello spatio di persone affogate o che stavano per affogarsi: chi con la testa, chi con le braccia rotte e altri che uscivano le loro viscere» – lo avrebbe tormentato per il resto dei suoi giorni.

    Il forno dell’agorà: qui l’origine della pizza?

    Ci sono cose che non cambiano mai. Come il rapporto di Napoli coi suoi mercati: chiassosi, pieni di vita, colmi di mercanzie d’ogni sorta, in cui un tozzo di pane si guadagna tra spintoni ed epiteti tra commercianti rivali che ti arrivano alle orecchie. Chissà se anche nella Neapolis greco-romana era così; probabilmente sì. Chissà come doveva essere la vita in quel macellum, struttura rettangolare al coperto di cui oggi troviamo testimonianza negli scavi del ventre di San Lorenzo Maggiore¹¹. Basta scendere qualche gradino al di sotto del chiostro ed eccoci catapultati nel regno dell’opus reticulatum e dei laterizi, sotto quelli che furono criptoportici adibiti a mercato secoli e secoli fa. Con un po’ d’immaginazione possiamo vedere le botteghe e annusarne gli odori, sentirne le voci. Sui banconi erano esposti, proprio come nei quartieri più popolari d’oggi, pesci e crostacei in grandi quantità, carni squartate, otri colmi di vino oppure contenenti garum, la salsa a base di pescato per cui andavano ghiotti i romani. Ci imbattiamo in una fullonica, antica lavanderia con due lavatoi che servivano uno a pulire e l’altro a tingere i vestiti. Immediatamente ci viene da pensare ai panni stesi per strada e ai canti delle lavandaie del Vomero immortalate a teatro nel capolavoro La gatta Cenerentola di Roberto De Simone, dall’omonima fiaba di Giambattista Basile.

    Sappiamo bene che queste strade di sotto ricalcano le strade di sopra e che le botteghe sotterranee seguono la stessa pianta e ci ricordano quelle che abbiamo appena lasciato alla luce del sole. Ci sentiamo preda di uno sfasamento spazio-temporale, specialmente quando ci arrestiamo davanti a un enorme forno, pressoché intatto, con la forma a cupola. La bottega del fornaio di Neapolis è ampia, composta da due ambienti. Il primo era probabilmente riservato ai clienti, vista la presenza di un passavivande. Probabilmente la gente consumava lì il cibo appena sfornato, o al limite lo portava via. Parliamo tanto, oggi, di street food. Localini che sfornano fritture, zeppoline, panini take away o immancabili pizze a libretto, quelle mignon che si posso mangiare per strada. In epoca greca succedeva qualcosa di simile: dal forno usciva pane fragrante ma anche focacce e dolci di vario tipo. Da queste parti il grano, proveniente spesso dall’Africa, la faceva da padrone. Nell’adiacente vico Maiorani, è stato identificato il cosiddetto vicus pistorius, la via dei pestatori di grano, dov’erano presenti mulini che sfruttavano il corso dello scomparso fiume Sebeto. E allora perché non pensarlo? Perché non farci venire in testa quell’idea un po’ avventata ma che da alcuni punti di vista potrebbe stare in piedi? Sì, lo sappiamo che di pizza si parla non prima del 997 d.C. con un’attestazione in latino volgare di Gaeta e che soltanto nel xvi secolo, a Napoli, si chiamò così un pane schiacciato storpiando la parola pitta. Ma perché non sognare una sua ancestrale origine greca¹²? A Neapolis gli abitanti preparavano un morbidissimo pane di forma appiattita, chiamato plakous, che veniva condito con aglio o con cipolla. Ci ricorda qualcosa? Pare inoltre che anche l’uso della mozzarella non fosse sconosciuto ai nostri antenati. Secondo alcuni storici, l’invenzione e il consumo del latticino – o almeno di uno molto simile a quello d’oggi – risale proprio al tempo della colonizzazione greca in Campania. Su un aspetto molti concordano: l’introduzione del bufalo negli allevamenti ai tempi in cui Neapolis e Cuma prosperavano.

    Tornando alla pizza come la conosciamo oggi, sappiamo che la sua prima versione fu la Marinara, che risale al 1734 – il pomodoro arrivò in Italia, dalle Americhe, soltanto nel 1596. Per la Margherita la vicenda è più nota: nel giugno 1889, in onore della regina d’Italia Margherita di Savoia in visita a Napoli, il cuoco Raffaele Esposito, titolare della pizzeria da Pietro che si trovava a salita Sant’Anna nel quartiere Chiaia – dove c’è l’attuale pizzeria Brandi – le preparò una pizza condita con pomodori, mozzarella e basilico per rappresentare i colori della bandiera italiana.

    Su questa storia, però, non tutti sono d’accordo, visto che Francesco De Bourcard nel 1866 descrive i principali tipi di pizza e la Margherita già figura tra questi. Amante di tale pizza sarebbe stato il re lazzarone Ferdinando iv, che amava mischiarsi di nascosto al popolo e vivere il suo tipo di vita, gastronomia compresa. Nel bosco di Capodimonte esiste un forno grazie al quale una notte il Borbone si divertì a far assaggiare alla consorte Maria Carolina quel cibo plebeo che furoreggiava tra i poveri della città. Nonostante le resistenze della sovrana austriaca, egli ci riuscì. La vicenda è raccontata nel libro Ferdinando e il suo ultimo amore di Salvatore Di Giacomo (1914) che raccoglie la testimonianza del cuoco Domenico Testa.

    Stando Ferdinando a villeggiare a Capodimonte fu chiamato in corte, non senza sua grande meraviglia. La persona che lo chiamò gli disse che la regina e le sue dame desideravano tanto di mangiare delle pizze: che le facesse nella sera seguente e comuni e volgari come quelle che voleva vendere a due grana l’una. Il forno fu fabbricato nello stesso bosco di Capodimonte: le pizze furono preparate e le si mise al forno mezz’ora dopo la mezzanotte. Dopo due o tre minuti eccoti lì, con quattro o cinque dame di corte, la regina: arrivano poco dopo altre dame velate e in tutto don Domenico ne conta venti. La regina mangia con buon appetito una pizza da due grana, le dame la imitano ridendo, i domestici servono vino bianco e arance, ricomincia il ballo in Palazzo e la visione scompare.

    Lo stencil della Scorziata abbandonata

    A volte basta poco per ridare vita e dignità laddove l’uomo ha saputo creare distruzione e sopruso. E un notevole disegno di uno street artist straniero all’interno di una chiesa semidistrutta nel cuore di una città millenaria può essere un esempio. I cancelli del sacro tempio della Scorziata, che si affaccia su piazza San Gaetano, sono chiusi da tempo. Arrugginiti, spesso celati da maleodoranti cassonetti per i rifiuti. Ciò che resta della chiesa – fondata nel 1582 e ricchissima di opere d’arte fino al 1978 quando chiuse i battenti per problemi statici – sono macerie e detriti che si scorgono a occhio nudo dalle inferriate. Persino il portone è scomparso: bruciato durante un incendio appiccato da un falò degli scugnizzi dei tempi recenti. Una volta, all’interno di questa chiesa, come racconta il giornalista de «Il Mattino» Paolo Barbuto, vero e proprio Indiana Jones della città, nel suo libro Le chiese proibite di Napoli del 2010, c’erano le tele delle scuole del Solimena e di Stanzione, insieme con acquasantiere e arredi lignei: tutto trafugato negli anni dai ladri. Gli affreschi della volta sono crollati a causa delle infiltrazioni e ciò che restava del pavimento di marmo è stato rimosso e rivenduto chissà dove in tempi recenti. Un destino comune a diversi edifici sacri in città, molti dei quali chiusi in seguito al terremoto del 1980. Un patrimonio immenso che ha bisogno di cura, manutenzione e denaro che molto difficilmente si riesce a trovare.

    Un peccato mortale per una città che nel Cinquecento già accoglieva una quantità incalcolabile di chiese, cappelle, conventi, arciconfraternite che colpivano l’attenzione e gli interessi dei viaggiatori stranieri. Qualcuno di loro, come racconta Cesare De Seta, arrivò a scrivere che Napoli avesse più chiese di Roma, ma più o meno siamo lì. Molti di questi templi si cerca di recuperarli affidandoli a privati e ad associazioni che possano valorizzarli attraverso l’arte e la cultura. Non è un caso, forse, che un’ispirazione involontaria, in tal senso, l’abbia data proprio la Scorziata per quel che è accaduto nel gennaio 2014, quando un gruppo di giovani perlopiù stranieri s’infilò nella chiesa abbandonata armato di telecamere e macchine fotografiche. Tutti pensarono a predatori o satanisti, invece erano artisti. Volevano soltanto installare un’opera che desse un po’ di colore e calore dove regna la devastazione. E l’opera è quella di Žilda, street artist di Rennes considerato un po’ il Banksy

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