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101 perché sulla storia di Milano che non puoi non sapere
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E-book345 pagine4 ore

101 perché sulla storia di Milano che non puoi non sapere

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Info su questo ebook

Perché a Milano si beve l’eterna giovinezza? Perché la madunina brilla sempre più de luntan? Perché Milano è la culla e la tomba delle grandi stagioni politiche?

Una Milano che pare correre senza sosta, svelata da 101 curiosissimi “perché”, che ripercorrono la sua storia, dalle origini lontane e sepolte nei secoli al presente complesso e pieno di cambiamenti. Una città che sembra a volte dimentica del suo passato ma che invece, scavando a fondo, si rivela ricca di storia, segreti, curiosità e appassionanti aneddoti. Dalla scrofa lanuta al ponte delle sirenette, da sant’Agostino alle cannonate di Bava Beccaris, da Leonardo da Vinci alla plastica, dal futurismo all’Amaro Ramazzotti, da Verdi a Bob Marley: 101 domande e risposte su Milano, 101 storie per conoscere e amare questa città, e per scoprire che ha ancora tanto, tantissimo da raccontare.

Ecco alcuni dei 101 perché più curiosi:

Perché, come insegna Stendhal, milanesi si diventa?

Perché la periferia di Milano è santa?

Perché l’isola non è bagnata dall’acqua?

Perché l’editoria milanese ne ha viste di tutti i colori?

Perché Milano è una città di plastica?

Perché i milanesi ammazzano al sabato?

Perché a Milano la radio è libera veramente?

Perché il Palalido una sera si trasformò in palazzo di giustizia?

Perché quella signorina che batteva in piazza Duomo non faceva scandalo?

Perché a Milano si può tornare a vivere?

Giuliano Pavone

giornalista, ha scritto saggi, libri di varia e due romanzi: L’eroe dei due mari e 13 sotto il lenzuolo. È su Facebook e Twitter.

Marco Dell'Acqua

è nato a Milano nel 1966, città nella quale vive con Ida e Lorenzo. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi libri di carattere sportivo. Da Milano ha avuto molto, soprattutto la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2015
ISBN9788854187238
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    101 perché sulla storia di Milano che non puoi non sapere - Dell'Acqua

       1.

    PERCHÉ MILANO SI CHIAMA COSÌ?

    Uno dei simboli più antichi di Milano è la scrofa semilanuta, un animale mitologico e come tale inesistente. La leggenda fa risalire intorno al 650 a.C. l’incontro tra le avanguardie di Belloveso, comandante gallico venuto da questa parte delle Alpi in cerca di conquiste, e lo strano animale. I Galli partirono dalla loro terra, fredda e inospitale, per andare verso Oriente alla ricerca di pascoli più ricchi per gli armenti. Al momento della partenza in tanti scelsero di seguire il capo nella nuova avventura. Il cammino fu duro e impervio e Belloveso fu più volte sul punto di rinunciare e di tornare indietro. Resistette grazie a una predizione.

    Un oracolo aveva vaticinato che laddove fosse stata individuata una scrofa lanuta, animale sacro alla dea Belisama, sarebbe sorta una nuova città. E così fu.

    Scesero nella Pianura Padana: un ambiente fatto di acque, boschi, campi e clima umido, l’ideale per maiali e cinghiali. Non era un luogo esattamente ospitale, eppure lì avvenne il miracolo: Belloveso vide la scrofa in una radura, e fece porre immediatamente le fondamenta di quella che sarebbe diventata Milano. I Galli non si limitarono solo alla città, ma si insediarono in un’area più ampia che andava dalle montagne sino al Mincio e al Po. I Romani, quando la conquistarono, diedero alla regione il nome di Gallia Cisalpina.

    Di quell’epoca non ci sono molte testimonianze; l’unica immagine che abbiamo dello strano animale è un bassorilievo sul Palazzo della Ragione, in via Mercanti. Il ritratto della scrofa fu ritrovato nel 1233 durante gli scavi per la costruzione dell’edificio, uno dei più belli di Milano. La piazzetta adiacente è molto particolare, chiusa su quattro lati e con un pozzo nel mezzo. Sembra davvero di trovarsi in un’altra città, magari toscana, e invece si è a pochi passi dal Duomo. Da allora è sempre stata lì, minuscola e con la prospettiva sulla cattedrale.

    Ma perché è così importante questa scrofa semilanuta? Semplice: basta tradurre in latino la parola semilanuta, "medio lanum", ed ecco comparire il nome della città, rimasto pressoché invariato nel corso dei secoli. È Tito Livio, lo storico romano, a raccontare questa vicenda. Tuttavia va notata una stranezza: è improbabile che un barbaro abbia dato un nome latino alla sua nuova città.

    Sulle origini del nome di Milano ci sono varie altre interpretazioni, oltre a quella della scrofa semilanuta, tra cui una che lo fa risalire al fatto che la città si trova in mezzo alla piana. Ma al di là dei significati e delle origini, il suino rimane comunque uno dei simboli del capoluogo lombardo. Come icona non è, però, molto pubblicizzata, nonostante sia sul gonfalone della città insieme a sant’Ambrogio (il patrono), ai simboli delle quattro porte di Milano e alla medaglia d’oro della Resistenza.

    Ma la scrofa, anche se non si sa nemmeno se fosse davvero un maiale femmina o un cinghiale, visto che è un simbolo della città avrebbe tutto il diritto di essere più ricordata.

       2.

    PERCHÉ MILANO È LA CITTÀ DELLA TOLLERANZA?

    La sua statua (una copia in bronzo di quella conservata in San Giovanni in Laterano a Roma) è li dal 1937, alle Colonne, davanti alla basilica di San Lorenzo. Stiamo parlando di un imperatore romano, di quelli importanti, non di uno di quelli che studi a scuola e poi te ne scordi anche il nome. Costantino veglia sui tram che gli passano davanti, sui bevitori di birra, sui suonatori di bonghi e su tutto il popolo notturno delle Colonne. Un esempio di tolleranza assoluta, visto che per i residenti dormire è un’impresa.

    Qui, nel 313, venne promulgato il famoso Editto detto di Milano, o di Costantino o di tolleranza, appunto, perché dichiarava che la religione dei cristiani non era in contrasto con l’Impero romano e quindi tutte le persecuzioni contro di loro dovevano cessare. Sulla vicenda sono 1700 anni che si scrive e si discute. Fu veramente a Milano? L’intento era davvero quello di favorire i cristiani? Costantino si è mai convertito?

    Proviamo a mettere un po’ di ordine. Costantino, di stirpe nobile e combattente, nel 313 era reduce da una grande vittoria, quella di Ponte Milvio, a Roma, contro Massenzio.

    La leggenda vuole che alla vigilia della battaglia l’imperatore ebbe una visione: la Croce. E Gesù Cristo gli apparve in sogno consigliandolo di segnare gli scudi dei suoi uomini con una croce (In hoc signo vinces…). Il legame mistico tra apparizioni e trionfo ha alimentato il mito dell’imperatore cristiano. Nel febbraio del 313 a Milano furono celebrate le nozze tra Costanza, sorella di Costantino (Augusto d’Occidente), e Licinio (Augusto d’Oriente). Negli anni successivi i rapporti peggiorarono e Costantino ordinò l’uccisione di Licinio e del figlio avuto con Costanza.

    Ma in quell’occasione i due erano ancora amici e decisero di concedere la libertà religiosa e la restituzione dei beni confiscati ai cristiani.

    Trovandoci noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, felicemente assieme in Milano, per trattare i vari affari relativi al bene e alla sicurezza pubblica, tra le cose che più ci sembrano di utilità generale, credemmo di dover innanzi tutto regolare la questione che concerne il culto della divinità, concedendo così, tanto ai Cristiani quanto a tutti gli altri, di seguire liberamente la religione che più loro aggrada, affinché la divinità che ha la sua sede nel cielo, qualunque essa sia, possa guardare con occhio benigno e propizio noi e chi è sotto la nostra autorità.

    A sancire che il cristianesimo diventasse religione di Stato fu l’imperatore Teodosio, circa settant’anni più tardi. I cristiani erano diventati potenti ed era politicamente utile allearsi con loro. L’Editto di Teodosio in pratica blindava il culto e lo difendeva dalle eresie, lasciando il potere nelle mani dell’Impero.

    È forte il sospetto che l’apertura di Costantino alla Chiesa fosse uno strumento per governare meglio, per tenere tranquilla la piazza. Sull’Arco che gli fu dedicato a Roma non compaiono simboli strettamente cristiani e anche la sua conversione in punto di morte non è del tutto certa, benché all’epoca a tutti i moribondi venisse somministrato il battesimo. Mentre completamente falsa risultò la cosiddetta donazione di Costantino a papa Silvestro, come dimostrò nel 1440 Lorenzo Valla.

    La finta e famosa donazione concedeva alla Chiesa grandi ricchezze, e inoltre saldava il potere temporale e quello spirituale. I papi la utilizzarono contro gli imperatori bizantini per ribadire la propria potenza. Anche a Dante, che pur riteneva il documento autentico, la storia della donazione proprio non andava giù:

    Ahi, Costantin di quanto mal fu matre,

    non la tua conversion, ma quella dote

    che da te prese il primo ricco patre!

    (Inferno XIX, 115-117)

    Sono passati 1700 anni dall’Editto e Costantino, imperatore dedito alla guerra e amante del potere, è ricordato nei libri di storia per la clemenza e la tolleranza verso il suo popolo. Nella chiesa di San Giorgio al Palazzo, in via Torino, nel cuore dei resti del Foro milanese, c’è una lapide che ricorda il luogo di emissione dell’editto che ha cambiato il corso della Storia. Non solo di quella milanese.

       3.

    PERCHÉ SUL CAMPANILE DI SANT’EUSTORGIO C’È UNA STELLA A OTTO PUNTE?

    Tutti gli arcivescovi di Milano, dopo la loro investitura, al momento di prendere la guida di quella che è la più grande diocesi del mondo, entrano in città da Porta Ticinese.

    È da quella porta che entrò a Milano, per la prima volta, sant’Eustorgio. Leggenda, storia e tradizione in questi casi si fondono piacevolmente e ci tramandano il racconto dell’arrivo del santo con il suo prezioso bagaglio. Eustorgio arrivava da Costantinopoli, la capitale dell’Impero romano d’Oriente, dove era andato per rimettere il suo mandato nelle mani di Costantino (quello dell’Editto del 313), che lo aveva nominato governatore della città di Milano. In quell’occasione l’imperatore consegnò a Eustorgio un pesante sarcofago contenente le spoglie dei Re Magi, coloro che per primi resero omaggio al Gesù bambino. Gaspare, Melchiorre e Baldassarre morirono a Gerusalemme dove si erano recati, dopo la morte di Cristo, per portare la loro testimonianza di propagatori della fede. La regina Elena, madre di Costantino, conosciuta tra l’altro anche per essere un’infaticabile scopritrice di reliquie, anche le più improbabili, trovò i loro resti e li fece trasferire nella chiesa di Santa Sofia. Da qui l’imperatore li prese per consegnarli al suo fiduciario. Il viaggio di ritorno a Milano fu lungo e pieno di peripezie. Il carro era malandato e l’arca dei Magi era molto pesante. Varcata la porta cittadina, rimase bloccato nel fango. Eustorgio lo prese come un segnale divino e si fermò. In quel luogo fondò la basilica e vi sistemò i resti sacri. Prima di Eustorgio, in quella stessa zona, san Barnaba (amico di san Paolo Apostolo) battezzava e convertiva la popolazione milanese al cristianesimo; la fonte che utilizzava fu poi restaurata dal cardinale Federico Borromeo nel 1623. In epoca successiva, per segnalare a tutti coloro che arrivavano a Milano quale fosse la chiesa con le preziose reliquie, in cima al campanile non fu posta una croce bensì la Stella dei Magi, la cometa, in modo che potesse guidare chi la vedeva sino al luogo sacro. Eustorgio nel 343 divenne il nono vescovo di Milano. La stella a otto punte segnalava in maniera così efficace la presenza della reliquia che Federico Barbarossa se ne volle impadronire su consiglio dell’arcivescovo di Colonia Rinaldo di Dassel. Era il 1164 e in questo caso i fatti storici superano in stranezza le tradizioni e le leggende. Scopo del religioso tedesco era quello di accrescere il numero di pellegrini nella sua città e di toglierli a Milano perché era una città ribelle e indegna. Nel 1909 il cardinal Ferrari, arcivescovo di Milano, ottenne dal suo collega di Colonia la restituzione parziale della reliquia.

    I bombardamenti del 1944-45 distrussero gran parte dell’area tra la basilica di Sant’Eustorgio e quella di San Lorenzo, sino a quel momento fittamente costruita; nel dopoguerra in quella stessa zona non si edificò nulla e si realizzò il Parco delle Basiliche. Ora tutto corso di Porta Ticinese, che unisce i due luoghi, è una delle vie più cool della città, con negozi e locali molto milanesi, in cui si consuma il rito dell’aperitivo e si acquistano le marche più importanti di abbigliamento casual. A vigilare sulla zona non c’è più solo la stella a otto punte ma le telecamere municipali che impediscono l’accesso ai non autorizzati e che dispensano multe a chi non rispetta l’area pedonale.

    Il campanile di Sant’Eustorgio: riferimento importante, soprattutto per la Befana

       4.

    PERCHÉ PER SCOPRIRE IL BATTISTERO DI SANT’AGOSTINO C’È VOLUTA LA METROPOLITANA?

    Nel IV secolo Milano è al centro del mondo cristiano. Si inizia con l’Editto di Costantino nel 313 e si arriva al battesimo di uno dei padri della chiesa: sant’Agostino.

    L’autore delle Confessioni ha un percorso di formazione piuttosto movimentato. Nacque a Tagaste nell’attuale Algeria nel 354 e grazie alla madre Monica ebbe un’educazione classica, che però non gli impedì di approcciare il manicheismo. Agostino era un grande studioso e un abile insegnante. Attirato dall’Italia, abbandonò la donna amata e il figlio avuto da lei e si recò a Roma dove era ancora presente la tradizione religiosa pagana. Lo scontro di credi tra cristianesimo e paganesimo era in pieno svolgimento. A Roma resistevano i pagani che avevano nel senatore Simmaco, uomo di cultura e discendenza nobile, il loro paladino. L’oppositore maggiore del paganesimo non era a Roma ma a Milano: Ambrogio.

    È in questo contesto che Agostino scelse di lasciare Roma e di concorrere alla cattedra di magister retoricae nella città di Ambrogio. Simmaco, che vedeva nel giovane berbero, al tempo non ancora cattolico, un possibile alleato per mettere in difficoltà il vescovo, favorì la scelta di Agostino. L’ambizioso trentenne fu accolto con benevolenza, ma anche con un po’ di diffidenza, da Ambrogio proprio per i suoi trascorsi manichei e la sponsorizzazione di Simmaco. A Milano il giovane conobbe il successo e al contempo l’infelicità. La madre Monica lo raggiunse e Agostino si recava con lei a sentire i sermoni del Vescovo, cui, grazie a questi incontri, iniziò ad avvicinarsi. Intraprese così il percorso verso il battesimo, che ricevette nella notte di Pasqua del 387. Il sacramento fu il compimento del suo tragitto spirituale e, solo qualche mese dopo averlo avuto, lasciò Milano per tornare in Africa con l’obiettivo di una vita più appartata e dedicata alla preghiera. Ambrogio battezzò il suo discepolo nel battistero intitolato a San Giovanni alle Fonti che si trovava nei pressi di Santa Tecla (la cattedrale di Milano che sorgeva dove oggi troneggia il Duomo). Il luogo dimenticato riemerse clamorosamente nel 1961 durante gli scavi per la costruzione della linea 1 della metropolitana. Prima di allora nessuno aveva dato un’occhiata per vedere cosa ci fosse sotto. Oggi il legame fra sant’Ambrogio e sant’Agostino e la loro popolarità sono sanciti, segno della modernità, più dal fatto di dare il nome a due fermate consecutive della linea 2 della metropolitana che dall’essere stati dei pensatori (Marc Augè, l’autore di L’etnologo nel metrò, docet).

    La storia di sant’Agostino illustra bene quale fosse l’importanza di Milano nella geopolitica dell’Impero romano di Occidente, la sua centralità culturale e la sua capacità di accogliere chi arrivava da mondi lontani e diversi (i due santi, uno nordafricano l’altro tedesco, ne danno la misura precisa).

    Agostino, all’epoca, a Milano fu accolto e acclamato; oggi, come ha sottolineato lo storico Giorgio Rumi, vista la sua origine magrebina, sarebbe in fila fuori da qualche questura per ottenere il permesso di soggiorno. Morto a Ippona nella sua Africa, la sua storia è continuata, anche per le vicende che ne hanno accompagnato i resti terreni. Agli arabi di Sardegna, nel 724, Liutprando re dei Longobardi pagò un alto riscatto per averli e trasferirli a Pavia. L’Arca di Agostino è nella chiesa di San Pietro in Ciel d’oro. Il monumento funebre ripercorre, grazie a dei bassorilievi, tutta la vita del santo compresa l’avventurosa traslazione.

    Chissà che faccia farebbero i poliziotti dell’ufficio stranieri se, oggi, qualche immigrato dicesse loro: «Ama e fa ciò che vuoi»?

       5.

    PERCHÉ A MILANO IL CARNEVALE DURA DI PIÙ?

    Il calendario, quello internazionale/occidentale, a un certo punto del mese di febbraio indica sempre, su uno o sull’altro mercoledì, le ceneri riferendosi all’ultimo giorno del Carnevale. Il martedì precedente è quello grasso, in cui si gozzoviglia, si fa festa: da Venezia a New Orleans, da Ivrea a Rio de Janeiro. Ogni città fa a gara con le altre per allestire il Carnevale più sensazionale. Tutti però, all’alba del mercoledì, finiscono. Be’, quasi tutti.

    A Milano la festa comincia quando dalle altre parti è già incenerita.

    Si va avanti sino al Sabato grasso, quello precedente la prima domenica di Quaresima.

    Ma perché Milano è diversa? La tradizione popolare vuole che il vescovo Ambrogio fosse fuori città per un pellegrinaggio. Prima di partire disse ai milanesi che sarebbe rientrato in tempo per i riti della Quaresima. Ma, invece, rientrò con qualche giorno di ritardo lasciando i suoi fedeli liberi di continuare a divertirsi. Insomma, il privilegio, tutto milanese, di far coincidere il Carnevale con il weekend (e la conseguente chiusura delle scuole), è nato da un ritardo, per di più di un tedesco, visto che il vescovo di Milano era nato a Treviri. Alla faccia della proverbiale fretta ed efficienza cittadina.

    In realtà la spiegazione risiede nella differenza del sistema di conteggio dei giorni tra le ceneri e la prima domenica di Quaresima: anticamente la Quaresima iniziava dappertutto la domenica e così è rimasto nel Rito ambrosiano, mentre i giorni dal mercoledì delle Ceneri alla domenica successiva sono stati introdotti nel conteggio dal Rito romano per portare a quaranta i giorni di digiuno effettivo, tenendo conto che le domeniche non venivano contate.

    Il Rito ambrosiano è stato l’unico rito a non essere accorpato a quello romano durante il Concilio di Trento del 1565. Così, oltre quattrocento anni dopo il Concilio, i milanesi continuano a festeggiare più a lungo degli altri. E sempre a proposito di calendari, a tutti i concittadini di Ambrogio piace parecchio il giorno scelto per festeggiarlo, con il ponte dell’Immacolata sempre un po’ più lungo.

       6.

    PERCHÉ BARBAROSSA, LE LUCERTOLE E SIMÓN BOLÍVAR SI INCONTRANO TUTTI AL LORENTEGGIO?

    Cosa ci fa una chiesetta medievale nello spartitraffico di una moderna via commerciale? Domanda legittima. Soffocata com’è fra i palazzoni e il traffico automobilistico di via Lorenteggio, la chiesa di San Protaso, gesa di lusert per i milanesi autentici, sembra un pesce fuor d’acqua.

    E infatti, nelle intenzioni degli urbanisti, sarebbe dovuta scomparire già cinquant’anni fa. Invece le cose sono andate diversamente e la chiesetta è ancora al suo posto.

    Raccontiamo la storia dal principio. Le origini della chiesa di San Protaso si fanno risalire al secolo XII. All’epoca era un oratorio annesso a una cascina, fuori Milano, sulla tortuosa strada che portava a Vigevano. Nel corso dei secoli ha poi cambiato destinazione in diverse occasioni, diventando di volta in volta un fienile o un’abitazione. Scarseggiano notizie certe, ma abbondano leggende e dicerie. Come quella che vede Federico Barbarossa farvi sosta durante la seconda campagna d’Italia. O quella secondo cui il patriota Federico Confalonieri, all’inizio dell’Ottocento, si riuniva al suo interno con altri cospiratori, prima di essere arrestato dagli austriaci e internato nello Spielberg. Sarà per queste voci, o semplicemente per mantenere un legame col proprio passato, che gli abitanti della zona dettero vita a una vera e propria ribellione quando, nel 1955, fu proposto di distruggerla per fare spazio alla nascente via Lorenteggio (la chiesa si trova proprio all’inizio della via, nei pressi di piazzale Bolivar). Il nomignolo di chiesa delle lucertole rimanda chiaramente al periodo in cui l’edificio era ancora circondato dai campi.

    Scampata all’abbattimento, la chiesa di San Protaso poté così vedere la moderna città crescere attorno a sé. L’affetto della cittadinanza però non le evitò, nei decenni successivi, di sprofondare in un progressivo stato di abbandono e degrado. A porre rimedio a questa situazione ha pensato il Lion Club Milano Host che, in collaborazione con l’Associazione Commercianti del Lorenteggio (ASCOLOREN) ha provveduto nella seconda metà degli anni Ottanta a un’operazione di restauro della chiesa.

    La gesa di lusert all’esterno appare spoglia, con una finestra tonda sulla facciata e altre, aggiunte in epoca successiva, sui lati. Internamente sono sopravvissuti due affreschi: il Devoto che adora Cristo crocifisso e la cosiddetta Madonna dell’aiuto. Sono entrambe considerate opere modeste, ma alla seconda i fedeli sono sempre stati molto affezionati. La chiesa ospitava anche un altro affresco, di pregio, raffigurante santa Caterina da Siena e attribuito alla scuola del Foppa. Oggi è custodito nel Castello Sforzesco.

    Una curiosità: la chiesa non è esattamente parallela a via Lorenteggio. Il suo orientamento ricalca infatti quello della precedente strada per Vigevano.

    La chiesetta di San Protaso ha ispirato anche una canzone milanese, La gesa di lusert. Riportiamo il testo di Piero Mazzarella (la musica è di Moietta):

    Gh’è ona gesa là in fond

    a la strada che porta a Biegrass,

    la gh’ha minga el sagraa

    e l’è fada de sass;

    l’è freggia d’inverno,

    co’i mur che se lassen andaa,

    ma la cros del Signor

    la te manda calor.

    Nott e dì gh’è semper ’vèrt

    a la gesa di lusert,

    lì ghe prega la povera gent,

    senza cà, senza nient.

    Famm la grazia anca a mi,

    che son pover come ti,

    ti tel see che son senza pretes,

    scusom tant se hoo pregaa in milanes.

    Quand l’è primavera

    e in de l’aria l’è teved el so’,

    caccen dent el crapin

    e stan li a curiosà,

    la famiglia luserta:

    i fiolin con la mamma e’l papà

    li de sott de la cros

    preghen forsi anca lor.

       7.

    PERCHÉ IL BISCIONE MANGIA IL BAMBINO?

    Ci sono immagini che a furia di vederle diventano familiari, così familiari da non fare più caso alla loro stranezza. Fra queste, per i milanesi, il biscione con un bambino che gli spunta dalle fauci, uno dei simboli della città. Da dove viene questo stemma, e cosa significa? Rispondere è tutt’altro che agevole. Sulla questione ci sono poche certezze e molti misteri. Cominciamo dalle prime. Di certo c’è che il biscione fu il simbolo dei Visconti prima e degli Sforza poi, e che furono queste due famiglie, che signoreggiarono su Milano per secoli, a lasciarlo in eredità alla città. E si può dire che i dati univoci finiscono qui, perché se si vuole approfondire il discorso si deve entrare nel campo delle ipotesi. Perché i Visconti assunsero questo simbolo? La teoria più accreditata fa risalire la cosa alla Seconda Crociata, quando tale Ottone Visconti, che guidava i milanesi, abbatté di sua mano un gigantesco capo saraceno di nome Voluce che indossava un elmo con l’effige di un drago con un bimbo fra le fauci. A memoria dell’impresa, Ottone si sarebbe appropriato – fisicamente ma anche simbolicamente – del cimiero. Ma non è certo che si trattasse di un elmo: per alcuni era uno scudo, come testimonierebbe anche un verso di Torquato Tasso:

    …E il forte Otton che conquistò lo scudo

    In cui dall’angue esce il fanciullo ignudo.

    Elmo o scudo? Il dilemma passa in secondo piano di fronte a un nuovo sospetto: c’è chi sostiene che Ottone Visconti non sia mai esistito, e che sia frutto di una fantasiosa agiografia commissionata dai suoi

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