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Codice Redox - La sesta compagnia
Codice Redox - La sesta compagnia
Codice Redox - La sesta compagnia
E-book268 pagine3 ore

Codice Redox - La sesta compagnia

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Info su questo ebook

Siamo soli nell'universo? O invece da qualche parte esistono altre forme di vita intelligente? Soltanto Sasha Radislav, l’uomo che ha quasi ucciso Hitler, conosce la risposta, ma sa anche che certe cose è meglio tenerle segrete. Anni dopo, però, l’omicidio di una giornalista rischia di portare alla luce l’esistenza di una vita extraterrestre, esseri superiori che il Terzo Reich aveva prima idolatrato, e in seguito provato a sottomettere per impadronirsi di armi e di ricchezze con le quali prepararsi a una nuova guerra.
Tra complotti politici e misteriosi omicidi, Betta Zy ci racconta una differente versione della storia, dalla seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri, in cui le razze aliene sono insediate sulla terra e vivono nascoste in mezzo a noi.
LinguaItaliano
EditoreCarpa Koi
Data di uscita1 lug 2021
ISBN9791220820707
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    Anteprima del libro

    Codice Redox - La sesta compagnia - Betta Zy

    Codice Redox

    La sesta compagnia

    © 2021, Edizioni Carpa Koi

    Prima edizione marzo 2021

    www.edizionicarpakoi.it

    Riservati tutti i diritti..

    È vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, se non attraverso l’autorizzazione scritta da parte dell’autore e/o dell’editore.

    Betta Zy

    Codice Redox

    La sesta compagnia

    PROLOGO

    Nulla è certo nella vita fuorché la morte. O almeno è certo che esistano il bianco e il nero. Ma nessuno può stabilire fra essi quante sfumature grigie possano esserci. Non si può stabilire se è nato prima il bianco che, sporcandosi, è diventato nero o il nero che, sbiadendo, è diventato bianco. Cosa ha dato vita ai grigi? Due certezze che portano a un’infinita quantità di dubbi; uno scambio, come quello di elettroni da una specie chimica ad un’altra. È certo che la vita iniziò sulla terra con una scarica elettrica che sintetizzò il primo composto del carbonio, così come è plausibile che questo evento si sia verificato anche altrove nell’universo.

    Nel 1968 il fisico Federico Faggin iniziò a sviluppare i primi microprocessori e l’anno dopo, il 20 luglio 1969, Neil Armstrong e Buzz Aldrin partirono dal Kennedy Space Center e furono i primi a calpestare il suolo lunare.

    Questo, come sostenne Armstrong, fu un piccolo passo per l’uomo e un grande passo per l’umanità. Non si sa cosa di preciso Armstrong riportò sulla terra, ma dopo le scoperte di Faggin e successivamente l’allunaggio della navicella Apollo 11, la vita iniziò a cambiare, portando a una ulteriore rivoluzione tecnologica. Ma secondo Werner Karl Heisenberg, per il principio di indeterminazione che stabilisce i limiti nella misurazione di alcuni valori, non si può sapere con certezza ciò che accade nello spazio e nel tempo: la relazione fra la velocità del moto e la quantità di tempo impiegata per raggiungere un punto A partendo da un punto B nello spazio non ci permette per lo stesso principio di stabilire con assoluta certezza se qualcuno è arrivato qui prima di noi, né se quella rivoluzione tecnologica sia già successa da qualche parte, né se qualcuno ci ha fatto visita portando la sua conoscenza sulla terra molto tempo prima.

    CAPITOLO 1

    A Berlino, nell’aprile del 1945 il generale tedesco stava dormendo nel suo alloggio quando un boato terribile rimbombò nella notte. All’esterno del bunker, il clangore dei panzerfaust si mescolava ai botti dei Gewer43 e delle pistole mitragliatrici che rigurgitavano colpi come fossero bestie infernali. Il frastuono arrivava nel sottosuolo come una pioggia di colpi sordi. Il Generale si svegliò di soprassalto e iniziò a correre lungo i cunicoli del bunker sotterraneo. Arrivato davanti alla porta la spalancò senza bussare: «Mein Führer! Berlino è sotto attacco. I russi sono vicini. Deve lasciare subito la città».

    Il Führer si alzò dal letto cercando di non fare rumore ma la donna accanto a lui aprì gli occhi, guardandolo senza parlare. «Eva, torna a dormire» disse. Ma lei non gli diede ascolto, e si rivolse direttamente all’altro uomo.

    «Generale, com’è la situazione?» chiese.

    «Grave, signorina Braun. Si stanno avvicinando e…»

    «E noi li cacceremo, dannazione!» s’intromise il Führer. «Siamo o non siamo il Terzo Reich?». Adolf Hitler non era pronto a cedere. «Generale, riunisca gli altri. Prepariamo la controffensiva. Li distruggeremo».

    «Adolf, ho paura». Eva Braun guardò il Führer con devozione prima di proseguire: «Ma so che vinceremo. Ne sono certa».

    Lui la guardò, galvanizzato dalle sue parole: «Allora preparati. Presto ci sarà una festa. Porterò la Germania più in alto di tutti i Paesi al mondo e allora ti vorrò con me». Lei lo guardò, incerta sul fatto di aver compreso bene le sue parole.

    «Allora, Frau Braun? Cosa rispondi?»

    «Sì, sì. Sarò con te quando succederà, mein Führer». Nella konferenzraum del bunker, intanto, si erano riunite tutte le alte cariche del Reich. Adolf Hitler arrivò in alta uniforme poco dopo.

    «Signori, aggiornatemi sulla situazione».

    Il primo generale del Reich prese la parola.

    «La situazione è disperata, mein Führer. Siamo sotto attacco. Gli alleati occidentali ci stanno addosso, i Russi sono troppo vicini. Ecco: guardi lei stesso». Così dicendo, gli indicò tutti i puntini rossi sulla piantina di Berlino. Hitler pensò che fossero talmente tanti da far sembrare quella carta malata e purulenta.

    «Notizie dalla resistenza?»

    «Fanno quello che possono, signore. Cercano di rafforzare le difese ma senza successo, temo. Aspettavamo i soccorsi medici tre giorni fa, ma purtroppo ad ora ancora nessuna notizia».

    Il Führer si massaggiò i baffi. Eva, che l’aveva raggiunto, gli sussurrò poche parole: «Io non ti lascio. Fino alla fine, Adolf».

    Lui le strinse il braccio senza guardarla, poi disse: «Attaccheremo».

    Il Führer continuò a parlare organizzando l’offensiva e cercando risorse che non aveva. Intanto, il Capitano della sicurezza del Reich era fuori di guardia quando arrivò un ufficiale delle SS.

    «Capitano Goebbels, le ho portato qualcosa da bere. Com’è la situazione?»

    «Danke Klaus. Non lo so. So solo che non reggeremo a lungo purtroppo. Il Führer vuole attaccare ma è un suicidio» disse, mentre ragguagliava il collega su quanto aveva appena sentito, bevendo il tè caldo che il collega gli aveva portato. Dopo qualche sorso la vista gli si annebbiò e sentì la canna gelida di una Luger alla tempia.

    Klaus Muller guardò negli occhi annebbiati del tedesco e sogghignò.

    «Già, Capitano. Anche secondo me non ne uscirete vivi. Ora da bravo, cammina».

    «Cosa stai facendo, Muller? Verrai fucilato per questo».

    «Non credo proprio, Goebbels. Vedi, il mio governo mi sta aspettando e io voglio tornare a casa, in Russia» rispose, mentre spingeva il soldato nemico.

    Passarono attraverso un corridoio buio che portava verso l’esterno, quando ad un tratto sentirono dei passi. Troppo tardi. I due avevano già infilato la porta di uno degli alloggi e si erano messi in salvo. Il Capitano ebbe appena il tempo di sussurrare: «Sporco russo, eri d’accordo con loro, vero? Ci avete traditi maledetti! Insieme avremmo tagliato fuori l’America e uniti ce l’avremmo fatta. Invece è bastato un attacco a Berlino a far saltare i nostri accordi! Vigliacchi! Non potrete controllare nessuna nazione senza la nostra arma. Il Reich vi sterminerà tutti! Se il tuo presidente riuscirà ad avere la meglio su di noi dopo averci rubato le armi, non gli servirete più. Né te, né Zukov. Vi faranno fuori come bestie. Sarete solo testimoni scomodi di un accordo che avrebbe potuto arricchirci tutti».

    Klaus, il cui vero nome era Sasha Radislav, si mostrò perplesso a sentire il nome del suo superiore, il generale Zukov, ma non volle perdere tempo a chiedere spiegazioni. Decise che se Goebbels aveva ancora la forza di parlare nonostante il veleno, forse era arrivato il momento di farlo tacere per sempre.

    Nel frattempo, Hitler impartiva i suoi ultimi ordini.

    «Generale, organizzi un'offensiva a tappeto».

    «Mein Führer, le SS sono state decimate, mancano mezzi e munizioni. Come faccio a dare l’ordine?»

    «Ho detto di attaccare! È un ordine, Generale. Dica al Capitano di attaccare immediatamente!»

    In quel momento un soldato delle SS della guardia di sicurezza di Hitler irruppe nella sala e alzò il braccio per salutare il Führer, che lo guardò stupito.

    «Cosa diavolo…»

    «Mein Führer, il Capitano è scappato. L’ho sentito urlare che sarebbe andato a trattare la resa con gli alleati. Vorrei avere l’onore io stesso di giustiziarlo per alto tradimento».

    «Che cosa?». Hitler sembrava impazzito. Urlò l’ordine di cattura a tutti i presenti.

    «Mein Führer, la prego: voi dovete pensare a salvare la Germania. Lasciatemi questo onore. Lo prenderò io. O morirò per la mia patria».

    «Come ti chiami?»

    «Klaus Müller, mein Führer».

    «Vai, Klaus. E al tuo ritorno ci sarà un onorificenza in oro ad attenderti». Klaus Müller uscì dal bunker con le parole del Capitano tedesco che ancora gli rimbombavano nella testa. Se Goebbles aveva detto la verità, i tedeschi possedevano delle armi segrete e Zukov ne era a conoscenza.

    CAPITOLO 2

    A un paio di chilometri di distanza, in un vecchio edificio abbandonato, il Generale Zukov guardava il cielo da una finestra andata in frantumi. «Nikolaj, pagherei per un goccio di vodka». Il soldato che aspettava con lui gli andò vicino «È peggio qui che nella steppa, signore».

    «Hai proprio ragione, amico mio. Dimmi: da dove vieni?».

    «Ojmjakon, signore. In Siberia».

    Nkolaj sospirò. Era stanco della guerra. Voleva solo tornare a casa, varcare le mura della sua città.

    Più che una città, era un villaggio sulle rive del fiume Indigirka, e la cosa che gli mancava di più, lì a Berlino, era la sua amata foresta. Da bambino gli piaceva scappare fra gli alberi, dove poteva vivere coi suoi amici mille avventure. La c’era la neve che sapeva di pulito e l’odore si mischiava a quello degli alberi e della zuppa di cavolo e patate che preparava sua madre sulla stufa, quando la sera tornava a casa.

    La foresta era collegata al villaggio dal vecchio ponte che passava sopra al fiume. A quell’ora le luci che lo illuminavano ai lati erano senz’altro già accese. A differenza di Berlino, dove quanto meno si poteva godere dei colori del tramonto, a Ojmjakon faceva buio presto. Nikolaj amava il manto bianco che copriva il suo villaggio, che rifletteva una luce magica lungo il dipanarsi dei sentieri. In lontananza poteva vedere il Veliki Sibirischi, la via ferrata che, ne era certo, sarebbe diventata la più grande linea ferroviaria del mondo.

    «Cosa c’è di bello laggiù?» gli chiese il Generale Zukov, ridestandolo dai suoi pensieri.

    Il giovane soldato tirò fuori da sotto l’elmetto una fotografia e mostrandola al suo superiore rispose: «Lei. Elena, la mia fidanzata». Mentre il generale si volse per guardare la foto, notò del movimento in fondo alla via e sorrise. «Se tutto va come previsto Nicolaj, rivedrai presto sia la Siberia che Elena».

    In strada due soldati gridarono verso un soldato tedesco coperto di sangue che avanzava con la bandiera russa in mano: «Altolà! Abbassa le armi! Giù le armi ho detto! Alza le mani e fatti riconoscere». Il soldato sparò due raffiche in aria.

    «Abbassa quel fucile, Yuri. Sono io» rispose calmo l’ufficiale dell’armata russa mettendo via l'arma.

    La guardia si mise sull’attenti e lo fece passare, affinché potesse raggiungere il rudere che era diventato il suo comando in quelle settimane.

    Il suo superiore gli andò incontro salutandolo con un abbraccio. «Sasha! Ti aspettavamo giorni fa! Cosa è successo?»

    «Solo qualche piccolo imprevisto, generale. Siamo tutti barricati nel bunker ormai in pianta stabile. Non è così facile uscire senza essere visto». Poi, rivolgendosi all’amico disse: «Nicolaj! Sei arrivato finalmente!». E gli diede una pacca sulla spalla.

    Il generale guardò con orgoglio Sasha Radislav, la migliore spia di tutta la Russia, l’uomo che aveva ingannato le alte sfere del Terzo Reich.

    «Klaus Müller, eh? Incredibile come se la siano bevuta per tutto questo tempo. Dammi qualche buona notizia, Sasha».

    «Tutto procede come previsto. I nazisti sono allo stremo, non hanno più uomini, munizioni e risorse. Inoltre, anche cibo e medicinali iniziano a scarseggiare e il Führer è destabilizzato ora che il suo fedelissimo generale ha disertato per trattare la resa».

    Il generale si alzò di scatto dalla sua poltrona sgangherata: «Si arrendono?»

    «Veramente no. Il numero due del Reich è morto crivellato di colpi. L’ho buttato sotto a un carro armato. Ma questo Hitler non lo sa. Sa solo che è scappato come disertore e io mi sono offerto di dargli la caccia. Tornerò al bunker dicendo che l’ho inseguito fin qui ma che ormai aveva accettato i termini della resa, e che gli alleati hanno già preso Berlino».

    «Sasha, è molto pericoloso…»

    «È più pericoloso se resto ancora. Devo andare, generale. Tornerò presto, abbia fiducia in me ancora una volta. L’ho mai delusa?». Il generale fece segno di no con la testa, e lo lasciò andare senza obiezioni.

    «Abbi cura di te, ragazzo mio. Salviamo il mondo da questi pazzi e poi torniamo a casa».

    Sasha si congedò, e stava per uscire quando si rivolse al superiore: «Generale, i tedeschi di che armi dispongono?».

    Lui lo guardò sospettoso: «Dovresti saperlo bene, Sasha. Come mai questa domanda?»

    «Nessun motivo in particolare, generale. Ma il Capitano prima di morire ha farneticato accusandoci di volerci impossessare di una particolare arma tedesca. La cosa curiosa è che ha fatto il suo nome, asserendo che la Russia ha in progetto di conquistare segretamente diversi territori insieme alla Germania, proprio con questa arma, e tagliare fuori l’America». Il Generale si adombrò per un attimo poi rispose: «Dimmi, Sasha, se tu stessi per morire non diresti qualsiasi cosa per salvarti?».

    Sasha annui in silenzio. Poi uscì e tornò a essere Klaus Müller per l’ultima volta.

    Rimasto solo, il Capitano Zukov si massaggiò le tempie e per la prima volta ebbe paura. Goebbels era morto. Questo ridefiniva tutto. Loro due, di comune accordo avevano tagliato fuori i loro governi quando il tedesco era venuto a conoscenza di una base nascosta che ospitava soldati alleati impegnati nella costruzione di non ben precisate armi segrete. A quanto pare solo Hitler conosceva l’esatta ubicazione della base, ma Goebbels era stato furbo e aveva proposto a Zukov un accordo, un’alleanza per soverchiare il Reich. In cambio la Russia avrebbe ottenuto l’esclusione degli Stati Uniti. Poi, una volta finito il lavoro, Russia e Germania avrebbero smantellato la base e deportato i soldati alleati, la cui patria di origine restava ancora un mistero.

    A Zukov era sembrato un ottimo piano. Non avere il fiato sul collo degli americani avrebbe riportato la Russia al suo antico splendore, ma ora questa prospettiva si era allontanata e forse per sempre. L’unica possibilità era tornare nelle retrovie e abbandonare la Germania al suo destino. Ma prima doveva occuparsi di Radislav. Era certo che sapesse molto più di quanto sospettasse. Non poteva permettersi errori. Sospirando, il generale mandò a chiamare uno dei suoi uomini.

    «Sidorenko, Radislav potrebbe diventare un problema. Teniamolo d’occhio. Se fosse necessario accorciamo i tempi».

    «Sì, signore». Il soldato uscì dalla stanza. Doveva assolutamente trovare il suo commilitone.

    ***

    Arrivato al bunker, Sasha entrò e andò subito a cercare il Führer.

    Lo trovò solo.

    «Heil Hitler!» salutò, battendo i tacchi.

    «Ebbene Müller?»

    Sasha cercò di non distogliere lo sguardo

    «Ho fatto il mio dovere, ma come temevo il generale ha trattato la resa. Le truppe sono a cinquecento metri da noi, non è stato facile tornare. Berlino è caduta nelle mani dei nemici, l’abbiamo persa» disse con molta enfasi.

    Hitler non batté ciglio. Sgranò appena gli occhi fissando un punto indefinito nella stanza. Poi si rivolse all’ufficiale.

    «Berlino risorgerà. Ora prendi carta e penna, Muller».

    Il Führer si apprestò e dettare le sue ultime volontà all’uomo che, imperturbabile, scrisse tutto ciò che gli veniva detto. Una volta terminato, Hitler fece chiamare Eva Braun.

    «Allora Eva, pare ci sia un matrimonio da celebrare, pronta a diventare mia moglie?» le chiese serio.

    Lei guardò l’ufficiale delle SS che questa volta distolse lo sguardo. Dopodiché tornò con gli occhi sul suo compagno.

    «Con immenso piacere», rispose.

    Nel giro di pochi minuti, i due pronunciarono i voti nuziali davanti all’ufficiale che, con una breve formula, li dichiarò marito e moglie.

    «Finché morte non vi separi», concluse.

    «E anche oltre» aggiunse il Führer, immediatamente prima di baciare sua moglie.

    Dopo poco, Adolf Hitler, l’uomo che aveva tenuto in mano le sorti del paese, mandò a chiamare la sua segretaria.

    «Allora cosa ne dici? Ho una bella moglie?» chiese. Ma la segretaria cercò di non pensare al significato di quelle nozze e ricacciò le lacrime.

    «Sì, mein Führer. È la sposa più bella di tutta la Germania» rispose. Le due donne si scambiarono uno sguardo di intesa, ed entrambe tornarono a guardare l’uomo che da lì a poco avrebbe deciso il loro destino.

    «Klaus… Sai cosa devi fare, vero?» chiese un rassegnato Adolf Hitler.

    «Sì, mein Führer».

    «Bene. Confido in te. Non farti prendere».

    «Non cadrò nelle loro mani, mein Führer».

    Klaus rabbrividì per la follia che quell’uomo emanava, ma non poté esimersi dall’obbedire agli ordini e convocò tutti nella Konferenzraum. Gli alti gerarchi arrivarono, uno dopo l’altro, congratulandosi con Hitler per le nozze. La segretaria intanto andò a prendere lo champagne.

    «Alla Germania!» alzò il calice il Führer.

    «Alla Germania!» risposero tutti.

    Lo champagne al cianuro che Klaus servì ai gerarchi tedeschi e al Fuhrer stesso, fece presto il suo effetto. L’ordine che Hitler aveva dato a Klaus era quello di uccidere tutti, portare i cadaveri nel cortile antistante il bunker, bruciarli e poi suicidarsi con un colpo di pistola. Decise che l’ultima parte avrebbe potuto aspettare.

    Dopo quasi mezz’ora, assicuratosi che fossero tutti morti, Klaus frugò nelle tasche di ognuno prendendo quanti più marchi poteva. Per ultimo si soffermò sul cadavere del Fuhrer.

    Maledetto pazzo, pensò. Per lui, per quel lurido macellaio, la morte per avvelenamento era troppo gloriosa. Così prese la pistola di Hitler dalla fondina, gli sparò un colpo alla tempia e gli mise l’arma in mano. Eccolo qui il grande dittatore, che muore sparandosi in testa come un volgare vigliacco pensò guardandolo un ultima volta. A quella vista si sentì subito meglio ma attese ancora un po' di tempo prima di annunciare la fine dell’incubo. Frugò nel bunker, nei mobili, negli armadi e nei cassetti della scrivania del Führer. In questi trovò molti disegni di oggetti di incomprensibile utilizzo, ma nel complesso era un ottimo bottino. Soddisfatto, andò a prendere le due scatole nel compartimento segreto che il Führer gli aveva ordinato di aprire una volta che lui fosse morto. Aprì la prima scatola e quasi perse l’equilibrio per lo shock. Uno strano oggetto metallico, sferico, grande quanto un pallone si illuminò, avviò le eliche e sparì alla velocità di un proiettile. Che diavoleria era? Ma certo! Si trattava senza dubbio dell’arma di cui parlava il tedesco! Klaus avrebbe voluto cercare altre prove, ma

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