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L'ultimo inganno di Hitler
L'ultimo inganno di Hitler
L'ultimo inganno di Hitler
E-book611 pagine8 ore

L'ultimo inganno di Hitler

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Info su questo ebook

Il 30 aprile 1945 dei soldati dell'Armata Rossa entrarono nel bunker di Berlino, dove si era rifugiato lo stato maggiore della Germania nazista. Ma come sarebbe cambiata la storia dell’umanità se quel giorno avessero trovato Adolf Hitler vivo, pronto a essere catturato? Questa è la premessa da cui muove L'ultimo inganno di Hitler. Hitler non è morto nel bunker, è stato catturato dalle forze alleate e il compito di interrogarlo è affidato a Douglas Kelley che, come Hitler, è realmente esistito e ha davvero svolto il ruolo di consulente della CIA. Kelley fu un pioniere della psichiatria applicata ai modelli di indagine e valutazione caratteriale, un esperto di trucchi mentali, e un appassionato di illusionismo e magia.
A partire dall'incontro, immaginario, tra questi due personaggi, reali, Matteo Rampin ha scritto un romanzo avvincente, un continuo gioco di specchi che coinvolge la Russia sovietica, gli USA e il Vaticano. Un libro di fantapolitica capace di appassionare il lettore e di farlo riflettere sulla nostra storia.
LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2020
ISBN9788830511873
L'ultimo inganno di Hitler
Autore

Matteo Rampin

MATTEO RAMPIN (VENEZIA, 1966) Psichiatra e psicoterapeuta, è consulente personale di manager, atleti e artisti di livello internazionale, ma anche multinazionali ed enti pubblici, sui temi del problem solving non convenzionale. Già ufficiale dell’esercito, è studioso di stratagemmi militari e scienza dei comportamenti ingannevoli, cultore di illusionismo ed esperto di ipnosi medica. È autore di oltre venti libri sul funzionamento della mente umana. Tra questi, Di’ la cosa giusta. Aforismi per una comunicazione efficace (Ponte alle Grazie, 2007), Mozart era un fico, Bach ancora di più (con Leonora Armellini, Salani, 2014), Al gusto di cioccolato. Come smascherare i trucchi della manipolazione linguistica (TEA, 2015).

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    Anteprima del libro

    L'ultimo inganno di Hitler - Matteo Rampin

    Copertina: Matteo Rampin - L'ultimo inganno di Hitler - HarperCollins ItaliaFrontespizio: Matteo Rampin - L'ultimo inganno di Hitler - HarperCollins Italia

    © 2020 Matteo Rampin

    Pubblicato in accordo con

    Grandi & Associati, Milano.

    Questa è un’opera di fantasia. Personaggi, luoghi e avvenimenti,

    se reali, sono rielaborati ai fini della narrazione.

    © 2020 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-3051-187-3

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.

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    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio […], la cui venuta avverrà nella potenza di Satana, con ogni genere di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di malvagio inganno.

    Seconda lettera dell’apostolo Paolo ai Tessalonicesi

    PRIMA PARTE

    1

    Berlino, lunedì 30 aprile 1945, ore 15.00.

    La radiotrasmittente del soldato scelto Ivan Čurakov smise di funzionare di colpo.

    Čurakov era un bielorusso biondo e muscoloso di ventitré anni, quattro dei quali passati al fronte. Guardò l’orologio da polso che era stato di suo padre: segnava le tre in punto. Brutta faccenda, le tre: le vecchie delle campagne avrebbero detto che era l’ora della morte di Cristo. Un presagio infausto. Si guardò attorno cercando qualcosa che lo rassicurasse, ma c’erano solo rovine. Cercò di imporsi di essere razionale: Non impressionarti, pensò, è solo una coincidenza.

    Gli otto uomini che erano con lui, inquadrati nel Settantanovesimo Fucilieri, un’unità dello Smerš, il controspionaggio militare sovietico, erano riparati dietro i cumuli di macerie che ingombravano la Wilhelmstraße. La squadra era penetrata in profondità nella capitale tedesca più di ogni altro reparto sovietico, e in quel momento era l’avamposto delle truppe che da qualche ora stavano combattendo strada per strada nel cuore di Berlino.

    Fëdor, l’infermiere, arrivò di corsa e si acquattò al suo fianco. Ivan gli mostrò la radio. «È andata.»

    L’altro scrollò le spalle con aria indifferente. Ivan pensava che l’infermiere avesse sempre l’aria indifferente. Gli spiegò meglio il suo pensiero: «Siamo tagliati fuori». L’altro annuì senza scomporsi. Ivan avrebbe voluto essere altrettanto serafico, ma c’era poco da stare tranquilli: da quel momento in poi non avrebbero più potuto ricevere ordini dal comandante del reparto, il tenente colonnello Klimenko, e quindi toccava a loro prendere l’iniziativa. Più propriamente, dato che Ivan era il più anziano, spettava a lui decidere sul da farsi. Brutta faccenda, si disse. I comandanti erano ossessionati dalla conquista della roccaforte nazista, e nei giorni precedenti avevano continuato a insistere su due obiettivi: arrivare prima che gli unni distruggessero tutte le prove della loro barbarie e prendere vivi quanti più alti papaveri possibile.

    Fece il punto della situazione. Nell’ultima ora avevano percorso mezzo chilometro lungo l’Unter den Linden in direzione della Porta di Brandeburgo; poco prima dell’hotel Adlon avevano svoltato a sinistra, verso quel che restava della cancelleria del Reich. Era escluso che lì dentro vi fosse ancora qualche pezzo grosso del regime: Hitler, stando a informazioni giunte la notte precedente, era riuscito a fuggire dalla capitale a bordo di un biplano, ma le stesse fonti assicuravano che Goebbels, ministro della Propaganda e commissario per la Guerra Totale, ora a capo della difesa suprema di Berlino, era ancora seduto al suo posto in uno dei bunker sotterranei che secondo le informazioni in loro possesso si trovavano sotto la cancelleria. Mettere le mani su Goebbels sarebbe stato un bel colpo; forse ci sarebbe scappata la promozione a sergente.

    Un’ondata di angoscia lo colse alla sprovvista. Avrebbe dato dieci anni di vita per poter ritornare da sua madre con i galloni sulla divisa. Anche il suo fratellino, Miša, ne sarebbe stato fiero: lei avrebbe ringraziato il Cielo, il piccolo sarebbe uscito indossando la sua divisa e si sarebbe pavoneggiato con i ragazzini dei dintorni, e di sera avrebbero fatto una festa attorno al camino, nella grande stanza al piano terra. Ma erano morti entrambi, sotto i bombardamenti.

    Si maledisse per non essere riuscito a evitare quel pensiero: negli ultimi mesi, ogni volta che si era trovato sotto pressione, gli erano affiorati alla mente i loro volti, le loro voci. Un groppo di lacrime salì agli occhi. Non adesso, non adesso. Si sforzò di pensare ad altro. Estrasse dal colletto la medaglia di San Nicola. Con l’arrivo della guerra, Stalin aveva revocato l’ateismo di Stato, così sua madre aveva potuto farla benedire da un anziano pope, e la sera in cui lui era partito gliela aveva agganciata alla collanina. Ivan baciò l’immagine sacra, poi si volse verso i commilitoni e li incitò: «Avanti, compagni! Prendiamo la cancelleria!».

    I soldati si mossero simultaneamente. Era una squadra eccezionale, compatta ed efficiente, composta da veterani affiatati. Negli ultimi diciotto mesi nessuno di loro era morto in battaglia, e questo, giurò Ivan, non sarebbe successo mentre lui era al comando, tanto più che ora si trattava solo di avanzare in una città difesa da disperati, vecchi e ragazzini.

    Lo scenario che avevano trovato entrando a Berlino era stato orrendo. Quartiere dopo quartiere, non c’era un solo edificio intero. Tra i roghi che mulinavano in mezzo ai cumuli di rovine si intravedevano centinaia di cadaveri. Orde di ratti si contendevano brandelli di carne umana. Dai piloni della luce pendevano decine di uomini e donne impiccati, con cartelli cuciti sul petto che dicevano a caratteri gotici: NON HO COLLABORATO ALLA DIFESA SUPREMA DELLA CITTÀ. I sopravvissuti, con occhi sbarrati e smorfie grottesche, si trascinavano come in un incubo, incuranti dei pericoli. A un tratto l’infermiere gli aveva indicato, con l’aria più naturale del mondo, una leonessa scheletrica che spiccava il balzo dalla sommità di un palazzo in rovina. Doveva essere fuggita dallo zoo. Alcuni della squadra avevano puntato i fucili contro la belva, che però era sgattaiolata tra le macerie. Se la caverà meglio di noi, aveva pensato Ivan.

    Al suo ordine i soldati si lanciarono di corsa curvi e determinati. Immediatamente l’aria fu frustata da un ringhio lacerante. Erano sventagliate di mitragliatrice. Gli uomini si sparpagliarono in cerca di copertura, mentre un vortice furioso di proiettili rimbalzava sibilando e sollevando sbuffi di terra e frammenti di cemento.

    Čurakov si accucciò dietro un camion rovesciato. Si guardò attorno: nessun ferito. La fortuna era ancora dalla loro parte. Baciò di nuovo la medaglietta. Guardò attraverso i vetri della cabina del camion. Localizzò l’origine dei colpi: a settanta metri, sulla sommità di una improvvisata barricata di detriti, c’era un nido di tre MG 42, le terribili mitragliatrici tedesche capaci di erigere barriere di fuoco contro gli assalitori. La postazione di fuoco, però, era stata assemblata da principianti: vulnerabile, esposta sui quattro lati. Mentre Ivan organizzava le idee, le raffiche cessarono e tre teste sbucarono goffamente da dietro la barricata. Ivan lanciò un fischio agli uomini sull’altro lato della strada. Quelli si sporsero, puntarono i fucili e fecero fuoco. I tre tedeschi furono raggiunti dalle scariche e furono proiettati indietro con violenza. Dopo qualche secondo Čurakov ordinò di uscire allo scoperto. Raggiunsero di corsa la barricata.

    I tre uomini, con la divisa della Wehrmacht, giacevano a terra. Čurakov li voltò uno dopo l’altro con la punta dello stivale. Erano ragazzini: potevano avere al massimo dodici anni. Fu investito con violenza dall’immagine del volto di suo fratello. Due di loro erano già morti; il terzo rantolava con lo sguardo perso nella nebbia, balbettando mamma. L’immagine del volto di Miša restava sospesa tra lui e il ferito, adesiva come una ventosa: Ivan lo vedeva di fronte a sé, con il ciuffo biondo, gli incisivi spezzati per aver fatto a botte con un ragazzo più grande di lui, e ne udiva la voce… Miša stava piangendo… stava male? Aveva bisogno di lui? Si sentì sopraffare dalla nausea: Sto per cedere, si disse; strinse forte gli occhi; non udì il fischio della granata che stava precipitando: la bomba esplose a una decina di metri; lui, i suoi uomini e i tre della Wehrmacht furono buttati a terra dall’onda d’urto. Un tedesco gli cadde addosso, disarticolato come un fagotto di vestiti. Un fiotto di sangue caldo e appiccicoso gli inondò il viso. Ivan serrò le labbra. Spinse via il corpo, e si rialzò. Lo guardò. Anche il terzo ragazzino, adesso, era morto. Un’altra bomba precipitò a una decina di metri squassando il terreno. Ancora un’altra. E un’altra. Turbini di terra e polvere di cemento. Come gli accadeva ogni volta sotto i bombardamenti, smise di udire: era come se le orecchie cessassero di funzionare. Si guardò attorno, nel silenzio immobile che il sistema nervoso gli garantiva in quei momenti. Ancora una volta, nessuno della squadra era stato colpito. Un altro pensiero lo distolse: quelli che li stavano minacciando erano obici sovietici. Siamo senza radio, pensò. Siamo isolati. Ci stanno massacrando: moriremo per mano dei nostri. Urlò con rabbia: «Leviamoci di torno!».

    Gli uomini, addestrati a resistere all’istinto di raggrupparsi, si lanciarono nell’intrico di strade disperdendosi tra cortili, palazzi sventrati e crateri.

    Il bombardamento si diradò, e in pochi secondi cessò del tutto. Ivan riprese a udire. Fu raggiunto dall’infermiere. «Sei ferito» constatò quello. Ivan si accorse di avere il volto coperto dal sangue del tedesco.

    «Non è mio» lo rassicurò pulendosi il viso con la manica. Fëdor annuì, con un sorriso di sollievo. Era la prima volta che Ivan lo vedeva mutare espressione.

    «Compagni» incitò, indicando la cancelleria, a circa centoventi metri. «Lì dentro c’è Goebbels! Andiamo a prendere quel porco!»

    Oltrepassarono un paio di strade senza incontrare resistenza. Aggirarono un palazzo completamente distrutto e si ritrovarono in quello che doveva essere stato un giardino: uno spiazzo di terra smossa, ingombro di macerie e sconvolto da due grossi crateri fumanti, in fondo al quale c’erano una garitta e una casamatta in cemento. In un angolo del giardino, sotto una tettoia, erano accatastati alcuni grandi fusti di benzina. Poco più in là, in una fossa, giaceva la carcassa di un pastore tedesco; vicino, il corpo di un cucciolo della stessa razza. Čurakov ricordava di aver visto quel luogo in fotografia… ma che cos’era? Poi capì; sì, ecco dov’erano: senza rendersene conto erano arrivati a una delle probabili uscite del bunker della cancelleria. Se qualche gerarca importante si trovava ancora lì, il bunker doveva essere difeso molto bene. Prenderlo non sarebbe stato facile. Serviva un piano. Raccolse le idee. In quel momento la porta del bunker si spalancò, e tre SS comparvero sulla soglia. I tedeschi, colti di sorpresa, esitarono; gli uomini di Čurakov fecero fuoco per primi centrandoli con una scarica di mitragliatore PPŠ. Apparvero altri due tedeschi, che spararono contro di loro cercando di chiudere la porta. Furono colpiti e scaraventati nel buio al di là della soglia.

    Čurakov ordinò: «Niente granate!».

    Lanciò un paio di sventagliate di mitra dentro l’androne, attese due secondi, poi entrò scavalcando i cadaveri, seguito dai suoi. Un tedesco rannicchiato in un angolo emetteva un suono gorgogliante premendosi le viscere fuoriuscite dall’addome. L’infermiere lo finì con due colpi di pistola.

    Una rampa di scale di cemento scendeva in una sorta di pozzo scuro, illuminato debolmente da lampade appese al soffitto. Čurakov stimò che la rampa contasse una quarantina di gradini. Iniziò a scendere stringendo l’arma, il dito sul grilletto.

    Sentiva in bocca il sapore metallico dell’adrenalina; il cuore pompava prepotente, ma si muoveva in modo fluido. I suoi uomini lo seguivano rapidi e silenziosi.

    Dal bunker provenivano rumori strani. Ivan impiegò qualche secondo a capire che ciò che udiva era un baccano stonato di canti e risate.

    Contò trentasette gradini fino alla fine della scala. Faceva molto freddo. Il soffitto di cemento armato del bunker doveva essere spesso almeno otto metri. Davanti a sé, un corridoio largo tre metri e profondo sette, deserto. Su entrambi i lati si trovavano due porte socchiuse. L’aria era umida e malsana. Il ronzio dei ventilatori di aerazione faceva da sottofondo a suoni disparati: rumori di apparecchiature elettriche e meccaniche, voci maschili che si scambiavano ordini febbrili o sghignazzavano assieme a voci femminili sullo sfondo di una musica popolare emessa da un grammofono. Čurakov avvertì zaffate di calce, muffa e alcol, mescolate ad acqua di colonia, naftalina e lucido per scarponi. Dalla prima porta a sinistra spuntarono un tenente colonnello della Wehrmacht con la giacca sbottonata e la camicia aperta sul petto, e dietro di lui una ragazza nuda dalla cintola in su, i grossi seni ballonzolanti. Erano ubriachi. Fissarono i soldati sovietici sbattendo le palpebre, il sorriso inebetito che si spegneva rapidamente. Uno degli uomini di Čurakov raggiunse l’ufficiale e lo spedì a terra colpendolo con il calcio del fucile; un altro strinse per la vita la donna, che iniziò a urlare, e le sbatté il viso contro il muro mandandole i denti in frantumi. Čurakov entrò nella stanza. C’erano quattro uomini disarmati e sei donne, ubriachi e mezzi nudi. Vestiti e biancheria erano sparsi per terra alla rinfusa. Sul tavolo, vassoi e piatti con i resti di un festino, bottiglie di champagne e liquori, dischi, bobine di film occidentali, tra i quali uno su Sherlock Holmes. Un uomo con indosso parte dell’uniforme e una ragazza completamente nuda si stavano accoppiando sul pavimento; continuarono meccanicamente, indifferenti a tutto, finché un sovietico staccò l’uomo dalla donna e gli sferrò un pugno sul viso. Čurakov ordinò a due dei suoi di tenere sotto controllo la stanza, e uscì. Percorse a balzi il corridoio spalancando una porta alla volta. Alcune stanze davano su altri locali: la cucina, un ripostiglio, alcuni alloggi, gabinetti.

    In fondo al corridoio c’era una seconda rampa di scale, più corta. La imboccarono correndo. Finiva con una porta, difesa da un solo sottufficiale delle SS, che aveva già alzato le mani in segno di resa. Lo disarmarono e lo immobilizzarono. La porta era chiusa. Da dietro non proveniva alcun suono. Il tedesco fu perquisito: non aveva la chiave. Chiunque occupasse quel secondo livello poteva non essersi accorto della loro incursione: loro non avevano ancora sparato un colpo, e quel piano del bunker pareva insonorizzato. Bisognava agire in fretta. Ordinò al tedesco di farsi aprire la porta. Quello lo guardò stupito di sentirsi rivolgere un ordine nella sua lingua. «In Bielorussia c’è una minoranza tedesca» lo informò Ivan, «e mia madre ne faceva parte. È morta per mano vostra.» Quello sbiancò. Ivan lo aiutò ad alzarsi e gli posò la punta della baionetta sotto l’angolo della mandibola. Il tedesco sollevò un piccolo sportello nel muro e premette un pulsante secondo un ritmo prestabilito. Dopo pochi secondi la porta si aprì. Apparve un maggiore delle SS, la pistola in pugno. I sovietici puntarono le armi. Quello indietreggiò e urlò qualcosa in tedesco, troppo velocemente perché Čurakov potesse capire. Un pugno lo mandò a terra.

    Ancora un corridoio, un po’ più largo. Una porta a sinistra, due a destra. In fondo, due ufficiali dell’esercito e due SS erano seduti apparentemente a difesa di una porta chiusa. Alzarono le mani. Tenendoli sotto tiro, Čurakov e i suoi ripeterono l’ispezione dei locali eseguita al piano di sopra. Gabinetti, un generatore di energia elettrica, un motore diesel, un centralino telefonico.

    I tedeschi furono velocemente disarmati; nessuno tentò una reazione. Che cosa ci facevano degli ufficiali superiori, lì sotto?

    L’unica spiegazione era che stessero presidiando la stanza da cui Goebbels continuava a diffondere la sua propaganda. La porta era chiusa. Gli ufficiali dichiararono che nessuno di loro aveva la chiave.

    I suoi uomini sapevano che cosa fare. Ivan si spostò di lato, due presero posto ai lati della porta, e il soldato Andrej Golubničij, due metri per centoventi chili, sferrò un calcio in corrispondenza della serratura. Niente. Ancora un calcio. La porta cedette con uno schianto secco. I due uomini si fecero avanti, armi in pugno, le braccia tese, e subito dopo entrò Ivan Čurakov. Un vestibolo, una porta a destra, due a sinistra. Ivan provò la prima porta a sinistra: era chiusa. Qui dentro c’è Goebbels, pensò. Golubničij ripeté la procedura: la porta venne giù al primo colpo. C’era un’anticamera, con un’altra porta. Anche questa schiantò sotto il calcio del soldato. Ivan entrò, puntando la pistola.

    In una frazione di secondo Ivan registrò le informazioni che i sensi gli fornivano con il nitore e la precisione potenziati che gli erano abituali quando entrava in azione il suo pilota automatico: sempre, sotto il fuoco nemico, quando fioccavano le bombe, quando la morte si mostrava pronta a mordere con il suo ghigno, si sentiva più vivo, forte e veloce.

    La stanza era priva di vie di fuga; non vi erano esplosivi, bombole o cavi elettrici scoperti; l’arredamento era spoglio, e la luce debole; l’aria era impregnata dell’aroma di mandorle bruciacchiate.

    Vi erano tre persone, di cui una morta: l’uomo più vicino a lui, un ufficiale, era in piedi, ma in posizione malferma, armato di rivoltella, una Walther PPK 7.65; seduto su un divano, con una busta sulle ginocchia, c’era un civile disarmato, dall’aspetto malridotto; una giovane donna bionda in abito nero scollato, senza vita, era semisdraiata al suo fianco in una posizione innaturale, il capo rovesciato all’indietro, la bocca socchiusa e gli occhi fissi al soffitto. L’irruzione aveva sorpreso l’ufficiale in piedi nell’atto di sollevare la pistola; in quel preciso istante la corsa del braccio stava finendo, con la bocca da fuoco dell’arma a pochi centimetri dalla tempia del civile seduto sul divano. L’uomo sul divano era pallido, aveva il lato sinistro del corpo sconvolto da un tremore a scosse ampie, e senza alcuna possibilità di errore – sì, senza alcun dubbio – quell’uomo non era il ministro della Propaganda, non era Goebbels. Era un’altra persona, e quella persona era Adolf Hitler.

    L’ufficiale con la pistola alla tempia di Hitler appoggiò l’indice sul grilletto. Il pilota automatico di Ivan prese il sopravvento: la sua arma era già puntata contro l’uomo in piedi, e prima che questi potesse premere il grilletto, fece fuoco. La testa dell’ufficiale esplose, investendo Hitler di sangue, capelli, frammenti ossei e materia cerebrale; l’uomo fu scagliato contro il muro come una marionetta disarticolata. Fu solo in quel momento che Ivan riconobbe in lui il ministro Goebbels.

    Ivan si rese conto che non aveva udito la detonazione. Conosceva anche questo fenomeno: come sotto le bombe, anche durante le azioni diventava completamente sordo per qualche minuto, per poi riacquistare l’udito ad azione conclusa.

    Guardò l’orologio: erano le 15.33. Si stupì di non riuscire a ricordare che giorno fosse. Poi gli venne in mente: il 30 aprile. Una data storica, si disse. Rifletté sul fatto che in quel momento avrebbe dovuto provare un’emozione proporzionata all’evento cui stava prendendo parte: ma non era così. Non c’era euforia, né soddisfazione, né gioia per il trionfo; sentiva solo una profonda stanchezza.

    Avanzò verso Hitler.

    L’uomo che aveva scatenato una nuova guerra mondiale, il traditore che aveva pugnalato alle spalle la madre Russia violando gli accordi, il dittatore che aveva sconvolto la vita di centinaia di milioni di persone, per colpa del quale erano andate perdute decine di milioni di vite umane e Miša e sua mamma erano scomparsi per sempre, adesso era lì, a due metri da lui, accasciato, malato, tremante, coperto di sangue e grumi di materia organica, accanto al cadavere di una donna.

    Ivan Čurakov aveva ricevuto ordini precisi.

    Era un soldato, e perciò ora li avrebbe eseguiti, anche se avrebbe preferito comportarsi diversamente. Esitò. Senza radio non poteva chiedere conferma degli ordini. Ma del resto, non c’era bisogno di alcuna conferma.

    Giunse a un passo dal dittatore, e si fermò; sollevò la pistola, e gliela puntò al centro della fronte, due centimetri sotto la linea obliqua del famoso ciuffo.

    Hitler, inclinato su un fianco, rannicchiato, quasi rimpicciolito, guardava dritto davanti a sé, lo sguardo spento, come se non vedesse, con un’espressione che Čurakov non sarebbe mai riuscito a descrivere, e che non avrebbe più scordato.

    Mansfield, Inghilterra, ore 21.30.

    Il maggiore Douglas Kelley, del corpo sanitario dell’esercito degli Stati Uniti, prestava servizio presso l’ospedale militare generale n. 30 come psichiatra.

    Era un uomo di trentadue anni, moro, dall’aspetto vigoroso e dai lineamenti marcati, che non avrebbero sfigurato sugli schermi del cinema. Teneva i capelli più lunghi di quanto fosse consentito dalla disciplina militare, perfino da quella americana, e per questo era regolarmente ripreso dagli ufficiali d’arma. I suoi superiori, tuttavia, tolleravano un tale vezzo, perché lo conoscevano come una persona precisa, seria e responsabile, oltre che un clinico acuto e sagace: il migliore, sembravano suggerire i documenti firmati dal comandante dei servizi sanitari, che lo aveva proposto come capo del servizio psichiatrico dell’ospedale n. 30.

    Una cinquantina di persone stavano tenendo gli occhi fissi su di lui, che era in piedi su una pedana rialzata nella sala mensa. La platea era costituita da medici, infermieri e soldati di truppa. Uno di questi era stato invitato a salire sulla pedana a fianco dello psichiatra, che lo stava ringraziando. «Ottimo, Roy. Ora darò a tutti voi una dimostrazione pratica. L’esperimento non è pericoloso: finora è andato male solo una volta…»

    Il soldato impallidì, mentre un mormorio divertito si diffondeva nell’uditorio. Il medico riprese: «… e questa è la seconda volta che lo provo».

    I presenti proruppero in una risata liberatoria. Kelley sollevò un drappo rivelando un oggetto dall’aspetto inquietante. Il soldato arretrò. Si trattava di una gogna, nella quale vi erano solo due fori, collocati uno sopra l’altro su una linea verticale. Il foro superiore aveva un diametro di circa otto centimetri, quello inferiore misurava la metà. Kelley prese di tasca due carote e le inserì una per foro. Mostrò un telaio rettangolare costituito da tre assi di legno, con una lama; inserì il telaio in cima alla gogna, con la lama verso il basso. «Signore e signori, come avete capito si tratta di una piccola ghigliottina» disse, calando con forza il telaio. La lama tranciò di netto le due carote, e i pezzi rotolarono sul pavimento.

    Estrasse il telaio e rivolse un sorriso al malcapitato collaboratore. «Con quale mano scrivi, Roy?»

    «Con la destra, doc.»

    «Molto bene. Inserisci la sinistra, prego, nel foro più ampio.»

    «Devo proprio?»

    «Se preferisci possiamo usare il foro più piccolo, nel quale tuttavia, come puoi vedere, la mano non entra…»

    Il pubblico accolse la battuta con un fragoroso applauso. Il giovane, riluttante, inserì la mano nel foro facendola sbucare dal lato esposto al pubblico.

    Kelley inserì una carota nel foro più piccolo. Poi si chinò dietro il tavolo, e riapparve reggendo un cestino per rifiuti, che collocò sotto la ghigliottina, provocando una risata generale. Quando il vociare diminuì, Kelley diede uno sguardo dentro al cestino, assunse un’espressione imbarazzata e ne estrasse una mano mozza, che scagliò lontano. «Scusatemi, era qui dall’ultima volta.»

    La cavia, a differenza degli astanti, non pareva apprezzare quel genere di battute, e stava iniziando a sudare.

    «Coraggio, figliolo» lo incoraggiò Kelley, «poniamo fine a questo supplizio.»

    Prese il telaio, lo collocò di nuovo sulla sommità della gogna e attese che in sala calasse il silenzio. Il soldato era decisamente nervoso. Gli astanti trattenevano il fiato. Il medico poggiò la mano sulla ghigliottina. Inspirò, trattenne il fiato, lasciò passare ancora una manciata di secondi, e infine calò con forza la lama. Questa oltrepassò il polso del soldato lasciandolo indenne e si abbatté sulla carota tranciandola in due monconi.

    Il pubblico proruppe in un fragoroso applauso. Il soldato sospirò, e sussurrò qualcosa sorridendo. Il dottore lo liberò dalla gogna e lo invitò a tornare al posto. Quando l’uomo si era già allontanato, lo richiamò. «Scusa…»

    Il soldato, temendo di aver cantato vittoria troppo presto, esitò. «Credo che questo sia tuo» gli disse Kelley. Reggeva in mano un orologio da polso. Il soldato spalancò gli occhi, si guardò il braccio e si accorse di non avere più l’orologio. Il pubblico sottolineò la sua sorpresa con un altro interminabile applauso.

    «Grazie a tutti» disse Kelley inchinandosi. «Lunedì prossimo, per la consueta serata magica, vi proporrò l’esperimento della penetrazione. Avrò bisogno di un altro volontario, e qualcosa mi dice che sarà più difficile reperirlo.»

    Il cappellano scosse la testa soffocando una risata, e tutti gli altri dimostrarono apprezzamento con fischi e grida.

    Douglas Kelley era partito per l’Europa quattro anni prima, lasciando la giovane moglie Alice, detta Dukie, sei mesi dopo le nozze. Lei, una ragazza di buona famiglia di Chattanooga, il giorno della partenza gli aveva consegnato un finto dispaccio militare in cui l’esercito imponeva all’ufficiale medico di pensare sempre alla sua sposa, e di ritornare presto tra le sue braccia.

    Prima di finire sotto le armi, Kelley si era fatto un buon nome nella cerchia degli psichiatri americani grazie ad alcuni interessi scientifici non comuni. Si era specializzato nell’interpretazione del test delle macchie di Rorschach, e lo aveva fatto adottare alle forze armate come metodo di screening di massa per i coscritti e le reclute. Aveva condotto numerose ricerche sulla narcoipnosi nella cura dei disturbi nervosi da trauma in battaglia, un metodo che si proponeva di modificare gli schemi del comportamento inducendo una specie di sonno artificiale con barbiturici. Aveva lavorato a lungo nelle carceri, il che lo rendeva uno dei pochissimi medici in grado di muoversi comodamente sul crinale tra due discipline diverse ma in parte affini, la psichiatria e la criminologia. Inoltre era un appassionato cultore di illusionismo e giochi di prestigio, attività che aveva saputo applicare con successo alla rieducazione di pazienti con disturbi mentali e al reinserimento sociale dei detenuti.

    La guerra gli era sembrata un’opportunità per approfondire le sue esperienze mediche e un’occasione per affermarsi ancora di più nella comunità scientifica. In battaglia la natura umana dava il meglio e il peggio di sé; inoltre, nessuno come un medico militare poteva contare su casistiche così ampie di pazienti e di situazioni critiche da esaminare. Aveva ereditato dal ramo materno l’impulso a crescere professionalmente: i nonni erano diventati famosi nell’intera California per le loro numerose iniziative sociali, politiche e culturali oltre che per la costruzione di una bizzarra villa con annessa torre, nella quale erano custoditi i reperti di stravaganti collezioni. Suo nonno, Douglas ne era convinto, era stato un genio. Peccato non averlo potuto sottoporre al test di Rorschach: chissà che cosa avrebbe visto in quelle dieci macchie.

    Dopo lo spettacolino Kelley fu raggiunto da un aiutante di sanità, che lo informò che il direttore dell’ospedale intendeva parlargli subito. Si recò nel suo ufficio.

    «Com’è andata oggi, dottor Douglas?» chiese il direttore, un sessantenne con pesanti borse sotto gli occhi e l’aria di aver visto tutto.

    «I ragazzi iniziano a rispondere alla terapia» rispose Kelley riferendosi alla quinta sessione di terapia di gruppo che aveva svolto con una dozzina di reduci dalla battaglia di Normandia, già trattati senza esito da altri psichiatri. Erano sbarcati a Omaha Beach, la spiaggia con il maggior numero di perdite americane, con la prima ondata, che aveva toccato terra all’alba di quel 6 giugno: molti dei loro commilitoni erano stati colpiti dal fuoco infernale dei tedeschi o erano annegati sotto il peso dell’equipaggiamento quando i mezzi da sbarco avevano aperto i portelloni troppo presto, ancora lontani dalla riva. Con le sue cure, i reduci colpiti da trauma da combattimento avevano iniziato a mostrare piccoli ma incoraggianti segni di ripresa.

    Douglas notò che il direttore dell’ospedale era imbarazzato.

    «Mi dispiace dirle, dottor Kelley, che lei non potrà continuare a seguire questi reduci.»

    «Non potrò?»

    «Ho qui un dispaccio da Washington che la riguarda. La caduta di Berlino è ormai questione di una manciata di ore. I sovietici controllano il centro della città, il Reichstag e gli altri palazzi del governo; la cancelleria è ancora difesa da reparti di SS, ma i crucchi non hanno speranze di farcela. Non si hanno notizie di Hitler. Entro una settimana anche le nostre truppe arriveranno in città.»

    Douglas ascoltava in silenzio.

    «Tra breve si porrà la questione di interrogare i gerarchi nazisti. Serviranno persone capaci di parlare tedesco. Gli psichiatri con questa caratteristica in servizio attualmente nelle nostre forze armate sono molto rari; lei è uno di questi. Inoltre, molti suoi colleghi, in patria e altrove, si sono offerti di dare il loro contributo scientifico, mentre lei è l’unico dei nostri psichiatri a non averlo fatto: per questo, riteniamo che sia l’uomo adatto.»

    «La ringrazio per la fiducia. In realtà non ho una grande esperienza di interrogatori di gerarchi nazisti…»

    «Lei non dovrà interrogare queste persone nel senso tecnico del termine: dovrà solo fare da consulente agli ufficiali dell’intelligence, che procederanno agli interrogatori veri e propri. Presumo che dovrà stabilire se i nazisti sono mentalmente sani, curarli se non lo sono, capire se simulano malattie mentali, se sono attendibili o se mentono, cose di questo tipo. Avere uno psichiatra al fianco sarà una garanzia per l’intelligence, soprattutto perché non saremo i soli a gestire questa fase, ma ci saranno anche gli inglesi, i francesi e i russi, con le relative complicazioni che ciò comporta. È vero che lei non ha mai interrogato prigionieri di guerra, ma ha esperienza di militari e detenuti, e i nazisti, in fin dei conti, sono militari detenuti.»

    Kelley aggrottò la fronte, perplesso. L’equazione del direttore non era un capolavoro di logica, ma se i comandi avevano ritenuto che lui fosse lo specialista più adatto per l’incarico, avrebbe obbedito: perché era un militare, e perché pensava di poter fornire un contributo senza dubbio migliore di tutti gli psichiatri che conosceva.

    «Inoltre, mi dicono che le sue ricerche sulla narcoipnosi hanno attirato l’interesse della nostra intelligence.»

    Kelley annuì. Ora la cosa diventava più chiara. Provò un moto di soddisfazione: finalmente era giunto il momento di raccogliere i frutti dopo aver dedicato molti sforzi alla narcoipnosi, una tecnica che molti gli avevano sconsigliato perché rischiosa e, a parer loro, poco scientifica. Lui si era sempre appassionato a quello che la gente gli sconsigliava di fare, ed era diventato un’autentica autorità nel campo. Con questa tecnica induceva nei pazienti uno stato alterato di coscienza servendosi di barbiturici e cocktail di farmaci, e mentre la loro consapevolezza era allentata induceva fenomeni di suggestione ipnotica con cui i pazienti venivano spinti a sperimentare sensazioni o comportamenti altrimenti impossibili: una forma di cura delle nevrosi che stava dando risultati promettenti, ma che richiedeva un miscuglio di prudenza e audacia che era piuttosto raro tra i suoi colleghi.

    «Entro qualche giorno» stava dicendo il direttore, «lei partirà per il continente. La destinazione sarà quasi certamente Mondorf-les-Bains, nel Lussemburgo, dove stiamo concentrando i prigionieri nazisti di rango elevato.»

    «Scriverò a mia moglie di non preparare per cena.»

    Il direttore sorrise. «Anche se molti pensano che gli psichiatri siano un po’ strambi, personalmente mi rendo ben conto che anche lei non veda l’ora di ritornare a casa. Ma mi creda, caro Kelley, dopo questo incarico la sua signora sarà fiera di lei.»

    «Spero che lo sia già» commentò Douglas, pensando che Dukie lo era di certo, ma che il direttore poteva aver ragione: lo sarebbe stata ancora di più, se lui avesse svolto qualche studio originale su persone come quelle che stava per incontrare, e i cui nomi sarebbero presto entrati nei libri di storia. Accanto al loro nome, un domani poteva esserci anche il suo.

    Amburgo, ore 21.45.

    Una secchiata di acqua gelida in faccia strappò l’uomo dall’incoscienza. Questa volta il dolore ai polsi gli impedì di perdere di nuovo i sensi. Con fatica mise a fuoco dove si trovava. Riconobbe il pavimento scheggiato su cui giaceva: il cucinino della sua abitazione. Mani e piedi erano legati stretti. Qualcuno gli premeva il viso a terra. Una voce maschile lo minacciava: «Pensavi davvero di fottere lo Spagnolo e passarla liscia?».

    «No… io…»

    «Zitto. Usa bene gli ultimi minuti della tua vita. Voglio un resoconto completo.»

    L’uomo iniziò a tremare. «Ho incontrato lo Spagnolo… cinque giorni fa. Sapeva che lavoravo al ministero… mi ha chiesto di metterlo in contatto con Martin Bormann. Mi ha detto che voleva aiutarlo a scappare dalla Germania. Gli ho mentito dicendo che avrei organizzato un incontro con il segretario personale di Hitler in cambio di diecimila sterline, metà subito e metà alla consegna. In realtà non avevo idea di dove fosse Bormann, e contavo di scappare con la prima parte della ricompensa.»

    «Scappare come?»

    «Una sostituzione, con un tizio che mi somiglia. Lo scambio doveva avvenire appena svoltato l’angolo di una strada, per seminare i pedinatori. Mi sono calato dentro un tombino, e il tizio ha preso il mio posto allontanandosi con una borsa uguale alla mia. Ma… non ha funzionato.»

    «Dove sono le sterline che hai rubato allo Spagnolo?»

    «Nel cesso, sotto le piastrelle blu vicino al lavabo. Prendile, sono più di quanto potrà darti lui. Ma risparmiami, ti supplico… ho tre figli piccoli.»

    «Le sterline sono false. E anche tu sei falso.»

    «False?! Oh, mio Dio… Quindi…» gemette. «No! Aspetta! Quanto ti paga lo Spagnolo per farmi fuori? Ti darò il doppio!»

    Sentì la presa allentarsi, si girò e vide il volto dell’uomo che lo aveva steso: era lo Spagnolo. Nella mano destra stringeva un rasoio.

    «Non uccidermi!» esclamò. «Ti prego!»

    «Pregare? Sì, questa potrebbe essere una buona idea.»

    L’uomo legato chiuse gli occhi. Pensò a sua madre, alla moglie, e ai figli.

    Passarono i secondi.

    Gli giunse improvviso un tonfo violento: quello della porta di casa.

    Silenzio.

    L’uomo non avvertiva più la presenza dello Spagnolo. Titubante, aprì un occhio: sì, era solo. Se n’era andato?

    Tese l’orecchio per sentire i passi sulle scale scricchiolanti. Niente. Sentì affacciarsi la speranza. Poi giunse un altro tonfo, più forte e inconfondibile: il rumore del portone al piano terra che si chiudeva. E poi, di nuovo, silenzio.

    Lo Spagnolo aveva sceso le scale come un fantasma senza peso.

    L’uomo pianse: di sollievo, per l’umiliazione, per lo sconcerto di essere stato graziato.

    2

    Mosca, martedì 1° maggio, ore 3.35.

    Da giovane il generale Nikolai Slavin, con i suoi due metri di altezza e la corporatura erculea, era stato un eminente atleta, ma ora stava diventando semplicemente un gigante in sovrappeso. Nei loro rapporti, i rappresentanti delle potenze angloamericane avevano definito il suo aspetto formidabile, e da allora, sebbene fosse passato poco più di un anno, la sua stazza era perfino aumentata, perché Slavin, in modo non molto marziale, sfogava la tensione a tavola. Nonostante la mole, il generale salì quasi di corsa le scale che portavano all’ufficio del maresciallo Stalin al Cremlino. In quanto responsabile di Maskirovka, le operazioni di inganno dell’Armata Rossa, era stato lui a ricevere qualche minuto prima una valigetta metallica arrivata da Berlino con un volo apposito; al suo interno vi era un plico, che era stato aperto solo dopo che gli artificieri lo avevano passato ai raggi X. Poi i documenti erano stati esaminati al microscopio da una squadra di chimici e biologi a caccia di veleni, polveri, spore e sostanze invisibili. L’intera procedura non aveva richiesto più di mezz’ora.

    In cima alle scale il generale fu perquisito da due sentinelle, mentre una terza ispezionava il contenuto della valigetta e verificava i timbri posti dagli ispettori del servizio microbiologico. Completati i controlli, i tre si misero sull’attenti, e il generale si incamminò in un lungo corridoio presidiato da una fila di soldati armati, ritti in piedi a distanza di cinque metri uno dall’altro: caucasici della guardia personale di Stalin, istruiti a fissare con occhi minacciosi chiunque passasse in quel corridoio. In un’anticamera priva di finestre, con le pareti foderate di radica e il pavimento coperto da una folta moquette, un colonnello della guardia privata del dittatore lo salutò militarmente e gli chiese la valigetta, assicurando: «La consegnerò io al compagno Stalin».

    Slavin replicò con tono sbrigativo: «Devo lasciare questi documenti direttamente nelle mani del Piccolo Padre».

    «Ho l’ordine da parte del compagno maresciallo di recapitargli personalmente ogni plico.»

    «In tal caso sorge un problema, compagno: ho anch’io un preciso ordine da parte sua. Vi prego di non farmi perdere tempo.»

    Una voce tagliente che proveniva da dietro stabilì: «Il compagno colonnello non vi farà perdere neanche un minuto».

    Il colonnello della guardia caucasica si irrigidì sull’attenti con la prontezza di una recluta. Slavin si girò e si trovò di fronte Lavrentij Berija, il commissario generale a capo dell’NKVD, la polizia segreta.

    In sua presenza Slavin si sentiva sempre a disagio. Le voci sussurrate negli alti comandi sul conto di quell’uomo stempiato e dallo sguardo enigmatico dietro gli occhiali a pince-nez da burocrate superavano ogni più cupa invenzione della propaganda nemica, e Slavin sospettava che almeno la metà di quelle voci avesse un fondamento. Per questo, molte volte aveva messo in guardia le sue giovani nipoti moscovite dal passeggiare di sera, «anche se siete in gruppo, anche se siete accompagnate da uomini», nelle strade su cui si affacciavano le finestre dell’ufficio di Berija, al terzo piano del palazzo della Lubjanka. Non aveva mai spiegato alle nipoti la ragione di quelle sinistre raccomandazioni, limitandosi a fare qualche generica allusione ai pericoli derivanti dai nemici del popolo e dalle spie dei nazisti; per fortuna le ragazze lo avevano sempre ascoltato.

    Berija lo fissava, arricciando il labbro superiore in uno sghembo sorriso; lentamente, tese la mano verso la valigetta.

    Slavin, benché poco convinto, fece un altro tentativo. «Compagno commissario generale, mi rendo conto che…»

    Berija troncò le sue parole: «Consegnerò personalmente al Piccolo Padre della patria i vostri importanti segreti, compagno».

    Slavin esitò un secondo. Berija inclinò il capo affettando sorpresa, la mano ferma a mezz’aria nel gesto di chi sta per afferrare qualcosa. I suoi occhi ricordarono a Slavin quelli di un rettile. Consegnò la valigetta, avvampando. «A voi, compagno commissario generale.»

    «Vedrò di fare uno sforzo per dimenticare le vostre esitazioni, Slavin. Non è un buon momento per creare problemi a chi deve prendere decisioni di importanza capitale» disse Berija. Poi voltò le spalle e si diresse verso la successiva anticamera, una stanza presidiata da altre guardie caucasiche che dava sulla porta blindata dell’ufficio di Stalin.

    Qui un ufficiale lo perquisì senza molti riguardi e gli disse di aspettare, quindi sollevò la cornetta di un citofono senza staccargli gli occhi di dosso.

    A eccezione dell’alone di luce proiettato da una lampada da tavolo sulla scrivania in fondo alla stanza, l’ufficio di Stalin era immerso nel buio. Le finestre, rinforzate da tavole di legno e lastre di metallo, erano coperte da pesanti drappi. Nessun rumore proveniva dal mondo esterno.

    Il dittatore stava scrivendo sul quaderno nero in cui prendeva continuamente appunti: nessuno sapeva cosa riguardassero. Berija attese in piedi, a una decina di passi dalla scrivania, in silenzio, controllato a vista dall’ufficiale caucasico.

    Stalin si interruppe, chiuse il quaderno, lo mise in un cassetto, lo chiuse a chiave, depose la chiave nel taschino della giubba, e alzò lo sguardo al di sopra degli occhiali da presbite. Berija avanzò, seguito come un’ombra dal caucasico, che teneva la mano sul calcio della pistola nella fondina. Berija si fermò a tre metri dalla scrivania, aprì la cartellina e ne mostrò il contenuto a Stalin.

    Stalin lanciò uno sguardo ai documenti senza toccarli. Fece un impercettibile cenno con il capo. Berija avanzò di qualche passo. Giunto alla scrivania estrasse dalla cartellina alcune fotografie e le posò sul ripiano del mobile. Stalin aveva ordinato che gli fossero recapitate in originale, perché non si fidava della trasmissione via telefoto e perché non voleva che qualcun altro le vedesse, oltre a lui e a chi le aveva scattate e sviluppate.

    «Il bunker di Hitler» disse Berija leggendo il cartellino appiccicato sul retro di una foto che ritraeva una porta aperta sul buio, una garitta con il tetto conico e, sullo sfondo, una parte di quella che poteva essere la cancelleria.

    Il capo della polizia segreta proseguì: «Alcuni locali del cosiddetto Führerbunker».

    Le foto mostravano le scale illuminate dalle lampade ad arco, i corridoi e alcune stanze: il centralino, l’infermeria, una cucina. In tutte, vi era un disordine che le faceva assomigliare a un accampamento improvvisato più che al rifugio della casta che aveva pianificato di dominare il mondo.

    Berija mostrò uno dopo l’altro i ritratti di alcune persone, fotografate di fronte e di lato come nelle foto segnaletiche. «Artur Axmann, capo della Hitler-Jugend. Obersturmbannführer Heinz Linge, cameriere personale di Hitler. Untersturmführer Otto Günsche, attendente di Hitler. Sturmbannführer Ludwig Stumpfegger, chirurgo. Generale di fanteria granatieri Wilhelm Burgdorf, comandante dell’ufficio personale dell’esercito. Obersturmbannführer Erich Kempka, autista personale di Hitler. Erano tutti nel bunker.»

    Stalin osservava senza commentare, con l’abituale espressione indecifrabile.

    Berija continuò: «Ancora nessuna traccia di Bormann».

    Stalin annuì. Berija passò alla foto della signorina Eva Braun: il primo piano di un viso femminile contratto in una smorfia, gli occhi semiaperti reclinati verso l’alto a mostrare il bianco della sclera. «Cianuro» proseguì. «Una fialetta uguale a quelle in dotazione agli ufficiali superiori delle SS, ma contenuta in un astuccio d’oro.» Non aggiunse altro.

    Stalin sollevò gli occhi e lo fissò.

    L’altro riprese: «Joseph Goebbels».

    La fotografia ritraeva un cadavere steso al suolo con il cranio devastato da un colpo di arma da fuoco esploso a pochi centimetri. Le fattezze da avvoltoio del ministro della Propaganda erano ancora riconoscibili nella metà sinistra del volto.

    «È stato colpito dal soldato che guidava la squadra che ha preso il bunker. Il soldato, un fuciliere dello Smerš, ha confermato il suo primo rapporto: al momento dell’irruzione Goebbels stava puntando la pistola alla tempia di Hitler, e aveva il dito sul grilletto. Il soldato non ha potuto fare altro.»

    Stalin assentì con un deciso cenno del capo.

    «Ed ecco… questo» aggiunse Berija porgendogli l’ultima foto. Stalin la prese con entrambe le mani e la tenne sollevata dal piano della scrivania. I suoi occhi luccicarono. Quella che stava osservando era l’immagine di un uomo dalle fattezze inconfondibili: i baffetti a spazzolino, il famoso ciuffo tirato di sbieco sulla fronte fino a ricadere sulla tempia sinistra, le sopracciglia marcate, le pesanti borse sotto gli occhi. L’uomo giaceva disteso al suolo nel pallore della morte, le labbra sigillate per sempre. Un foro di proiettile spiccava al centro della fronte, due dita sopra gli occhi.

    Stalin annuì compiaciuto, poi fissò Berija con espressione interrogativa.

    Quegli soggiunse: «Londra e Washington stanno facendo pressione per avere notizie sulla sorte del Führer».

    L’ombra di un sorriso baluginò sul volto del generalissimo. «Avanti secondo i piani.»

    «Secondo i piani, compagno Stalin.»

    Londra, ore 4.50.

    Il tenente di guardia nel corridoio del rifugio militare a Storey’s Gate si stava appisolando. Restare svegli in quel posto era dura; l’unica cosa da fare, dopo che le ausiliarie e le segretarie se n’erano andate, era stare a guardare la cabina telefonica privata di Winston Churchill, un cubicolo rivestito di damasco blu con le iniziali del primo ministro sulla porta, dove qualche buontempone aveva collocato un dispositivo che, quando il premier vi entrava, faceva comparire la scritta

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