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Al servizio di Adolf Hitler
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E-book369 pagine5 ore

Al servizio di Adolf Hitler

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Info su questo ebook

La dittatura è un veleno che contamina ogni cosa

La storia mai raccontata dell'assaggiatrice del Führer

All’inizio del 1943 i genitori di Magda Ritter inviano la loro figlia presso alcuni parenti in Baviera, sperando di tenerla al sicuro dalle bombe alleate che piovono su Berlino. Dalle giovani donne tedesche, in tempi così duri, ci si aspetta che facciano il loro dovere lavorando per il Reich e sposandosi per dare alla patria figli forti e in salute. Assegnata al rifugio di montagna di Hitler, solo dopo settimane di addestramento Martha scopre ciò che dovrà fare: sarà una delle giovani donne che assaggiano il cibo del Führer, offrendo la propria vita per evitargli di essere avvelenato. Così sperduto tra le montagne, il rifugio sembra lontanissimo dalla cruda realtà della guerra. Ma Magda, nonostante abbia cominciato ad abituarsi a quella pericolosa occupazione, non può fare a meno di accorgersi delle atrocità del Reich e si trova sempre più invischiata in intrighi che metteranno alla prova la sua lealtà. In gioco ci sono la salvezza, la libertà e la vendetta.

Un romanzo straordinario basato sulla vera storia delle ragazze che rischiavano la vita ogni giorno assaggiando il cibo del Führer

Alcuni commenti di lettori in anteprima

«Al servizio di Adolf Hitler racconta la trasformazione di Magda Ritter, da normale ragazza tedesca a fiera nemica del dittatore nazista.» 

«Uno sguardo inedito e appassionante su una vicenda poco conosciuta della vita di Adolf Hitler.»«Le dicevano che doveva gioire perché aveva il privilegio di salvare il Führer. E il prezzo da pagare era “solo” la perdita della sua vita.»
V.S. Alexander
è un appassionato studioso di storia con un forte interesse per la musica e per le arti visive. Nella scrittura subisce l’influenza di Shirley Jackson, Oscar Wilde, Daphne du Maurier e di tutti i romanzi delle sorelle Brontë. Al servizio di Adolf Hitler è il suo primo romanzo pubblicato con la Newton Compton. Attualmente vive in Florida.
LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2017
ISBN9788822717375
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    Anteprima del libro

    Al servizio di Adolf Hitler - V.S. Alexander

    La casa del tè

    Il Berghof

    Capitolo 1

    All’inizio del 1943 uno strano terrore invase Berlino.

    L’anno precedente l’ululato delle sirene antiaeree mi aveva fatto sollevare lo sguardo al cielo. Ma vidi soltanto le nuvole che veleggiavano come code di cavalli bianchi. Le bombe alleate fecero pochi danni e noi tedeschi eravamo convinti di essere al sicuro. Tuttavia, alla fine di gennaio di quell’anno mio padre cominciò a cogliere le avvisaglie di un’ardente pioggia di distruzione.

    «Magda, dovresti lasciare Berlino», disse all’inizio dei bombardamenti. «Qui è troppo pericoloso. Puoi andare da zio Willy a Berchtesgaden. Là sarai al sicuro». Mia madre annuì.

    Non volevo andarci perché da piccola avevo visto gli zii soltanto una volta. La Germania del Sud mi sembrava lontana migliaia di chilometri. Amavo Berlino e volevo rimanere nel nostro piccolo appartamento a Horst-Wessel-Stadt. Le nostre vite, e tutto il mio mondo, erano tra le pareti di quella casa. Volevo essere normale; dopotutto la guerra stava andando bene. Così almeno diceva il Reich.

    Nello Stadt tutti pensavano che il quartiere sarebbe stato bombardato. Lì attorno c’erano molte industrie, compresa la fabbrica di freni dove lavorava mio padre. Il 30 gennaio, alle undici di mattina, gli Alleati bombardarono Berlino mentre il Reichsmarschall Hermann Göring stava parlando alla radio. Più tardi, quello stesso giorno, i bombardamenti ripresero mentre parlava il ministro della Propaganda Joseph Goebbels. Gli Alleati avevano pianificato bene i loro attacchi. Entrambi i discorsi furono interrotti dai raid aerei.

    La prima volta mio padre era al lavoro, ma la seconda era a casa. Avevamo deciso che durante i raid saremmo scesi in cantina insieme a Frau Horst, che abitava all’ultimo piano del palazzo. All’epoca non sapevamo ancora quali distruzioni potevano provocare le nuvole nere delle sibilanti bombe alleate. Hitler aveva detto che il popolo tedesco sarebbe stato protetto da questi orrori e noi gli credevamo. Anche i miei amici maschi che combattevano nella Wehrmacht credevano fermamente in lui. Un senso del destino ci spingeva in avanti.

    «Dovremmo scendere in cantina», dissi a mia madre quando iniziò il secondo raid. Mi affacciai sulle scale e urlai le stesse parole a Frau Horst. «Presto! Presto!», aggiunsi.

    La vecchia signora si affacciò all’uscio. «Dovete aiutarmi. Mi muovo a fatica. Non sono più giovane come un tempo». Salii di corsa le scale e la trovai con un pacchetto di sigarette in una mano e una bottiglia di cognac nell’altra. Gliele presi e riuscimmo a scendere prima che cadessero le bombe. Eravamo abituati ai blackout. Nessun aereo alleato poteva vedere la luce della nostra cantina senza finestre. La prima esplosione sembrò lontana e non mi preoccupai.

    Frau Horst accese una sigaretta e offrì il cognac a mio padre. Apparentemente, le sigarette e il liquore erano gli unici due averi che si sarebbe portata nella tomba. Dal soffitto cominciò a piovere polvere. La vecchietta indicò le travi sopra le nostre teste. «Maledetti!», esclamò. Mio padre annuì svogliatamente. La caldaia a carbone che scoppiettava nell’angolo non bastava a neutralizzare i gelidi spifferi che si insinuavano nella stanza. Il vapore dei nostri respiri si addensava sotto la lampadina nuda che pendeva dal soffitto.

    Un’esplosione più vicina mi rimbombò nelle orecchie e la lampadina lampeggiò. Una luce arancione sfolgorò sopra le nostre teste, così vicina che riuscimmo a scorgere la scia infuocata attraverso le crepe attorno alla porta della cantina. Una nuvola di polvere scese turbinando dalle scale con un rumore di vetri infranti. Papà afferrò mia madre e me per le spalle, ci fece chinare in avanti e coprì le nostre teste con il suo poderoso petto.

    «Questa era troppo vicina», dissi stringendomi a lui tutta tremante. Frau Horst singhiozzava nell’angolo.

    Il bombardamento cessò quasi con la stessa rapidità con cui era iniziato e risalimmo le scale buie fino al nostro appartamento. Frau Horst ci salutò e proseguì al suo piano. La mamma aprì la porta e cercò una candela in cucina. Dalla finestra vedemmo una colonna di fumo nero levarsi da un palazzo a qualche isolato dal nostro.

    Mia madre trovò un fiammifero, lo accese e rimase senza fiato. Le ante della vetrinetta si erano aperte e numerosi pezzi del prezioso servizio di porcellana che le aveva regalato la nonna giacevano sul pavimento. Si chinò e raccolse i cocci cercando di metterli insieme come un puzzle.

    Anche un vaso di cristallo al quale teneva molto era ridotto in frantumi. La mamma faceva crescere gerani e iris viola nel piccolo giardino dietro il palazzo. E quando gli iris fiorivano, li tagliava e li metteva nel vaso sopra la tavola da pranzo. Il loro profumo si diffondeva in tutte le stanze. Mio padre diceva che quei fiori lo rendevano felice perché aveva chiesto la mano di mia madre proprio nel periodo dell’anno in cui fiorivano gli iris.

    «Le nostre vite sono diventate fragili», disse mio padre guardando il servizio di porcellana. Dopo qualche minuto la mamma rinunciò a rimettere insieme i cocci delle tazzine e del vaso e li gettò nell’immondizia.

    Raccolse i capelli neri sulla nuca e andò a prendere una scopa in cucina. «Dovremo fare dei sacrifici», disse.

    «Sciocchezze», rispose mio padre. «Siamo stati fortunati ad avere una figlia anziché un figlio. Altrimenti avremmo dovuto cominciare a mettere da parte i soldi per il funerale».

    La mamma tornò dalla cucina con la scopa.

    «Non dire così. Darai un’impressione sbagliata».

    «A chi?», chiese lui scuotendo la testa.

    «A Frau Horst. Ai vicini. Ai colleghi. Chi può dirlo? Dobbiamo stare attenti a quello che diciamo. Parole come queste possono ricaderti sulla testa».

    La lampadina lampeggiò e mio padre si lasciò sfuggire un sospiro. «È questo il problema. Dobbiamo stare attenti a tutto quello che diciamo… E come se non bastasse, adesso ci piovono addosso bombe. Magda deve andarsene. Andrà da zio Willy a Berchtesgaden. E magari là troverà anche un lavoro».

    Nel corso dei miei venticinque anni avevo cambiato più volte mestiere, passando da una fabbrica di vestiti all’archivio di una banca e infine a un magazzino, ma nel mondo del lavoro mi sentivo persa. Mi sembrava di non fare mai la cosa giusta. Il Reich voleva che le ragazze tedesche diventassero madri, ma voleva anche che avessero un impiego. Adesso lo desideravo anch’io. Se avessi avuto un lavoro, avrei dovuto chiedere un permesso per lasciarlo. Ma poiché non ce l’avevo, non potevo oppormi alla decisione di mio padre di spedirmi dallo zio. Quanto al matrimonio, dopo i diciannove anni avevo avuto qualche ragazzo, ma niente di serio. La guerra aveva portato via così tanti giovani uomini. E tra quelli rimasti nessuno era riuscito a catturare il mio cuore. Ero una vergine, ma non avevo rimpianti.

    Nei primi anni della guerra Berlino era stata risparmiata. Quando iniziarono i bombardamenti, la città visse come un sognatore inconsapevole dei propri movimenti. La gente vagava per le strade in stato di trance. I genitori guardavano negli occhi i figli neonati e dicevano loro quanto erano belli, ma accarezzare un ricciolo setoso o pizzicare dolcemente una guancia non bastava a garantire un futuro. I giovani venivano spediti al fronte a est e a ovest. Tutti parlavano della lenta discesa della Germania nell’inferno, concludendo sempre con un «andrà meglio». Il cibo e le sigarette erano tra i più diffusi argomenti di conversazione, superati soltanto dalle strombazzate vittorie strappate dalla Wehrmacht al nemico.

    I miei genitori erano gli ultimi di una serie di generazioni di Ritter che avevano vissuto nel nostro palazzo. I nonni erano morti entrambi nel letto dove dormivo. La mia camera, la prima del corridoio, sul davanti del palazzo, era una stanza tutta per me dove potevo respirare. Nessun fantasma mi spaventava lì dentro. Era molto spoglia: c’erano soltanto il letto, una piccola cassettiera di quercia, una mensola traballante e alcuni oggetti collezionati nel corso degli anni, compresa la scimmietta di peluche che mio padre aveva vinto a un luna-park a Monaco quando ero bambina. Dopo i primi bombardamenti, guardai la mia stanza in modo diverso. Il mio rifugio assunse quasi una dimensione sacra e ogni giorno mi domandavo se la sua tranquillità sarebbe andata in frantumi come un tempio bombardato.

    Il raid successivo arrivò il giorno del compleanno di Hitler, il 20 aprile 1943. Gli striscioni e le bandiere naziste garrivano al vento. Le bombe provocarono qualche danno, ma la maggior parte della città ne uscì indenne. Il raid ebbe tuttavia l’effetto di far riaffiorare tutte le mie paure d’infanzia. Non mi erano mai piaciute le tempeste, soprattutto i lampi e i tuoni. La crescente intensità dei bombardamenti mise a dura prova i miei nervi. Mio padre continuava a insistere che dovevo andarmene e, per la prima volta, sentii che forse aveva ragione. Quella notte mi guardò mentre facevo la valigia.

    Raccolsi alcune delle cose a cui tenevo di più: un piccolo ritratto di famiglia scattato nel 1925, in tempi più felici, e i taccuini in cui avevo annotato i miei pensieri. Papà mi porse la scimmietta di peluche, l’unico oggetto che conservavo dall’infanzia.

    La mattina seguente la mamma scoppiò in lacrime nel vedermi scendere le scale con la valigia. Una pioggerellina primaverile spruzzava la strada e il profumo dei germogli pervadeva l’aria.

    «Abbi cura di te, Magda», disse la mamma baciandomi sulla guancia. «Cammina a testa alta. La guerra finirà presto».

    Ricambiai il bacio e sentii il sapore salato delle lacrime. Papà era al lavoro. Ci eravamo salutati la sera prima. La mamma mi strinse di nuovo le mani, come se volesse trattenermi, e poi le lasciò. Raccolsi la valigia e presi una carrozza per la stazione dei treni. Il viaggio fino alla mia nuova casa sarebbe stato lungo. Felice di trovare riparo dalla pioggia, entrai in stazione dall’ingresso principale. I tacchi delle mie scarpe ticchettavano sul marciapiede di pietra.

    Trovai il binario del treno che mi avrebbe portata a Monaco e Berchtesgaden e attesi in coda sotto il graticcio metallico del soffitto a volta. Una giovane SS in uniforme grigia controllava i documenti di tutte le persone che salivano sul treno. Io ero una tedesca protestante, né cattolica né ebrea, e abbastanza giovane da essere scioccamente convinta della mia invincibilità. Numerosi agenti della polizia ferroviaria in uniforme verde affiancavano l’agente di sicurezza lungo il treno.

    La SS aveva tratti fini ed eleganti e due occhi azzurro acciaio. Un’onda di capelli castani gli spuntava da sotto il berretto. Squadrava tutti come se fossero dei potenziali criminali, ma l’atteggiamento distaccato mascherava le sue intenzioni. Mi metteva a disagio, ma ero certa che mi avrebbe lasciata salire sul treno. Mi scrutò attentamente, studiò il mio documento, prestando particolare attenzione alla fotografia prima di restituirmelo con un lieve sorriso, come se gli avessi presentato un lavoro ben fatto. Poi fece cenno al passeggero alle mie spalle di farsi avanti. Le mie credenziali avevano superato la sua ispezione. Forse gli era piaciuta la fotografia. Ero venuta particolarmente bene. I capelli castano scuro mi ricadevano sulle spalle. La mia faccia era troppo stretta. Gli occhi scuri, troppo grandi rispetto al viso, mi davano un’aria vagamente orientale, facendomi assomigliare a un ritratto di Modigliani. Alcuni uomini mi avevano detto che ero bella ed esotica per essere una tedesca.

    Nella carrozza non c’erano scompartimenti, soltanto sedili, ed era mezza vuota. Di lì a qualche mese il treno sarebbe stato affollato di berlinesi che andavano a cercare un po’ di refrigerio sulle Alpi. I tedeschi volevano godersi le bellezze naturali del loro Paese anche in mezzo all’infuriare della guerra. Una giovane coppia dall’aria innamorata era seduta poche file davanti a me al centro della carrozza. Lei aveva posato la testa sulla spalla del compagno e lui le sussurrò qualcosa all’orecchio, aggiustandosi il borsalino e aspirando una boccata dalla sigaretta. Una nuvola di fumo azzurrino si levò sopra le loro teste. Di tanto in tanto lei gli prendeva la mano e faceva un tiro.

    Uscimmo dalla stazione sotto il cielo oscurato dalla pioggia. Il treno acquistò velocità e ci lasciammo alle spalle le fabbriche e le fattorie a sud di Berlino. Mi appoggiai allo schienale e tirai fuori dalla valigia un libro di Friedrich Rückert. Mio padre me l’aveva regalato parecchi anni prima pensando che avrei apprezzato le poesie di quell’autore romantico, ma io non mi ero mai presa il tempo per leggerle. Per me il regalo era più importante dei versi all’interno del libro.

    Fissai le pagine con aria assente, pensando alla vecchia vita che stavo abbandonando e alla nuova che mi aspettava. Allontanarmi così tanto da casa mi spaventava, ma Hitler e la guerra non mi lasciavano altra scelta.

    Lessi la dedica che mio padre aveva scritto sul libro prima di regalarmelo: Con tutto l’amore, da tuo padre Hermann. Quando ci eravamo separati la notte prima mi era parso più vecchio dei suoi quarantacinque anni e più triste, anche se era contento di essere riuscito a spedirmi al sicuro da suo fratello.

    Mio padre camminava con la schiena curva perché alla catena di montaggio della fabbrica di freni doveva stare sempre chino in avanti. La barba grigia che si rasava ogni mattina confermava le dure prove che doveva superare ogni giorno, compresa l’avversione che provava per il nazionalsocialismo e Hitler. Naturalmente, non parlava mai di queste cose, soltanto io e mia madre eravamo a conoscenza delle sue opinioni politiche. L’infelicità lo rodeva, gli toglieva l’appetito, lo faceva fumare e bere troppo, nonostante quei beni di lusso fossero ormai difficili da reperire. Era prossimo al limite di età per il reclutamento nella Wehrmacht, ma una ferita alla gamba che si era procurato in gioventù l’aveva comunque esentato dal servizio militare. Dai suoi discorsi avevo capito che non nutriva molta ammirazione per i nazisti.

    Lisa, mia madre, era meno ostile al partito, benché né lei né mio padre ne fossero membri. Come la maggior parte dei tedeschi, era indignata per le sorti del proprio Paese dopo la prima guerra mondiale. «Almeno adesso la gente ha un lavoro e di che mangiare», diceva spesso a mio padre. Mia madre arrotondava il bilancio familiare con il cucito, e grazie all’agilità delle sue dita lavorava anche a cottimo per un gioielliere. Fu lei a insegnarmi a cucire. Vivevamo in modo confortevole pur non essendo ricchi. Il cibo in tavola non era mai mancato finché non arrivò il razionamento.

    Mia madre e mio padre non parlavano mai delle loro opinioni politiche. Sul nostro palazzo non c’erano né insegne né bandiere naziste. Frau Horst aveva esposto alla finestra un cartello con la svastica, ma era piccolo e dalla strada non si notava. Rifiutando i suggerimenti di mia madre, convinta che l’affiliazione mi avrebbe aiutata a trovare lavoro, non mi ero iscritta al partito. Dopo avere lasciato la Lega delle ragazze tedesche e il Servizio di lavoro del Reich, dove avevo oziato parecchio, il pensiero di iscrivermi quasi non mi aveva sfiorata. E non essendo sicura di cosa significasse essere un membro del partito, non sentivo il bisogno di giurargli fedeltà. Attorno a noi la guerra imperversava. Combattevamo per il bene sulla strada della vittoria. La mia ingenuità mascherava il mio bisogno di sapere.

    Continuai a sfogliare il libro finché il treno non rallentò.

    Alla stazione vidi spuntare alle mie spalle una SS con la pistola in pugno. Si avvicinò alla coppia davanti a me e la puntò alla tempia dell’uomo con la sigaretta in bocca. La donna si voltò e mi lanciò un’occhiata colma di terrore. Per un istante mi parve che volesse fuggire, ma non c’era nessun posto dove andare. Sulle porte alle due estremità della carrozza erano improvvisamente apparsi alcuni agenti della polizia ferroviaria pronti a sparare. La SS tolse la pistola dalla tempia dell’uomo e fece cenno a entrambi di alzarsi. La donna prese il suo cappotto scuro e si avvolse una sciarpa nera attorno al collo. La SS li scortò in fondo al vagone. Non osai guardare cosa stesse succedendo.

    Dopo un po’ sbirciai dal finestrino alla mia sinistra. Il treno si era fermato in mezzo a un campo. Un’auto nera chiazzata di fango, con i tubi di scarico cromati che sputavano nuvolette di fumo, era ferma su una strada sterrata che correva a fianco della ferrovia. La SS spinse l’uomo e la donna sul sedile posteriore e poi salì insieme a loro tenendo sempre la pistola in pugno. Un agente della polizia prese posto sul sedile davanti accanto all’autista. Appena le portiere si chiusero, l’auto descrisse un ampio cerchio nel campo, tagliò attraverso l’erba lungo un sentiero fangoso e ripartì in direzione di Berlino. Chiusi gli occhi e mi domandai cosa poteva avere fatto quella coppia per essere trascinata giù dal treno. Erano spie alleate? Ebrei che cercavano di fuggire dalla Germania? Una volta, a cena, mio padre ci aveva parlato delle discriminazioni subite dagli ebrei a Berlino, ma mia madre lo aveva liquidato definendole «voci prive di fondamento». Lui le aveva risposto che uno dei suoi colleghi aveva visto la scritta "Juden" su molte porte del quartiere ebraico. C’erano svastiche dipinte sulle vetrine e cartelli che diffidavano dal fare acquisti presso i negozianti ebrei.

    Pensai fosse meglio tenere per me le mie idee e non scatenare una discussione politica tra i miei genitori. Mi dispiaceva per gli ebrei, ma non piacevano a nessuno dei miei amici e il Reich li incolpava sempre di tutti i mali della Germania. Come molti all’epoca, feci finta di non vedere. Quelle che aveva sentito mio padre potevano essere soltanto voci. Mi fidavo di lui, ma il mio unico riferimento era ciò che sentivo alla radio.

    Cercai con lo sguardo l’auto nera. Era già scomparsa all’orizzonte. Non avevo idea di cosa avesse fatto quella coppia, ma lo sguardo terrorizzato della donna mi rimase impresso nella memoria. Durante il resto del viaggio cercai invano distrazione nella lettura. Quell’incidente mi aveva turbata. Mi chiesi chi sarebbero stati i prossimi e quando sarebbe finita.

    Capitolo 2

    La stazione di Berchtesgaden era più piccola ma più grandiosa di quella di Berlino. File verticali di bandiere naziste fiancheggiavano le imponenti colonne in stile romanico dell’atrio. Su un lato scintillava una porta d’oro, presumibilmente riservata ai dignitari, con il bassorilievo di un’aquila nera appollaiata su una svastica. Forse era la porta di una sala per le personalità importanti che facevano visita al Führer. Berchtesgaden era l’ultima fermata prima del suo ritiro di montagna.

    Mi guardai attorno e scorsi zio Willy e zia Reina vicino all’ingresso. Ci scambiammo il saluto nazista. Lo zio sembrava più felice di vedermi che la zia. Aveva il corpo a forma di pera, con il ventre prominente, i capelli rossi e le lentiggini come da giovane, ma alcune si erano allargate, trasformandosi in macchie marroni disseminate qui e là sul viso. Stringeva in mano il suo berretto della polizia. Il sorriso della zia sembrava forzato, come se fossi la figliastra non voluta che veniva a farle visita. Era elegante e colta, mentre lo zio era più affabile. Il papà mi aveva detto che erano una strana coppia. All’epoca ero giovane e non mi ero mai chiesta i motivi di quell’attrazione reciproca, ma ora, guardandoli, le loro differenze mi parvero evidenti.

    Dopo i saluti di rito lo zio caricò la mia valigia sulla sua piccola Volkswagen e mi sedetti sul sedile dietro. Mentre lo zio guidava riuscii a vedere soltanto di sfuggita lo scenario alpino con i picchi scuri che svettavano sopra le nuvole nel cielo d’avorio. Ero andata a Berchtesgaden soltanto una volta, da bambina.

    Gli zii abitavano in uno chalet a tre piani in stile bavarese tra un piccolo ristorante e un macellaio su una strada affollata non lontano dal centro. L’influsso alpino si notava ovunque. La loro casa era alta, ma non grande quanto gli chalet appollaiati sulle montagne. Scesi dall’auto e respirai la frizzante aria di montagna. Era difficile credere che quello era lo stesso Paese di Berlino.

    Ci togliemmo i cappotti e lasciammo la mia valigia accanto alla porta. Lo zio Willy indossava l’uniforme della polizia locale con la svastica sul braccio sinistro. Reina aveva un vestito blu cobalto con la chiusura lampo. Sopra il cuore aveva appuntato una spilla di diamanti a forma di svastica. Un grande ritratto in bianco e nero del Führer era appeso sopra il caminetto, da dove la sua solenne e solida figura incombeva sulla sala da pranzo. La zia aveva ricamato un centrotavola bordato di svastiche. Reina era spagnola e fiera sostenitrice di Franco e Mussolini. Nella loro casa tutto si accordava all’ideale nazista di perfezione germanica. Nulla era fuori posto. I mobili erano tirati a lucido e disposti simmetricamente. Mi sembrava di essere in un mondo di favola, fuori dall’ordinario e surreale. Più che una casa, pareva una mostra d’arte.

    La serata era fredda e lo zio accese il fuoco. Zia Reina servì stufato di manzo e pane, e ci riscaldammo con un bicchiere di vino rosso. Nello stufato c’erano poca carne e verdure, ma il brodo era buono. Dopo il viaggio ero affamata. Quel cibo era più nutriente dei piatti di verdure che ultimamente cucinava la mamma. Uova e carne scarseggiavano in tutta la Germania, soprattutto nelle città.

    Parlammo dei miei genitori e dei nostri parenti, menzionando solo di sfuggita la guerra, un argomento che sembrava infiammare Willy e Reina. Come mia madre, erano convinti che stessimo vincendo e che la Germania avrebbe sconfitto i propri nemici, e in particolare gli ebrei. Non avevo mai fatto molto caso agli ebrei, ero vissuta in un ambiente ristretto, circondata da gente come me e dai miei pochi amici. Nessuno dei nostri conoscenti o vicini era ebreo e non conoscevamo nessuno che fosse scomparso.

    Zio Willy disse che il diritto al nostro Lebensraum, lo spazio vitale, era inviolabile come la nostra eredità. Dopo la rimozione degli ebrei e dei bolscevichi, la terra sarebbe stata popolata soltanto da tedeschi e l’Est avrebbe prodotto il cibo, i minerali e le materie prime necessarie al Reich per il suo regno millenario. Mentre lo diceva il suo viso era raggiante.

    Zia Reina passò in rassegna come una regina la tavola perfettamente apparecchiata. «Questi cristalli vengono dalla mia casa in Spagna», disse facendo tintinnare con le unghie il bordo di un bicchiere. «Quando viaggiare sarà meno rischioso, ti porterò dove sono nata. È un Paese bellissimo. Gli Alleati ci stanno inondando di propaganda, ma noi sappiamo che il Führer non può sbagliare». Lanciò un’occhiata al ritratto sopra il caminetto e sorrise. «Vinceremo. I nostri soldati sconfiggeranno il nemico nella battaglia finale».

    Annuii distrattamente, non ne sapevo abbastanza, ero una ragazza qualunque, non una persona sofisticata come la zia. Reina era diversa da tutte le altre donne che avevo incontrato, più ferma nelle sue opinioni di quanto lo fosse mia madre e con una volontà di ferro. Non potevo dire o fare nulla per cambiare l’opinione degli zii sull’esito della guerra. Anche le mie poche amiche erano più interessate ai loro lavori e a guadagnare qualcosa per tirare avanti. Parlavamo di rado della guerra, tranne per lamentarci del tragico destino di tutti quei ragazzi spediti al fronte.

    Io e la zia lavammo i piatti e poi restammo seduti in soggiorno finché zio Willy non si addormentò. Quando si mise a russare, zia Reina dichiarò che la serata era finita.

    Presi la valigia e salii nella mia camera, che dava sulla strada. Al piano di sopra c’era una soffitta che la zia usava come ripostiglio.

    I lampioni in strada erano spenti, ma da dietro le imposte di qualche casa filtrava una luce soffusa. Oltre le abitazioni, le montagne dispiegavano varie gradazioni di nero, da quello saturo delle rocce a quello tremolante della foresta. Le nuvole veleggiavano alte nel cielo, squarciate a tratti da una minacciosa freccia di luce. Non riuscivo a capire se venisse dalla terra o dal cielo, ma era come se dietro le nuvole lampeggiasse una torcia elettrica. Mi affacciai alla finestra e non riuscii a distogliere gli occhi dalla vista. L’Obersalzberg era avvolto da un’aura di magia e di mito. Non c’era da stupirsi che Hitler avesse deciso di costruire il suo castello, il Berghof, sulla montagna sopra Berchtesgaden.

    Presi alcune cose dalla valigia e mi sedetti sul letto. Per quanto ammirassi la bellezza di Berchtesgaden, a casa degli zii mi sentivo un’estranea. Andai a letto pensando alla mia confortevole camera a Berlino e ai miei genitori. Anche loro dovevano essere a letto, con le imposte chiuse e le luci spente. Mentre Frau Horst era di certo ancora sveglia e fumava e beveva cognac. Non andava mai a letto senza prima bere.

    Il silenzio nella mia stanza era inquietante. A Berlino, soprattutto prima della guerra, quando il vento soffiava dalla parte giusta, udivo i treni e i loro fischi solitari. Mi chiedevo sempre dove stessero andando, ma ero contenta di starmene nel mio letto anziché sognare un viaggio. Le auto sferragliavano e i clacson suonavano a tutte le ore. La città ronzava. Mi sarei abituata a quella quiete. All’improvviso sentii la mancanza degli alberi che fiancheggiavano la nostra strada e del chiacchiericcio dei vicini.

    La mattina seguente la zia gettò la maschera abbandonando le buone maniere.

    «Se vuoi stare qui, devi trovarti un lavoro», mi disse in tono gelido servendomi un misero porridge con un goccio di latte di capra. In tavola non c’era burro e non osai chiederlo. «Non possiamo permetterci di sfamare un’altra bocca e i tuoi genitori non sono nella posizione per inviare denaro. Devi lavorare oppure trovarti un marito. Il Reich ha bisogno di giovani uomini per servire la patria».

    Le sue parole mi scioccarono, ma non giunsero inaspettate. «Cosa devo fare?», chiesi. «Non posso cercare un uomo per strada».

    Le labbra di Reina si incresparono. «Non ti sto suggerendo di fare la prostituta», disse lei. «Le donne di piacere danneggiano il Reich e pervertono i nostri soldati. Il seme degli uomini deve essere preservato per procreare. Devi trovarti un impiego, qualcosa per cui senti di essere portata. Hai qualche talento?».

    Riflettei a lungo prima di rispondere. A casa dei miei non avevo mai dovuto fare granché tranne pulire e rammendare. A volte cucinavo, ma succedeva di rado. Era mia madre a comandare in cucina. «So cucire», risposi alla fine.

    «Non ci guadagnerai abbastanza. Il lavoro qui sarebbe scarso. Tutte le donne di Berchtesgaden sanno cucire, probabilmente molto meglio di te».

    La mancanza di fiducia della zia mi ferì. Ma la sua tattica ebbe successo. Sprofondai nella poltrona ruminando sulla mia mancanza di iniziativa. I miei non mi avevano mai costretta a lavorare ed ero convinta che il piccolo contributo che davo ai lavori domestici li ripagasse del mio mantenimento. Ma forse mi sbagliavo.

    «Che cosa fai per il Reich?», mi domandò la zia posando le mani sui miei fianchi e fissandomi negli occhi. «Ogni cittadino deve essere produttivo. Dovresti vergognarti, e anche i tuoi genitori dovrebbero provare vergogna per avere cresciuto una ragazza così inutile. Forse era meglio se restavi a Berlino. Tuo padre è così apprensivo», disse, puntandomi contro un dito.

    Il vago senso di affetto che provavo per la zia svanì rapidamente. Avevamo trascorso soltanto poco tempo insieme e la prospettiva di rimanere più di qualche giorno da lei mi spaventava.

    «Dopo colazione comincerò subito a cercare un lavoro», dissi.

    Lo sguardo della zia si illuminò. «Ottima idea. Ci sarà sicuramente qualcosa che puoi fare».

    Ma io non ne ero convinta.

    Aiutai la zia a lavare i piatti, poi feci un bagno e finii di disfare la valigia, pur non avendo alcuna certezza che sarei rimasta dagli zii. Per fare una buona impressione, scelsi il vestito più bello. Era da parecchi anni che non affrontavo un colloquio di lavoro e mi sentivo totalmente impreparata. La zia mi porse una penna e un blocco per appunti coperto di svastiche.

    Durante la notte il cielo si era schiarito e i raggi del sole riscaldavano la terra, ma faceva ancora freddo. L’aria frizzante di montagna e la luce abbagliante del sole primaverile fecero svanire il ricordo della spiacevole conversazione con la zia. Alla mia destra, i picchi del Watzmann dominavano la valle come denti di squalo emersi dalla terra. Le sue pareti rocciose erano ancora costellate dalle macchie bianche della neve. Tutt’intorno a me c’erano soltanto foreste e montagne. Berchtesgaden era così diversa da Berlino, dove tutti erano sempre tesi.

    Vagai per le strade, superando negozi con le vetrine vuote. Molti avevano

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