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Blackout
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E-book487 pagine6 ore

Blackout

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Berlino, dicembre 1939. 
Mentre la Germania entra in guerra, i nazisti stringono la loro morsa sulla popolazione. La paranoia nella capitale è intensificata da un rigido blackout che ogni notte, al tramonto del cupo sole invernale, fa sprofondare la città in un’oscurità opprimente. Quando una giovane donna viene trovata brutalmente assassinata, l’ispettore Horst Schenke riceve subito pressioni per risolvere il caso. Trattato con sospetto dai suoi stessi superiori per la mancata adesione al partito nazista, Schenke cammina su una lastra di ghiaccio molto sottile. Perché la slealtà è punita con la morte. La scoperta di una seconda vittima conferma le peggiori paure dell’ispettore. Deve scoprire la verità prima che il male colpisca ancora. Mentre l’indagine lo porta più vicino al cuore sinistro del regime, Schenke si rende conto che il pericolo si nasconde ovunque. E che le fazioni del Reich in guerra tra loro possono essere letali tanto quanto un assassino che si aggira per le strade…

Bestseller internazionale 
Un autore da 5 milioni di copie nel mondo 
Tradotto in 20 lingue

«Scritto bene e sostenuto da accurate ricerche. Nei libri di Simon Scarrow l’invenzione e la storia si accostano e confluiscono come due fiumi, difficile imbrigliarli.» 
Corriere della Sera 

«Simon Scarrow è riuscito a costruirsi una grande fama. Merito del modo in cui costruisce i suoi personaggi, ma anche del fatto che ha saputo cogliere e raccontare il fascino di certi momenti storici. Quelli in cui il corso degli eventi determina per sempre il futuro.» 
Il Giornale 

«Simon Scarrow spopola.» 
la Repubblica 

«Ogni nuovo libro di Scarrow è come sempre un grande piacere.» 
The Times
Simon Scarrow
È nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi, si è stabilito in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore delle serie Le aquile dell’impero, Roma arena saga, I conquistatori (con T.J. Andrews) e Revolution saga. Ha firmato anche i romanzi L’ultimo testimone (con Lee Francis), Eroi in battaglia, La flotta degli invincibili (con T.J. Andrews), Blackout. Le sue opere hanno venduto oltre 5 milioni di copie nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2021
ISBN9788822751317
Blackout
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    Blackout - Simon Scarrow

    Prologo

    Berlino, 19 dicembre 1939

    La festa di Natale era iniziata da poco quando, alle otto e mezza di quella sera, arrivarono Gerda Korzeny e il suo accompagnatore. Fuori la neve era alta, così fecero del loro meglio per liberarsi dal ghiaccio sotto le scarpe prima di entrare nell’atrio e consegnare i propri cappotti e cappelli di pelliccia a una domestica. Gerda si sfilò gli stivali e li lasciò accanto alla porta, dopodiché indossò un paio di scarpe da sera con tacco Luigi

    XV

    , estraendole dalla borsa che aveva portato con sé. Fissò il suo riflesso nello specchio appeso al muro dell’atrio. Dopo aver stirato le pieghe che segnavano il suo abito da sera, sollevò una mano e si sistemò i capelli castani con la punta delle dita. Quando notò il suo accompagnatore che sorrideva alle sue spalle fece una smorfia.

    «Così va meglio», commentò. «Mi sento più umana».

    L’uomo sorrise, le si avvicinò e le prese il gomito. Gli stivali neri erano tirati a lucido, e con indosso la sua impeccabile uniforme faceva un’impressione notevole.

    «Siamo una splendida coppia», disse la donna, sollevando una mano guantata per sfiorargli il mento. «Peccato che non siamo sposati. L’uno con l’altra, intendo».

    Il sorriso di lui si spense, e insieme si diressero verso l’ampia sala oltre l’atrio d’ingresso. Circa metà degli ospiti era già arrivata; più di cento esponenti dell’alta società della capitale erano raccolti in piccoli gruppi sotto lo sfavillante lampadario che illuminava la grande sala. I camerieri in giacca bianca e le cameriere con i loro grembiuli passavano da un gruppo all’altro offrendo bicchieri di champagne.

    Le chiacchiere e le risate riecheggiavano tra gli alti muri, mentre Gerda studiava la folla in cerca di qualche volto familiare. C’erano persone dell’industria cinematografica che aveva conosciuto negli anni in cui era stata una stella degli studi

    UFA

    . Alcuni erano attori, come Emil Jannings, l’uomo corpulento con la fronte spaziosa che sembrava muggire dalle risate. Riconobbe alcuni registi e produttori, sceneggiatori e compositori. Purtroppo, molti dei volti a lei noti erano emigrati da tempo. La maggior parte a Hollywood, e alcuni in altre nazioni europee, dove le loro visioni politiche o religiose non li avrebbero messi nei guai con le autorità.

    Oltre agli esponenti dell’industria cinematografica, c’erano artisti e scrittori, alcune delle figure principali del mondo sportivo e i ricchi tedeschi che facevano loro da mecenati, come il conte Harstein, un tempo promotore della squadra automobilistica delle Frecce d’Argento. Erano presenti poi molti ospiti in uniforme dell’esercito, della marina e dell’aeronautica, oltre che rappresentanti del partito al potere. Uno di questi, un ufficiale delle SS, ricambiò il suo sguardo con espressione glaciale.

    Gerda si voltò verso il suo accompagnatore e mugugnò: «Buon Dio, c’è anche quel viscido di Fegelein. Fammi un favore e tienimelo lontano».

    «Perché?»

    «Perché, mio caro Oberst Karl Dorner, Fegelein è un rivoltante ipocrita che un attimo prima mi accuserebbe di tradimento nei confronti di mio marito e quello dopo farebbe di tutto per cercare di sedurmi. Preferirei non doverlo sopportare stasera».

    «E cosa vorresti che facessi, in proposito?»

    «Se dovesse mettermi in imbarazzo, mi aspetterei da parte tua un gesto galante, come ad esempio colpirlo in faccia».

    «Non sono sicuro che sia saggio per un ufficiale dell’esercito prendere a pugni uno dei prediletti di Himmler».

    «Potresti vederla come una lezione impartita da un gentiluomo a un arrivista senza scrupoli».

    «Un tempo sarei stato lieto di farlo», rispose Dorner. «Ma ora gli arrivisti governano la Germania, e non sembrano intenzionati a lasciare che persone migliori di loro lo dimentichino. Tuttavia farò quel che posso per tenerlo occupato».

    Gerda sorrise. «È solo per un’ora, o giù di lì. Poi possiamo andarcene. Ho le chiavi dell’appartamento di un amico. Non farà ritorno a Berlino fino all’anno nuovo, quindi abbiamo il resto della serata tutto per noi».

    L’ufficiale sorrise, le prese la mano e la baciò. «Non vedo l’ora». La sentì fremere al suo tocco.

    «Non ti piacerebbe stare con me ogni sera, amore mio?». Gerda parlò con tono soffuso, così che solo lui potesse sentirla. «Non ci meritiamo questa felicità?».

    L’uomo sospirò. «Ne abbiamo già parlato. Te l’ho detto, non ho intenzione di divorziare da mia moglie finché non potrò permettermelo. E se tu pianti quel babbeo che hai sposato, ti lascerà senza un soldo in mano. Come pensi che riusciremmo vivere a quel punto? Eh?».

    Lei ricambiò il suo sguardo. «Avremmo l’un l’altra. Non è abbastanza, per te?»

    «No. Affatto. E di certo non è abbastanza per te, conoscendo i tuoi gusti. Allora perché non lasciamo le cose come stanno e ci godiamo quel che abbiamo?»

    «Ma io voglio più di una serata o di un pomeriggio occasionale con te. Voglio te. Per te non sono altro che una bella scopata. Non è vero?».

    Lui si pietrificò, poi sorrise freddamente. «Forse nemmeno quella. Ma se non altro sei una scopata facile».

    «Bastardo». Gerda si allontanò. «Credi di essere l’unico a desiderarmi? Vedrai».

    Raggiunse un gruppo di esponenti dell’industria cinematografica e, preparandosi a salutare qualcuno, un sorriso smagliante le illuminò il volto. «Leni!».

    Una donna con indosso un tailleur pantalone, i capelli scuri fino alle spalle e tratti mascolini, si voltò ricambiando il sorriso, spalancò le braccia e accolse la nuova arrivata. Si scambiarono due baci, poi Gerda salutò gli altri che conosceva e venne presentata ai pochi che non le erano familiari.

    Dorner la osservò per un istante dai margini della sala, poi andò verso due ufficiali in piedi alla base dell’ampia scalinata che portava alla galleria superiore.

    Avvicinandosi, rivolse loro un cenno con il capo. Uno era il collaboratore con cui lavorava nel suo ufficio dell’Abwehr, l’intelligence militare tedesca. L’altro, il generale von Tresckow, indossava sul colletto le mostrine rosse di un ufficiale di Stato maggiore. Sebbene non avesse ancora quarant’anni, l’attaccatura dei suoi capelli aveva iniziato a recedere, rovinando i suoi lineamenti altrimenti affascinanti.

    «Buonasera, signore». Dorner chinò appena il capo.

    «Dorner, è un piacere rivederti», rispose von Tresckow. «Dimmi, riconosco quella donna. Quella con cui sei arrivato».

    «Immagino di sì, signore. È un’attrice. O almeno, lo era. Gerda si è ritirata dall’industria cinematografica qualche anno fa».

    «Ah, ecco! Quella Gerda! Credevo fosse bionda».

    «Lo era, all’epoca. Ma il suo colore naturale è castano».

    Il generale rivolse lo sguardo verso il gruppetto di persone radunatesi attorno a Gerda, che aveva iniziato a esercitare il suo fascino magnetico sulla folla. «Bionda o castana, è una donna incredibilmente bella. Sei fortunato».

    «Già, sono fortunato». Dorner sollevò il bicchiere, bevve un sorso e fece un passo avanti, frapponendosi tra Gerda e il suo superiore prima che questo le si avvicinasse ulteriormente. «Allora, generale, dopo la Polonia, cos’ha in serbo lo Stato maggiore per il fronte occidentale?».

    Von Tresckow scoppiò a ridere e agitò l’indice. «Non posso svelare alcun dettaglio, amico mio. Diciamo solo che i nostri amici francesi e britannici rimarranno alquanto sorpresi, quando arriverà il momento…».

    Il generale iniziò a decantare la superiorità di armi e strategie tedesche rispetto a quelle nemiche, ma in breve Dorner distolse l’attenzione da von Tresckow, riportando i pensieri su Gerda. Non gli bastava che lei fosse presente a scaldargli il letto quando la sua lussuria richiedeva soddisfazione. Era un uomo geloso, e non riusciva a tollerare l’idea di condividerla con qualcun altro. Certo, entrambi erano sposati, ma lei gli aveva assicurato di non dormire più con suo marito, un avvocato nazista. Da parte sua, Dorner si era sposato da giovane con una ragazza piacente proveniente da una famiglia proprietaria di un vasto terreno alle pendici dei monti dell’Harz. Ma si era rivelata una persona piuttosto noiosa. Di certo lo era rispetto a un’ex stella del cinema come Gerda. Ed era proprio quello il problema. Avrebbe dovuto scegliere tra i lussi derivanti dalla ricchezza di sua moglie e la raffinatezza di Gerda. Ma lui desiderava entrambe le cose.

    Quando arrivarono altri ospiti, la sala iniziò ad affollarsi, e divenne sempre più difficile mantenere una conversazione con il frastuono in sottofondo. Dalla galleria al piano superiore cominciò a diffondersi la musica di un grammofono, un pezzo allegro di un ex cantante di cabaret ancora tollerato dal partito. Infine, il generale mise un freno alle sue chiacchiere lavorative per andare a prendere un altro drink.

    Il collaboratore di Dorner alzò gli occhi al cielo. «Credevo che non avrebbe mai smesso. Quell’uomo non ha la più pallida idea della funzione dei raduni sociali. Chi l’ha invitato?»

    «Non saprei, Schumacher. Ma non ho intenzione di lasciare che mi annoi ulteriormente. Se torna, tienilo occupato. C’è una persona con cui devo parlare».

    «La sua amica Gerda? Fossi in lei, non aspetterei troppo». Schumacher fece un cenno alle spalle del suo superiore.

    Dorner si voltò, e subito il suo sguardo finì sul lato opposto della sala, dove diverse coppie avevano iniziato a danzare a suon di musica. Tra loro c’era anche Gerda, le braccia strette attorno a un giovane snello con indosso una giacca di velluto, i loro corpi allacciati l’uno all’altro. La donna lanciò un’occhiata a Dorner dalle spalle del suo compagno di danza, prima di baciarlo sul collo. Il suo cavaliere la strinse più forte, facendo scivolare la mano destra dalla sua spalla alla vita.

    «Maledetta…», ringhiò Dorner. Mise il bicchiere vuoto nelle mani del suo collaboratore e attraversò a passo svelto la folla, diretto verso di lei. Allontanandola dall’uomo, le afferrò le braccia e le si avvicinò per parlarle all’orecchio. Il compagno di danza di Gerda rimase immobile a due passi di distanza, incerto su quale potesse essere la reazione opportuna. Mentre i due portavano avanti uno scambio teso, l’uomo si allontanò per tornare verso il folto gruppo di ospiti dell’industria cinematografica. Un attimo dopo, Gerda si liberò dalla presa di Dorner e si precipitò verso l’atrio. L’ufficiale le lanciò un’occhiataccia prima di inseguirla.

    Nel frattempo, von Tresckow tornò alla base delle scale, una bottiglia di champagne in una mano e un bicchiere nell’altra. «Oh, dov’è finito Dorner? C’era dell’altro che volevo raccontargli».

    «Credo che abbia deciso di lasciare la festa prima del previsto, signore». Schumacher sollevò il bicchiere indicando verso l’atrio, ed entrambi osservarono Gerda che si rimetteva il cappotto e tornava a indossare gli stivali pesanti. Dorner le parlò con fervore, ma la donna evitò il suo tentativo di prenderle la mano e si voltò per aprire la porta d’ingresso. Dorner serrò il pugno e afferrò il cappotto e il cappello per poi seguirla a stretto giro, lasciando a un domestico il compito di chiudere la porta alle loro spalle.

    «Cos’è successo?», chiese von Tresckow.

    «Non ne sono sicuro, signore». Schumacher sollevò il bicchiere e bevve un sorso. «Ma a quanto pare stasera c’è tensione nell’aria…».

    Gerda si mise a correre allontanandosi da Dorner, mentre l’uomo si lasciava la villa alle spalle. Sentì gli stivali scricchiolare sullo strato di neve fresca caduta mentre erano alla festa. Il cielo era limpido e le stelle brillavano nitide su uno sfondo di oscurità vellutata.

    «Aspetta!», gridò Dorner. «Cosa credi di fare? Gerda!».

    La donna sentì i suoi passi che la seguivano a ritmo sostenuto. Aveva ormai raggiunto la fine della strada quando lui le afferrò il braccio, costringendola a fermarsi e a voltarsi per guardarlo in faccia. Si accorse subito della rabbia nella sua espressione, le sue labbra serrate in una linea sottile.

    «Come osi umiliarmi così?», borbottò con voce bassa ma intrisa d’ira. Gerda sentì il brandy nel suo alito.

    Scoppiò in una risata amareggiata. «Come oso? Chi diavolo credi di essere? Ti ho offerto il mio cuore. Ho detto che avrei rinunciato a tutto per stare con te. Mi hai fatto credere di provare lo stesso».

    «Non ti ho mai promesso nulla».

    Lei ricambiò il suo sguardo e scosse triste la testa. «Karl, non sei altro che un bugiardo e un traditore. Esattamente come gran parte degli uomini che ho conosciuto. Mi hai sedotto e mi hai incoraggiato a fare piani per un futuro che non hai mai voluto condividere. Ti odio…».

    L’ufficiale si mosse tanto rapidamente che il colpo la colse di sorpresa. Il dorso della sua mano si schiantò sulla guancia di Gerda, spingendola a piegare il collo. Barcollò, e mentre scintille bianche le baluginavano davanti agli occhi, avvertì il gusto metallico del sangue in bocca.

    «Bastardo…».

    Dorner si irrigidì, evidentemente stupito per aver perso il controllo. Contrasse il volto per un istante, poi scosse la testa. «Gerda… perdonami».

    «Stammi alla larga!», gridò lei, allontanandosi. Sollevò una mano guantata e gli puntò un dito contro. «È finita. Abbiamo chiuso, hai capito?»

    «No, amore mio. Non è finita». Avanzò verso la donna con un sorriso addolorato sul volto, le braccia aperte pronte ad accoglierla in un abbraccio. «Mi dispiace tanto. Perdonami».

    «No! Avvicinati ancora e mi metto a urlare a squarciagola. Sul serio. E quando qualcuno si avvicinerà, dirò che mi hai aggredito. Che hai cercato di molestarmi».

    Dorner si fermò allarmato. «Non lo faresti mai».

    «Mettimi alla prova e vedrai», ribatté lei con tono di sfida. «Tutta Berlino saprà che razza di uomo sei».

    «Ti prego. No».

    Gerda lo fissò con disprezzo, poi fece qualche passo indietro prima di voltarsi e incamminarsi rapidamente in direzione della vicina stazione su Papestrasse per tornare rapidamente a casa, ora che non era più con Dorner. Il cuore le batteva veloce nel petto, e la guancia le bruciava per il colpo ricevuto. Se le fosse rimasto il segno, avrebbe dovuto pensare a un modo per spiegarlo a suo marito una volta tornata a casa. Anche se nemmeno lui era restio a sottoporla a trattamenti simili, rifletté amaramente.

    Non sentiva alcun suono di passi che la seguivano, nessun grido del suo amante che le chiedesse di fermarsi e ripensarci. A ogni passo, sentiva crescere dentro di sé il risentimento nei confronti della mancanza di volontà che Dorner stava dimostrando nel combattere per riconquistarla. Già mentre lo rimproverava aveva quasi sperato che l’ufficiale cercasse di convincerla a cambiare idea. In realtà, voleva stare con lui. Solo con lui. E aveva bisogno che Dorner la desiderasse allo stesso modo. Per questo aveva cercato di scatenarne la gelosia durante la festa.

    Proseguì lungo l’ampia strada che conduceva alla stazione, incrociando di tanto in tanto altre persone ancora in giro nella notte gelida; figure oscure, avvolte nei loro cappotti, in netto contrasto con lo sfondo pallido della neve e del ghiaccio. Avvicinandosi all’entrata della stazione, notò il bagliore rosso di una sigaretta sotto l’ingresso ad arco di un negozio. Istintivamente cercò di rimanere alla larga dal fumatore. Poi sentì una voce roca.

    «Quanto vuoi?».

    Lo ignorò e accelerò il passo. Mancavano ancora un centinaio di metri per raggiungere la stazione, e con un senso di panico improvviso, si accorse che non c’era nessun altro su entrambi i lati della strada. Tra sé e sé, maledisse Dorner per non averla seguita.

    Sentì un flebile colpo di tosse alle sue spalle, e quando si voltò vide il debole bagliore della sigaretta cadere a terra, mentre l’uomo emergeva dal portico e iniziava a seguirla. Allungò il passo, ma quando aveva quasi raggiunto la stazione, si voltò di nuovo e vide che l’uomo aveva guadagnato terreno. La paura ebbe la meglio, e dopo aver iniziato a correre vide un uomo in uniforme emergere dall’ingresso della stazione.

    «Ehi!», gridò agitando un braccio mentre correva. «Lei!».

    L’uomo in uniforme avanzò lungo la strada per andarle incontro. Gerda si accorse che era un capotreno.

    «Signorina? Che succede?»

    «C’è un uomo». Indicò la strada dietro di sé, ma non c’era più nessuno, nemmeno il bagliore rivelatore della sigaretta.

    «Quale uomo?», chiese il capotreno.

    «Era lì. Mi stava seguendo».

    «Non vedo nessuno». L’uomo la fissò. «È sicura, signorina?»

    «Io…». Gerda respirò a fondo. «Lasci perdere. Non importa».

    «Non si preoccupi, signorina», ridacchiò il capotreno. «È facile confondersi in una notte buia come questa. Le persone immaginano cose d’ogni tipo. Mi creda».

    «Non ho immaginato nulla», sbottò Gerda. «Ora mi scusi».

    Lo superò a passo svelto, entrò nella stazione e si diresse verso la sala d’attesa lungo il binario diretto verso Berlino Anhalt. Le ultime braci si stavano spegnendo nella stufa in ghisa, e la sala era pervasa da un confortevole tepore. Le uniche altre persone presenti erano un uomo sovrappeso in abiti da lavoro e un’esile donna dall’aspetto fragile che Gerda immaginò fosse sua moglie. I due le rivolsero un breve cenno del capo, ma nessuna parola. Di tanto in tanto, Gerda lanciava uno sguardo fuori dalla vetrata, verso il binario, ma non c’era traccia dell’uomo che l’aveva seguita.

    Dopo dieci minuti, il treno arrivò in stazione e tutti e tre uscirono dalla sala d’attesa. Mentre i due salivano sulla penultima carrozza, Gerda si diresse verso l’ultima, accomodandosi su un sedile rivolto in senso opposto a quello di marcia. Alcune porte si chiusero con forza, un fischio riecheggiò nell’aria e i vagoni sferragliarono rimettendosi in moto. Mentre il treno si allontanava dalla stazione immerso nella notte, superando le buie periferie di Berlino, Gerda affondò nel sedile e sollevò il bordo della tendina della carrozza per scrutare nell’oscurità. Era furiosa con Dorner, e giurò che lo avrebbe riconquistato, o avrebbe fatto di tutto per vendicare il suo orgoglio ferito.

    Udì uno scatto e venne investita da un’ondata d’aria fredda, poi la porta di raccordo tra le due carrozze si richiuse. Lasciò il bordo della tendina e si voltò per guardare l’uomo che era entrato nella sua carrozza e si dirigeva verso di lei. Lo riconobbe, e spalancò gli occhi. «Tu…».

    Capitolo uno

    20 dicembre 1939

    I due, quasi cinquantenni, erano accasciati sulle poltrone davanti alla stufa nella stanza più ampia del loro bilocale. Erano morti da giorni, e la pelle dei loro volti era bianca, rivestita da una pallida lucentezza marmorea simile a quella delle perle. Entrambi erano pressoché nudi, con indosso nient’altro se non una lurida maglia e la biancheria intima. Gli altri abiti erano sparsi sulle semplici sedie di legno del salotto. Nella stufa non era rimasto altro che cenere, e la griglia di ghisa era ormai fredda al tocco. L’aria nella stanza era già gelida quando il primo poliziotto giunto sulla scena aveva sfondato la porta con un calcio. E si era fatta ancora più fredda quando la finestra era stata spalancata in tutta fretta per disperdere ogni eventuale esalazione tossica dal piccolo appartamento.

    Il sergente Kittel era in piedi accanto alla stufa. Nonostante il pesante cappotto abbottonato fino al collo, i guanti e la sciarpa, aveva freddo, e batteva incessantemente gli stivali nel tentativo di tenere caldi i piedi. L’impazienza lo stava consumando, e ogni pochi minuti estraeva il suo orologio da taschino per fissarne le lancette. L’unico rumore nella stanza era il ticchettio dell’orologio appoggiato su una stretta mensola accanto alla stufa. I rumori della strada risultavano ovattati dalla spessa coltre di neve a terra. Il sergente riusciva a sentire gli scambi tra gli altri abitanti del palazzo, sulle scale e sul pianerottolo davanti alla porta d’accesso dell’appartamento. Sospirò emettendo uno sbuffo d’aria condensata; si diresse verso lo stretto corridoio e superò la porta circondata dalle schegge di quella che un tempo era stata la serratura. Davanti all’entrata c’erano altri due poliziotti, e ancora oltre Kittel vide un gruppo di volti curiosi sul pianerottolo.

    «Denicke! Fai sparire quei ficcanaso! Non c’è nulla da vedere». Fece per voltarsi, ma si fermò. «No, aspetta. Fai restare il portinaio. Gli altri dovrebbero tornare a casa e rimanere al caldo».

    Il poliziotto annuì, ma prima di poter eseguire gli ordini, il suo superiore gli rivolse di nuovo la parola. «Si sa qualcosa degli investigatori criminali?»

    «Nossignore».

    «Mmm». Kittel mugugnò irritato. Si voltò verso l’altro poliziotto in uniforme. «Vai davanti al portone d’ingresso e tieni gli occhi aperti. Appena arriva l’ufficiale della Kripo, portalo subito qui. Prima che ci lasciamo tutti la pelle dal freddo».

    Mentre Denicke estraeva il manganello e faceva allontanare la piccola folla, il suo collega si fece largo tra gli occupanti del condominio sul pianerottolo per scendere le quattro rampe di scale e raggiungere il piano terra. Kittel fissò gli abitanti del palazzo con sguardo duro, sfidandoli a indugiare ulteriormente sul pianerottolo, ma fu lieto di notare che nessuno osò incrociare il suo sguardo, e tutti decisero piuttosto di rientrare nei rispettivi appartamenti. Provava piacere nel vederli reagire tanto docilmente all’autorità. Il potere dello Stato doveva essere indiscusso se volevano sperare di vincere la guerra.

    Non come l’ultima volta, rifletté il sergente. Aveva prestato servizio negli ultimi due anni della Grande guerra, prima di fare ritorno al caos politico che aveva investito Berlino. I rossi e i loro tumulti nelle strade, le spinte rivoluzionarie. Be’, i soldati rientrati dal fronte avevano in breve posto fine a tutte quelle sciocchezze. Aveva fatto parte dei gruppi armati che avevano affrontato i comunisti, prendendoli a manganellate e a fucilate per ripristinare l’ordine nella capitale. Non ci sarebbe stata un’altra pugnalata alle spalle. E poi, la nuova guerra era praticamente già finita. La Polonia era stata schiacciata, ed era solo questione di tempo prima che Francia e Gran Bretagna si accorgessero della futilità dell’ennesimo conflitto, quando la causa non esisteva più. La Polonia era scomparsa, inghiottita dalla Germania e dagli alleati russi. Ma se i francesi e gli inglesi avessero deciso di combattere, la vittoria per la madrepatria sarebbe stata tutt’altro che scontata.

    Kittel si strinse nelle spalle incurante, strofinandosi le mani. Qualsiasi corso d’azione i governi d’Europa avessero intrapreso, al momento c’era lo Stato di guerra. Era dovere di ogni agente tedesco assicurarsi che venisse mantenuta la disciplina.

    Tornando verso il salotto, studiò l’umile dimora dei due proprietari morti. Era un appartamento tipico, di quelli occupati dalle più povere famiglie operaie del distretto di Pankow. C’era uno spazio abitabile con una piccola cucina che dava all’esterno. Un bagno con servizi e una vasca di stagno. Due camere da letto. La più grande aveva spazio appena sufficiente per i due letti singoli, che qualcuno aveva rifatto con cura. Sullo stesso scaffale dell’orologio c’era una foto della coppia in una cornice d’argento; i proprietari erano seduti con due giovani uomini in uniforme alle loro spalle. Tutti e quattro avevano sul volto un’espressione di solenne formalità, caratteristica di quel genere di ritratti di famiglia.

    Per un attimo il cuore del sergente si ammorbidì, mentre rivolgeva un pensiero ai due soldati che a breve avrebbero ricevuto il telegramma che li informava della morte dei genitori. Tale era la feroce ironia di quei tempi; i figli erano andati ad affrontare il pericolo di proiettili, artiglieria e bombe, uscendone intatti, mentre i loro cari erano morti nella propria casa.

    Le uniche altre immagini incorniciate nell’appartamento ritraevano una semplice baita in legno su uno sfondo di montagne innevate, e l’onnipresente busto del Führer, mano sul fianco e lo sguardo imperscrutabile rivolto fuori dalla cornice.

    Kittel udì un’automobile accostare in strada. Si avvicinò alla finestra aperta e vide il tettuccio e il cofano neri di un’auto di servizio della polizia riservata agli ufficiali. La portiera anteriore del passeggero si aprì e un uomo con indosso un cappotto grigio scuro e un cappello di feltro nero mise piede in strada, ormai priva di curiosi. Si chinò all’interno per dire qualcosa all’autista, poi chiuse la portiera e alzò lo sguardo verso il palazzo condominiale, rivelando un volto esile. Il suo sguardo incrociò quello del sergente alla finestra. Il poliziotto in attesa all’entrata del palazzo si avvicinò, e il nuovo arrivato chinò il capo in risposta al saluto rivoltogli. L’agente lo accompagnò verso l’entrata del condominio e insieme percorsero il vialetto, scomparendo poco dopo alla vista del sergente.

    L’ufficiale della Kripo impiegò più di quanto Kittel avesse previsto a salire le scale, e quando l’investigatore criminale superò il pianerottolo ed entrò nell’appartamento notò l’andatura lievemente zoppicante. E il respiro pesante. Come gli altri poliziotti, indossava un pesante cappotto, una sciarpa, il cappello e i guanti, ma mostrò una certa schiettezza professionale quando estrasse il cordino che aveva al collo per esibire il suo distintivo metallico. Su un lato era rappresentata un’aquila appollaiata su una svastica e circondata da una corona di foglie di quercia. Sull’altro era incisa la parola Kriminalpolizei e il numero identificativo del proprietario.

    «Ispettore criminale Schenke, distretto di Pankow», annunciò il nuovo arrivato con un brusco cenno del capo. Il sergente rispose allo stesso modo, come a valutare l’uomo che aveva davanti. L’ispettore aveva spalle larghe, sebbene il corpo sotto lo spesso cappotto apparisse meno robusto. Il suo volto scarno sarebbe potuto appartenere a un uomo con un’età compresa tra i venticinque e i quarant’anni.

    «Sergente Kittel, stazione di Heinesdorf».

    «Ha scelto un mattino freddo per farmi chiamare, sergente». Schenke accennò un sorriso, facendo intendere al suo interlocutore di non essere del tutto privo d’umorismo. «Ma in fin dei conti, con questo tempo, tutte le mattine sono fredde».

    L’inverno aveva investito duramente Berlino. La temperatura era calata sotto lo zero una settimana prima, continuando a scendere nei giorni successivi. Le rigide condizioni meteorologiche erano state accompagnate da una violenta tempesta che aveva ricoperto l’intera città con più di venti centimetri di neve. Alcuni quotidiani già avevano segnalato che sarebbe stato uno degli inverni più freddi degli ultimi decenni. Sarebbe stata una pessima notizia anche in tempi più tranquilli, pensò Schenke, ma con una guerra in corso, il rigido inverno non faceva che sommarsi alle difficoltà del razionamento, alla penuria di carbone e al blackout che avvolgeva la città dopo il tramonto.

    Dal tardo pomeriggio all’alba, le strade venivano inghiottite dall’oscurità, e i berlinesi erano costretti a raggiungere le proprie destinazioni a tentoni. Al di là dell’inconveniente, c’era il pericolo di collisione con i veicoli in strada, di inciampare sul marciapiede o di cadere per le scale. E al tempo stesso, il buio forniva maggiori opportunità ad altre categorie di cittadini; ad esempio, era meno probabile che le prostitute attirassero l’attenzione della polizia e delle ronde della gioventù hitleriana. Ma l’oscurità offriva anche una copertura perfetta ad attività più sinistre. Furti, aggressioni e omicidi erano aumentati significativamente dall’inizio della guerra, appena quattro mesi prima. Ogni notte la capitale si trasformava in un luogo oscuro e pericoloso, e chi si avventurava per le strade si guardava attorno con circospezione per paura della violenza che avrebbe potuto colpire da un vicolo buio o da sotto un portico.

    «Cos’abbiamo qui? Mi è stato detto solo che ha trovato dei cadaveri».

    «Sissignore. Due. Rudolf e Maria Oberg. Da questa parte». Kittel si scansò per lasciare entrare l’ispettore nel salotto, poi lo seguì nella stanza. I due si posizionarono ai lati della stufa, rivolti verso i corpi. Schenke osservò prima l’uno e poi l’altro, studiò i vestiti sul pavimento e il resto della piccola stanza.

    «Che informazioni ha raccolto, finora?».

    Il sergente estrasse il taccuino e armeggiò con le dita guantate per aprirlo, per poi iniziare a leggere gli appunti.

    «Ieri un vicino è venuto alla stazione segnalando che Oberg non andava al lavoro da una settimana. I due uomini fanno gli stessi turni alla fabbrica Siemens. La moglie del vicino è la portinaia del palazzo. Le ho detto di aspettare fuori. Ieri ha bussato alla porta ma non ha ricevuto risposta, quindi suo marito si è rivolto a noi. Stamattina presto il comandante della stazione ha mandato me e i ragazzi a dare un’occhiata. Quando non abbiamo ricevuto risposta dall’appartamento, abbiamo provato ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Ho dato l’ordine di sfondarla. Abbiamo trovato gli Oberg come li vede ora».

    Schenke si chinò per ispezionare più da vicino i cadaveri. «E avete deciso di coinvolgere la Kripo? Per quale motivo?».

    Kittel inarcò un sopracciglio e gesticolò verso gli abiti sparsi sul pavimento. «Se crede che quelli non siano sospetti, allora non so cosa possa esserlo, signore. Chi si toglie gli abiti di dosso con temperature simili?»

    «Già. La finestra era aperta quando siete entrati?»

    «No. Il fermo era aperto, ma la finestra era chiusa e bloccata dal ghiaccio. È servita una bella spinta per spalancarla. Il mio primo pensiero è stato che possano essere stati soffocati dai fumi della stufa. Da quando è iniziato l’inverno ci sono state molte segnalazioni di morti simili».

    Schenke gli lanciò un’occhiata. «Ma…?»

    «Ma hanno la pelle molto pallida, e ci sono segni di assideramento sulle dita e sui piedi. Se si fosse trattato di morte da esalazioni, le loro guance sarebbero visibilmente arrossate, signore».

    «Già». L’ispettore si chinò tra le due poltrone e iniziò a esaminare la donna. Aveva i capelli neri raccolti in una crocchia, e la posizione ingobbita metteva in evidenza il suo doppio mento. Aveva gli occhi chiusi e l’espressione pacifica, come se si fosse addormentata. Il marito, al contrario, era seduto con la schiena eretta, le braccia esili strette attorno alle ginocchia nude. Il volto era contorto, le labbra contratte in una smorfia, gli occhi strizzati. Aveva una chierica di capelli grigi, e sulla nuca era ben evidente un taglio e una striscia di sangue rappreso.

    «Se non sono state le esalazioni, allora cosa crede che sia successo qui, Kittel?».

    Il sergente sembrò a disagio.

    Schenke si accorse dell’imbarazzo dell’uomo, che apparentemente non voleva complicare l’indagine con ipotesi più complesse. Ma era compito di ogni poliziotto prendere in considerazione tutte le possibilità. «Avanti, sputi il rospo».

    «Potrebbe trattarsi di un furto. Ci sono ancora degli zingari a Berlino, signore. E sa come sono fatti. Sono feccia. C’è una banda locale che opera intorno al vecchio magazzino Siemens. Quei ladri bastardi ci tengono sempre indaffarati. Si sono verificati molti furti con scasso e aggressioni, da quando è iniziato il blackout notturno, signore».

    «Verissimo», rispose Schenke. La Kripo aveva ricevuto l’ordine di dare una mano nel ridurre le effrazioni con rapina. Gli ordini provenivano da Heydrich in persona. L’appena nominato direttore dell’Ufficio centrale di sicurezza del Reich era deciso a dimostrare ai cittadini che il regime avrebbe imposto la legge e l’ordine in modo efficace e spietato. «E crede che i ladri si siano imbattuti nella coppia, li abbiano uccisi e lasciati così. Ma perché avrebbero dovuto spogliare le vittime?»

    «Non saprei dirlo, signore».

    «No? Se i nostri ladri non fossero venuti qui solamente per quei pochi beni che avrebbero potuto sottrarre da questo appartamento, e avessero magari un movente più perverso, ci saremmo potuti aspettare di trovare la donna svestita, giusto? Ma non il marito».

    Kittel annuì.

    L’ispettore si tolse il cappello e si passò una mano tra i capelli castano chiaro. In quel momento fu più semplice per Kittel giudicarne l’età; decise che doveva avere poco più di trent’anni. Non aveva i capelli corti come chi serviva nell’esercito o nelle SS, erano tagliati in modo ordinato, ma a media lunghezza. Aveva una fronte ampia, che faceva sembrare i suoi occhi scuri più infossati di quanto non fossero in realtà. Un naso stretto terminava con labbra rivolte leggermente verso il basso. Si rimise il cappello e fece un gesto verso gli Oberg. «Non sempre i predatori sessuali puntano unicamente alle donne, sergente. Dobbiamo rimanere di mentalità aperta, non crede?»

    «Se lo dice lei, signore».

    Schenke incrociò le braccia e rifletté per un istante. «Abbiamo due cadaveri, entrambi svestiti e con questa ferita sulla nuca dell’uomo».

    «Che potrebbe essere stata inflitta nello scontro con gli zingari, o con chiunque sia stato responsabile di tutto ciò».

    «Forse», ammise Schenke. «Ma non è certo una ferita fatale, e nemmeno invalidante direi. Lo scalpo è inciso, ma quasi non c’è contusione. Vede?». Osservò la ferita da vicino, poi studiò la stanza con lo sguardo, indicando l’area di pavimento sotto lo scaffale su cui erano appoggiati l’orologio e la foto di famiglia incorniciata. «Lì ci sono alcune gocce di sangue».

    Si avvicinò ed esaminò il consunto bordo in legno dello scaffale. Una macchia scura attirò la sua attenzione, così prese una camicia da una sedia e strofinò una manica sul mobile. La macchia venne via lasciando una traccia rosso scuro sul tessuto. «Altro sangue».

    Si rimise in piedi. «Vediamo se la portinaia può illuminarci. La faccia entrare».

    «Signore?», Kittel esitò. «Dare a un cittadino ordinario accesso a una scena del crimine?»

    «Non abbiamo ancora deciso se questa sia una scena del crimine. La definizione potrebbe variare in base a quel che ha da dire la portinaia».

    Mentre Kittel usciva dalla stanza, l’ispettore si avvicinò alla finestra ed esaminò il fermo. Era vecchio e consunto e il bullone nell’imposta era allentato, così Schenke dovette fare tre tentativi prima di riuscire a sigillare la finestra. Alzò lo sguardo oltre il vetro macchiato, verso il cielo grigio segnato dalle colonne di fumo dei camini di chi aveva ancora qualche scorta di carbone da bruciare. Al di sotto della foschia, i tetti e le strade della capitale erano ricoperti da uno spesso manto di neve che avrebbe riempito il suo cuore di gioia, non fosse stato per la guerra e i due corpi nella stanza alle sue spalle.

    «Signore. Frau Glück».

    Schenke si allontanò dalla finestra, e la pallida luce esterna investì nuovamente i cadaveri. L’anziana donna si portò una mano alla bocca. «Buon Dio, salvaci!».

    Schenke osservò per un istante la reazione della portinaia, convincendosi subito della sua autenticità. Si trovava dietro il corpo dell’uomo quando le rivolse la parola. «Temo che per alcuni la salvezza non arriverà in tempo… Lei è la portinaia di questo edificio?».

    La donna continuò a fissare i cadaveri, gli occhi spalancati e il corpo tremante. Se fosse più per lo spavento o per il freddo, l’ispettore non riuscì a capirlo. Forse entrambi, ipotizzò.

    «Frau Glück?». Alzò leggermente la voce; la donna distolse lo sguardo dai cadaveri e annuì.

    «Quanto bene conosceva gli Oberg? Li considerava amici? Semplici vicini?».

    Prima di rispondere, la donna deglutì. «Di tanto in tanto ci fermavamo a chiacchierare. Tengo sempre d’occhio chi va e viene da queste parti. Mio marito è il capoisolato di questa strada. È nostro compito tenere d’occhio le persone».

    «Certo». Schenke aveva regolarmente a che fare con funzionari minori del partito. Erano un’utile fonte di informazioni. Ma spesso fin troppo ficcanaso, e inclini a sfruttare la loro scarsa influenza per sistemare questioni in sospeso con vicini che non andavano loro a genio. La sua repulsione istintiva per quel genere di impiccioni era alimentata dalle costanti difficoltà con il suo capoisolato, un ingegnere municipale iscrittosi al partito nazista appena due anni prima che cercava di compensare il ritardo con la massima devozione alle idee del partito. Nonostante l’antipatia di Schenke per il sistema dei supervisori di quartiere, riconosceva che potevano avere una certa utilità quando si trattava di fornire informazioni alla polizia. «Ho saputo che suo marito lavorava con Herr Oberg, è esatto?»

    «Sì… O meglio, Herr Oberg lavorava per mio marito». La schiena della donna si irrigidì appena. «Mio marito è il responsabile dei turni, sa. È per questo che ha notato l’assenza di uno dei suoi».

    «Eppure gli sono occorsi diversi giorni prima di fare qualcosa al riguardo. Un ritardo che avrebbe potuto salvare due vite».

    La donna aprì la bocca, pronta

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