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L'ultimo segreto dei nazisti
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L'ultimo segreto dei nazisti
E-book510 pagine4 ore

L'ultimo segreto dei nazisti

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Info su questo ebook

«Un thriller dal ritmo incalzante.»
The Sun

Un grande thriller

Berlino, 2015. L’ex comandante delle SS Werner Stolz viene trovato morto. Per oltre settant’anni ha custodito l’ultimo grande segreto del regime nazista, una scoperta scientifica in grado di cambiare gli equilibri del mondo. Per cercare di interpretare il complesso puzzle che il vecchio nazista ha lasciato dietro di sé, viene chiamato un team di esperti internazionali guidato dallo storico militare Myles Munro. Ma proprio quando sembrano essere sulla strada giusta, il brutale assassinio di un membro della squadra rivela che Munro e i suoi compagni non sono gli unici in cerca di risposte. Improvvisamente al centro di intrighi e azioni di spionaggio internazionale, Myles ha a disposizione solo le sue conoscenze e l’istinto per sopravvivere. Più passa il tempo però e più diventa chiaro che nella squadra c’è un traditore… Riuscirà Munro a svelare i misteri del passato prima che sia troppo tardi? Un thriller ad alta tensione, congegnato con un’abilità degna dei migliori maestri del genere.

Un bestseller internazionale
Un ex comandante delle SS ucciso 
Un segreto sepolto per settant’anni

«Agenti nell’ombra, killer squilibrati, una vasta cospirazione. Un rompicapo dal ritmo incalzante.»
The Sun

«Un thriller pieno di azione. Se vi piace Dan Brown, vi godrete fino alla fine anche questo libro.»
Crime Book Club

«Un libro straordinario e agghiacciante. Un mix pazzesco e uno stile coinvolgente.»
Sam Kiley, Sky News
Iain King
È un giornalista e scrittore britannico. Ha lavorato in numerose zone di guerra, tra cui i Balcani, il Sudan, l’Iraq. Nel 2013 è stato nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero britannico, una tra le onorificenze più importanti nel Regno Unito, per i servizi prestati in Libia, Afghanistan e Kosovo.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2017
ISBN9788822704986
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    Anteprima del libro

    L'ultimo segreto dei nazisti - Iain King

    Divina

    1483

    Titolo originale: Secrets of the last Nazi

    © 2015 by Iain King

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Annalisa Rinetti

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0498-6

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    www.newtoncompton.com

    Iain King

    L’ultimo segreto dei nazisti

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Tutti i riferimenti a latitudine e longitudine riportati ne L’ultimo segreto dei nazisti sono reali e si possono verificare sul sito della NASA. Gli eventi storici riportati sono realmente accaduti nelle date menzionate nel libro. Il rapporto tra gli eventi naturali e le vicende umane spiegato in questo libro è veritiero.

    Per quanto un individuo possa essere debole,

    nel momento in cui agisce in armonia con il Fato,

    diventerà più potente di quanto si possa immaginare.

    Adolf Hitler, Norimberga, 1936

    Alla vera Helen Bridle

    Indice

    Prologo

    SETTANT’ANNI DOPO GIORNO UNO

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    GIORNO DUE

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    GIORNO TRE

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    GIORNO QUATTRO

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    GIORNO CINQUE

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    GIORNO SEI

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    GIORNO SETTE

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Epilogo

    I DOCUMENTI DI STOLZ

    Una lettera da Iain

    Prologo

    9 luglio, 1945

    Guarnigione dell’esercito americano di Garmisch,

    Hotel Edelweiss Garmisch-Partikirchen, Germania del sud

    Il capitano Werner Stolz delle SS osservava il caporale Bradley che gli stava portando il caffè. Guardò il suo inquisitore, lo ringraziò per la bevanda e ne bevve un lungo sorso.

    Bradley gli si sedette di fronte, diede un’occhiata all’orologio e cominciò un conto alla rovescia mentale. Attese per circa un minuto, permettendo al nazista di mettersi a proprio agio, prima di ricominciare a interrogarlo. «Bene, Werner» gli domandò con gentilezza, «come funziona?».

    Stolz rimase impassibile. Bevve un altro lungo sorso di caffè, il cui gusto gli parve insolito, ma lo ingoiò ugualmente.

    «Per favore, Werner» insistette Bradley. «Me lo dica».

    «Cos’altro posso dire?» rispose il nazista con un’alzata di spalle. I suoi occhi fissarono beffardamente l’americano, si diressero verso il giovane russo che stava scarabocchiando in un angolo della stanza e poi tornarono a fissare Bradley. «Mi spiace molto, caporale, veramente non ho altro da aggiungere».

    Il caporale Bradley si tolse gli occhiali, si ravviò i capelli sul cuoio capelluto sudato, poi sfogliò un’altra volta i suoi appunti; si voltò verso il suo ufficiale di collegamento sovietico e chiese: «Qualche idea, Kirov?».

    Kirov posò la matita, si voltò e guardò il nazista. «Gli americani ti stanno trattando fin troppo bene, Stolz» disse il russo sorridendo. «Potrebbero trattarti molto peggio».

    «Lo so…». convenne Stolz, cercando di eliminare ogni traccia di arroganza dal suo accento austriaco «…e so anche che nessuno di voi due mi farà del male».

    Bradley si portò le mani al viso, poi diede un’occhiata al suo orologio, constatando che mancavano meno di tre minuti. Avrebbe dovuto adottare una nuova tattica.

    «Molto bene, Stolz» azzardò l’americano. «Visto che lei sembra avere tutte le risposte, cosa succederà adesso?».

    Stolz guardò con simpatia il suo inquisitore e parlò stringendo la tazza di caffè con entrambe le mani. «Lei non potrà chiudere l’indagine fino a quando non saremo morti entrambi, il che accadrà fra settant’anni. Sarà un’indagine internazionale…».

    «Un momento» lo interruppe Bradley, «vuol dire che vivrò per altri settant’anni?»

    «Ho detto che fra settant’anni saremo entrambi morti» chiarì Stolz, dondolandosi sulla sedia.

    Bradley cercò di interpretare ciò che aveva appena udito, sperando di avere più tempo a disposizione. «Intende dire che uno di noi due camperà per altri settanta anni?»

    «Sì», sussurrò Stolz mentre crollava sul tavolo. «Il mio inglese è carente. Volevo dire che uno di noi due morirà oggi…».

    Stolz dava segni di cedimento. Bradley cercò di sostenerlo, sperando di aver abbastanza tempo per fargli ancora una domanda, ma il nazista iniziò a collassare. La sedia sulla quale Stolz era seduto barcollò e il caffè gli si rovesciò addosso mentre cadeva per terra.

    Bradley si piegò a tastare il polso del suo prigioniero. Stolz era stato troppo sensibile alla scopolamina. Bradley si assicurò che la SS semi-cosciente potesse respirare e guardò nuovamente il suo orologio: in qualche modo aveva sbagliato i conti.

    Stava per andare a prendere dell’acqua per Stolz, quando la porta si aprì. Entrò un uomo dall’aria distinta e con dei baffi brizzolati. Bradley non aveva mai visto prima quell’ufficiale, né lo stemma del suo reggimento, ma vide che indossava una divisa immacolata e ben stirata, segno evidente che era arrivato nell’Europa liberata da poco. Poi vide la stelletta di metallo sulle spalline: le mostrine di un generale di brigata americano. Bradley scattò sull’attenti.

    «Riposo, caporale».

    Bradley si rilassò quel poco che gli permise di buttare un’occhiata verso Stolz, che stava tossendo e sputacchiando sotto il tavolo.

    Il generale di brigata intelligentemente ignorò il prigioniero nazista. «E così lei è Bradley, quello che scrive le lettere», sogghignò il generale, mentre camminava intorno alla sedia rovesciata. «È arrivato da poco nell’esercito, vero?»

    «Signorsì, signore».

    «Mi dica, Bradley…» il generale diede una occhiata a Stolz, che si stava contorcendo sul pavimento, prima di rivolgersi nuovamente al caporale, «cosa faceva prima della guerra?»

    «Insegnante in una scuola superiore, signore» rispose Bradley. «Matematica, signore».

    Il generale fece una breve pausa prima di rispondere. «Bene, Bradley». La voce del generale era rilassata, quando finalmente guardò Bradley negli occhi. «Avremo bisogno di matematici ora che la guerra è finita… la guerra contro i nazisti…». Poi sollevò i fogli degli appunti di Bradley, parlando con se stesso e pensando ad altro. «E questi sono gli unici appunti che ha sull’interrogatorio di Stolz?»

    «Ci sono anche due cassetti pieni. Nella camera adiacente, signore» rispose il caporale.

    «Però è tutto. Tutto ciò che ha si trova in questo edificio?»

    «Signorsì, signore».

    Il generale accettò la risposta di Bradley e posò i fogli che stava esaminando.

    Bradley stava per spiegare il motivo per cui l’interrogatorio di Stolz rivestiva tanta importanza, quando venne distratto dal generale, che si stava sistemando l’uniforme; sembrava che si stesse sbottonando la giacca.

    Garbatamente il generale lo scansò mettendolo di lato: inarcò le sopracciglia e si rivolse al russo che stava nell’angolo: «E lei dovrebbe essere il tenente Kirov?».

    L’ufficiale di collegamento sovietico cominciò ad annuire. Poi, come Bradley, reagì al rumore di un doppio colpo metallico e una specie di colpo di tosse meccanico sommesso. Il corpo di Kirov si contrasse brevemente, poi cadde sul pavimento.

    D’istinto Bradley si mosse velocemente verso l’amico, ma si rese immediatamente conto che al russo non serviva più il suo aiuto. Kirov era caduto a faccia in giù ed era completamente immobile; un rivolo di sangue gli stava uscendo da sotto lo stomaco. Poi vide che il generale aveva in mano un’arma munita di un lungo silenziatore.

    «Non vogliamo investigare su cose inutili, vero Bradley?».

    Il generale guardò Bradley fisso negli occhi, mentre riponeva la pistola nella fondina nascosta, poi mosse la mano per eliminare l’odore di olio per armi e di cordite.

    «Signorno, signore».

    «E noi non vogliamo nemmeno che i nostri alleati ne debbano sopportare il peso. Capito?»

    «Signorsì, signore» rispose Bradley obbedientemente. Si inginocchiò per sostenere il corpo di Stolz, ancora caldo, non appena il prigioniero nazista cominciò a muoversi sul pavimento.

    Il generale indietreggiò impettito verso la porta, facendo attenzione mentre girava intorno a Kirov. Prese gli appunti del russo scritti a matita, li ripulì dalle macchie di sangue e se li mise in tasca.

    «Ah, Bradley…».

    «Signore?»

    «La prossima volta un po’ di scopolamina in meno nel caffè», lo ammonì, lisciandosi l’uniforme. «Vogliamo che il nazista vomiti i suoi segreti, non la sua anima».

    Il generale se ne andò, richiudendosi la porta alle spalle. Bradley non lo vide mai più.

    SETTANT’ANNI DOPO

    GIORNO UNO

    Capitolo 1

    Altersheim Sonnenuntergang (Casa di riposo Tramonto) Potsdam,

    nei pressi di Berlino, Germania

    2:12 ora locale (1:12 ora di Greenwich)

    Werner Stolz chiuse leggermente gli occhi per vedere meglio attraverso le lenti del telescopio. La sua vista menomata aveva ridotto l’immagine a due spicchi sfuocati, ma erano sicuramente pianeti e stavano esattamente dove dovevano essere: insieme, a ovest appena sopra l’orizzonte.

    Era la conferma. Distolse gli occhi dal telescopio, ma sapeva che ciò che aveva visto non sarebbe sparito.

    Seduto da solo e al buio, rimosse il segnalibro dalle sue effemeridi e lo richiuse.

    Lentamente, allungò la mano verso la lampada sul tavolo. Appena la luce si accese, Stolz si vide nello specchio. Le ombre facevano apparire sempre più profonde le rughe sul suo viso. Con solo un lato del viso illuminato, la sua immagine era divisa in due. Un lato era marcato da rughe, l’altra metà restava oscurata.

    Conosceva quella faccia da centotré anni; l’aveva vista crescere, maturare e appassire. Ora la testa aveva perso i capelli e la pelle il suo colorito.

    Solo i suoi occhi erano rimasti pieni di vita. Guardavano in cagnesco verso di lui per l’ultima volta: erano riusciti a mantenere molto bene entrambi i suoi segreti.

    Alzò gli occhi verso le foto incorniciate sulle pareti. Una era di quando la Germania stava vincendo la guerra: il giovane Stolz, con la nuova uniforme delle SS e un ghigno arrogante. Poi un’altra, scattata qualche anno più tardi, subito dopo essere stato rilasciato dall’esercito degli Stati Uniti. Stolz appariva molto più magro.

    E una terza foto del giorno in cui era andato in pensione, anche se ancora giovane, scattata mentre stappava una bottiglia di champagne con indosso una camicia anni Sessanta. Parecchie volte si era chiesto se avesse fatto bene a ritirarsi così presto. Avrebbe potuto guadagnare molto di più. Ma ogni volta che ci pensava, arrivava sempre alla stessa conclusione: si era ritirato esattamente al momento giusto. Andare in pensione era stato l’unico modo per poter mantenere i suoi due segreti. Se avesse cercato di vincere troppo, avrebbe perso tutto.

    Stolz cercò di schiarirsi la gola, ma invece iniziò a tossire pesantemente. Si batté leggermente sul petto per cercare di fermare lo spasmo. Poi attese che il suo corpo si rilassasse e si calmasse completamente.

    Ascoltò attentamente per accertarsi che non ci fosse nessuno fuori dalla porta.

    Almeno non ancora.

    Facendo attenzione a controllare il suo respiro, Stolz girò la base della lampada da tavolo. La scatola delle pillole era ancora lì. La prese e passò il pollice sopra il coperchio di smalto.

    Si ricordò di quando la ricevette, davanti al Reichstag, lo stesso giorno in cui il centro della capitale era stato coperto per la prima volta dal fuoco dell’artiglieria. Altri rabbrividirono allo scoppio delle bombe intorno a loro, ma lui sapeva che sarebbe stato al sicuro.

    Ora, anche solo tenere in mano quel piccolo contenitore gli dava un senso di piacere. Lo ispezionò. Nessuno avrebbe più fabbricato un coperchio come quello. Il disegno era antico e la croce che vi era impressa sopra, una piccola svastica, era stata dichiarata fuorilegge nella nuova Germania. La piccola svastica apparteneva a un’epoca ormai superata.

    Proprio come lo stesso capitano delle SS Werner Stolz.

    Notò un po’ di ruggine lungo il bordo e la grattò via un po’ deluso. Come un’eco del fato del Reich, anche la latta non sarebbe durata per migliaia di anni. La guerra aveva costretto la sua grande nazione a produrre dell’acciaio che non durava nel tempo.

    La Germania sarebbe ritornata nuovamente grande e anche molto presto.

    Sapeva esattamente quando – giorno, mese e anno – e come, ancora una volta, sarebbe diventata leader in Europa.

    Si augurava di poter essere ancora in vita quel giorno, ma sapeva che sarebbe stato molto improbabile.

    Stolz strinse saldamente la scatola con le dita, alzò il coperchio e con tutta la sua forza e la sua immensa determinazione ci riuscì.

    Diete un’occhiata all’interno e fu turbato nel vedere che il liquido contenuto della fialetta di vetro sigillata non era più limpido, ma era diventato di un color marroncino opaco e scuro.

    Avrebbe ancora funzionato? Si chiese, mentre prendeva la fialetta e la faceva rigirare sul palmo della mano.

    Poi si ricordò delle effemeridi, del computer, del telescopio…

    Sì, avrebbe funzionato.

    Tremando, portò la fiala alla bocca. Con molta attenzione la mise tra i denti e chiuse le labbra.

    Stolz spense la luce e attese di sentire il rumore dei passi che sapeva sarebbero arrivati.

    Capitolo 2

    Imperial War Museum, Londra, Regno Unito

    7:25 ora locale

    Myles non si girò per vedere il modellino delle trincee, completo di passerelle di legno, fango finto e odori artificiali. Le mitragliatrici d’epoca, sia tedesche che inglesi, che avevano contribuito alla carneficina della Grande Guerra, non gli facevano alcun particolare effetto. Ignorò anche lo Spitfire appeso sopra la sua testa, il carro armato tedesco Jagdpanther e le V1 e V2, le cosiddette armi miracolose utilizzate da Hitler nel suo disperato ultimo mese di guerra.

    Apparteneva ormai tutto alla storia, a un’immagine antiquata della guerra in qualche modo anche ingannevole. La guerra non assomigliava per niente a tutto ciò, come diceva sempre ai suoi studenti durante le lezioni di uno dei corsi più frequentati di alcune università di Oxford.

    Myles lo sapeva. C’era stato.

    Perfino la guerra fredda era stata snaturata. Il confronto tra le due superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, non era ciò che la maggior parte della gente diceva che fosse. Myles si spostò verso destra oltre i grandi poster che mostravano le scene del 1989, mentre il Muro di Berlino veniva abbattuto sotto i riflettori delle televisioni. Congelati nel tempo, alcuni volti stavano festeggiando, sotto l’occhio vigile della polizia della Germania Est, non credendo ancora che l’impossibile si fosse avverato.

    L’unica scena che non riuscì a ignorare era anche quella più inquietante: un fotografia sbiadita, ingrandita su un ampio schermo, che mostrava un burocrate di fronte a una coda di rifugiati ebraici. L’uomo era seduto a una scrivania, mentre registrava le informazioni delle famiglie appena scese dai carri bestiame. Il burocrate e i suoi documenti erano tenuti sotto controllo. I rifugiati stringevano tra le mani le loro valigie e i loro oggetti più preziosi ed erano protesi verso l’uomo seduto al tavolo, nel tentativo di aiutarlo con delle informazioni, ignari che quelli sarebbero stati gli ultimi momenti della loro vita.

    Myles scosse il capo con disgusto, imprecando contro i burocrati, poi continuò a camminare. Non era venuto per curiosare, ma per aiutare Frank, il suo vecchio amico di università che conosceva da circa venti anni.

    Con il piede Myles tenne aperta la porta di vetro mentre trasferiva all’interno l’ultima scatola di cartone. «Quando arriverà il pubblico?»

    «Alle dieci» rispose Frank. «Abbiamo ancora tempo».

    Myles annuì, mentre passava attraverso l’ingresso principale. «Al piano di sotto con tutto il resto?»

    «Sì, grazie. Verrò con te».

    Con Frank che zoppicava dietro di lui, Myles scese giù per la scala di metallo, facendo attenzione a chinare la testa sotto la trave. Il passaggio pedonale del museo era stato progettato per bambini, non per docenti universitari alti. Frank indicò un mucchio di altre cose e Myles vi pose accanto la scatola.

    «Bene, Myles» disse Frank, battendo sulla scatola con il suo bastone da passeggio. «Questa è l’ultima».

    Insieme fissarono la catasta di cartone: mezza vita in meno di tre scatole.

    «Veramente, questo è tutto?»

    «È tutto ciò che ho potuto salvare prima di affondare, ma il lato positivo è che se fossi stato addormentato quando la mia casa galleggiante ha iniziato a imbarcare acqua, io sarei potuto annegare». Frank cercò di ridere, ma la risata uscì fiacca.

    «Frank, sei sicuro che al museo non dispiaccia di non poter utilizzare il loro spazio?», gli chiese Myles.

    «Spero proprio di no. Sono il sovrintendente, e qualora mi dovessero licenziare, chiederò consiglio a te…». Dopodiché l’espressione sul viso del sovrintendente cambiò, come se gli fosse venuto in mente un altro pensiero. «In effetti, adesso che ci penso…». Cominciò a zoppicare lungo il corridoio sotterraneo, guardando le etichette sulle quali era scritto ciò che si trovava in ogni contenitore. Si fermò davanti a un armadio alto con l’etichetta Terrorismo – UK, poi salì su un piccolo sgabello per recuperare una fila di scatole. Richiamò Myles: «Ce l’abbiamo ancora da qualche parte…».

    Myles si passò le dita della mano sulla fronte. Non voleva. «Va tutto bene, Frank. L’ho già visto in passato».

    Ma Frank aveva già tirato fuori la cartellina. Zoppicando scese dalla scala e aprì il giornale mentre si dirigeva verso Myles.

    Anche dopo tutti questi anni, era come se il titolo di prima pagina gli urlasse contro.

    Myles Munro: disadattato docente militare di Oxford e terrorista in fuga.

    Frank stava sorridendo. «Visto? Abbiamo ancora svariati documenti di guerra!». Fece una pausa con un mezzo sorriso, rendendosi conto di aver appena fatto una battuta triste. Poi ripiegò il giornale e accarezzò Myles sulle spalle, capendo che avrebbe dovuto cambiare argomento. «Hai recuperato molto bene. Veramente impressionante».

    Myles non rispose. Impressionante non era certo una cosa che gli interessasse.

    Frank gli diede una lieve spinta. «Dai, come sta andando il resto?».

    Myles chinò il capo lievemente da un lato. «Prevedibile, a volte».

    «Prevedibile in positivo, o prevedibile in negativo?».

    Myles si fermò per formulare meglio i suoi pensieri e tentò di chiarire. «La maggior parte delle persone ha delle idee ben precise; credono che la storia militare significhi semplicemente Hitler. Anche le menti più aperte non sempre sono ricettive a qualcosa che vada troppo al di fuori degli schemi».

    «Quindi stai cercando qualcos’altro, Myles?»

    «Forse», rispose Myles. «Non proprio assiduamente…». Myles era distratto dalle ampie volte che incombevano sopra di loro.

    «E così, cosa sta pianificando per il futuro l’Imperial War Museum?».

    Vide il suo vecchio amico entusiasmarsi: «La mia nuova mostra: La guerra e il mondo naturale».

    Myles corrugò le sopracciglia. «Interessante…».

    «Verrà fatta in collaborazione con il Museo delle Scienze, ovviamente, per bambini», spiegò Frank. «Cerchiamo di dimostrare come gli eventi naturali abbiano un forte impatto sulle guerre». Frank si incamminò zoppicando e guidò Myles verso un display mezzo finito intitolato La seconda guerra mondiale e la Luna. Poi gli diede un volantino da leggere.

    Myles rimase impressionato. «Sembra piuttosto divertente».

    «Sì, e la mostra va indietro nel tempo fino ad arrivare ad Alessandro Magno. L’eclisse prima della sua battaglia più importante era un presagio che l’Impero di Persia sarebbe stato sconfitto e così fu!».

    Myles sorrise, conquistato solo parzialmente, ma permise a Frank di continuare. «E non successe solo nell’antichità», puntualizzò Frank. «Le Crociate, la guerra di Corea, perfino la prima guerra mondiale cominciarono con un eclisse. Lo sapevi?»

    «No, non lo sapevo».

    «È vero! Era l’agosto del 1914, il giorno in cui le truppe tedesche e inglesi si scontrarono per la prima volta, e il centro dell’eclisse fu esattamente dove ebbe luogo la prima grande battaglia. E molto probabilmente fu lo scontro più importante di tutta la guerra». Frank sollevò il suo bastone verso una mappa dell’Europa.

    «La battaglia di Tannenberg?»

    «Esatto, e anche la terza guerra mondiale cominciò con un’eclisse».

    Ora Myles era certo che il suo amico lo stesse prendendo in giro. «Non c’è ancora stata la terza guerra mondiale».

    Frank ridacchiò. «No, ma ci siamo andati vicino. Ti ricordi nel 1999, quando il comandante della NATO ordinò alle sue truppe di prendere l’aeroporto principale del Kosovo, quello in mano ai Russi? L’attacco non ebbe luogo unicamente perché un subalterno si rifiutò di obbedire perché non voleva provocare la terza guerra mondiale. Be’, ho scoperto che il centro della grande eclisse avvenuta nell’estate del 1999 distava solo poche miglia da… indovina… dal Kosovo!».

    Myles guardò il suo amico di traverso, chiedendosi se Frank prendesse le eclissi troppo seriamente. Frank non lo notò; era troppo preso dalla sua teoria.

    «E ci fu anche un’eclisse parziale di sole esattamente sopra l’Islanda nell’ottobre 1986, quando Reagan e Gorbaciov tennero il loro grande summit. Alcuni dicono che fu il summit che mise fine alla guerra fredda. Lo sapevi?».

    Myles non rispose, si stava rendendo conto di quanto il suo vecchio amico fosse diventato ancora più stravagante con il passare degli anni. Cercare di dare una spiegazione al movimento dei corpi celesti non era un buon segno.

    Tic

    Il debole rumore metallico giunse da lontano, all’interno del corridoio. Si guardarono l’un l’altro sorpresi.

    Entrambi rimasero in silenzio per un momento.

    Frank si strinse nelle spalle, ma Myles non poteva fare finta di niente. Si avviò verso il punto da cui era arrivato il rumore, prima camminando, poi quasi di corsa lungo il corridoio sotterraneo, verso una zona non perfettamente illuminata.

    Si fermò per ascoltare nuovamente.

    Niente.

    Il suo istinto lo stava sconcertando. Rimase immobile, cercando di capire cosa avesse provocato il rumore, poi si chiese se se lo fosse solo immaginato. Stava per tornare indietro, quando vide una scatola per documenti vuota sul pavimento.

    La prese e chiamò Frank. «Era tua questa?».

    Frank fece cenno di no con la testa.

    Myles guardò l’etichetta sul classificatore vuoto. Interviste sulla de-nazificazione, 1945 – scatola n. 4.

    In qualche modo doveva essere caduta a terra, anche se non riusciva ancora a spiegarsi perché fosse vuota.

    Sbirciò nel buio, in cerca di una mensola con un po’ di spazio.

    C’era qualcosa che non quadrava. Le mensole erano in disordine, come se qualcuno avesse rovistato nell’archivio. Ma c’era anche dell’altro.

    Myles si fermò, impietrito nel sentire dei rumori vicino a lui.

    C’era qualcuno.

    Sbirciò nel buio, cercando qualsiasi cosa potesse trovare, qualsiasi cosa che sembrasse fuori posto.

    Poi li vide: un paio di occhi.

    Occhi pieni di paura.

    Stavano guardando proprio verso di lui. Improvvisamente saltò fuori un uomo, che si buttò contro Myles facendolo cadere sul pavimento, mentre degli schedari piovevano sulla sua testa.

    Vide l’intruso scappare via stringendo qualcosa tra le mani. Si stava dirigendo verso la scala.

    «Frank, fermalo!» gridò Myles.

    Ma Frank era troppo scioccato per poter reagire. Il ladro gli passò davanti fuggendo.

    Con uno scatto Myles si rimise in piedi e cominciò a inseguirlo lungo il corridoio, risalendo la scala metallica del museo facendo tre scalini alla volta. La sua goffaggine lo fece inciampare, ma si riprese subito.

    Myles oltrepassò l’esposizione delle trincee, chinandosi sotto la trave mentre correva su per la scala principale andando verso il piano terra.

    Sentiva Frank dietro di sé che gli diceva: «Chiamo la polizia…», ma non c’era tempo per farlo.

    Myles inciampò nuovamente mentre stava per raggiungere la cima della scala, cadendo sulla superficie lucida del corridoio principale. Si rialzò alla svelta.

    Osservò rapidamente le varie esibizioni: razzi, jeep dell’esercito americano, carri armati, display informativi, un sottomarino… Il museo era pieno di nascondigli.

    Poi udì un rumore di ferraglie: le porte esterne.

    Myles si girò e vide la porta di uscita che si stava ancora muovendo, il ladro doveva esservisi gettato attraverso e stava fuggendo.

    Myles schivò un contenitore per le donazioni posto vicino all’ingresso e si aggrappò alla pesante porta di vetro che gli si era riaperta in faccia, rallentandolo. Finalmente raggiunse il parco esterno. Poté vedere il ladro ancora una volta. L’uomo si stava allontanando sempre di più, oltre la sezione dei souvenir del Muro di Berlino, dopo il prato ben curato, verso la strada principale…

    Myles tentò di chiamarlo: «Ehi, fermati!».

    Il ladro si voltò a guardare la figura di Myles sull’ingresso del museo, con gli occhi pieni di terrore.

    Si rigirò velocemente e riprese a correre.

    Myles scattò il più velocemente possibile. Stava guadagnando terreno gradualmente. Poteva vedere lo zaino del ladro. Il giubbotto di tela. Le scarpe da ginnastica…

    Il ladro si stava avvicinando alla fine della via, costretto a rallentare mentre si avvicinava alla strada trafficata. All’ora di punta le macchine sfrecciavano troppo velocemente per riuscire ad attraversare in fretta. Myles lo aveva intrappolato.

    Vide che l’uomo si era girato per affrontarlo nuovamente, gli occhi pieni di panico continuavano a guardare in giro. Myles si stava avvicinando sempre più. Allungò le braccia per afferrarlo, ma il ladro scartò velocemente di lato e Myles inciampò perdendo nuovamente l’equilibrio.

    L’uomo si buttò nel traffico e un’utilitaria frenò quando il ladro le saltò davanti. Nuovamente in piedi, Myles girò attorno all’auto ferma. Il guidatore suonò il clacson in modo rabbioso, ma Myles proseguì la corsa, continuando la caccia al ladro.

    I loro sguardi si incrociarono nuovamente.

    In quel preciso momento, Myles sentì l’impatto di un furgone contro il suo fianco. Sentì la gamba che si piegava e il suo corpo che si contorceva. Per un attimo si sentì senza peso mentre veniva scaraventato per aria.

    Poi un dolore intenso salì per la gamba.

    Le auto si fermarono intorno a lui e si incolonnarono lungo la strada. La gente cominciò a scendere e ad andare verso di lui.

    Myles si accorse subito che la gente non era interessata a lui. Cercò di guardare attraverso la folla, attraverso le auto e anche attraverso il dolore e vide che stavano aiutando il ladro, con tecniche di primo soccorso per la sua faccia ricoperta di sangue. Nessuna cura poteva più servire.

    L’uomo al quale Myles dava la caccia era ormai morto.

    Capitolo 3

    Altersheim Sonnenuntergang (Casa di riposo Tramonto) Potsdam,

    nei pressi di Berlino, Germania

    8:45 ora locale (7:45 ora di Greenwich)

    La cameriera addetta alla colazione scoprì il corpo senza vita di Werner Stolz e non ne fu sconvolta. Era il terzo morto che trovava in tre settimane. La gente veniva qui per morire, le era stato detto, per cui ci si doveva aspettare di trovare dei cadaveri.

    Ciononostante, non le interessava guardare il corpo da vicino. Era compito dell’infermiera. Con calma suonò il campanello e rimase in attesa.

    Stolz non aveva lasciato molto, quindi non avrebbe avuto molto da mettere a posto. Sul suo tavolo c’erano alcune foto incorniciate. Fece in modo che fossero sistemate in ordine. In una riconobbe l’America e uno Stolz di mezza età che pareva godersi una vacanza. Inclinò il capo in modo da vedere le foto del giovane Stolz nella sua uniforme da militare. Sembrava anche un uomo di bell’aspetto, pensò.

    Poi vide il suo computer e il suo libro sulle efemeridi. Lo sfogliò: solo un gran numero di tabelle e numeri, con date e curiosi simboli. Il vecchio Werner doveva aver letto qualcosa di strano prima di morire.

    I suoi pensieri furono disturbati dal rumore di passi lungo il corridoio: l’arrivo dell’infermiera.

    L’infermiera fece un cenno del capo alla cameriera in segno di saluto, poi si avvicinò al corpo, si chinò e gli mise due dita sul collo per sentire se ci fossero delle pulsazioni. Era solamente una procedura di routine: il vecchio era sicuramente morto, ma lei doveva seguire la procedura, anche solo per assicurarsene.

    Poi notò il suo orecchio. Stava sanguinando. Dietro vi scorse un piccolo buco rosso scuro. Voltò il corpo di Stolz sul pavimento, rivelando così una massa ben più cospicua di fluidi sul tappeto proprio sotto di lui.

    Una pistola cadde dalla mano dell’uomo: era una vecchia Luger 7,65  mm, con un lungo silenziatore.

    La cameriera della colazione sentì il bisogno di andarsene immediatamente. «Entschuldigen Sie» si scusò, nascondendo il viso e fissando il carrello delle pulizie per evitare quella vista.

    L’infermiera le tenne la porta aperta e attese finché la cameriera se ne fu andata. Poi iniziò l’esame successivo sul corpo di Werner Stolz.

    Con calma e in silenzio, si chinò per esaminargli la bocca. Sbirciò da vicino e, come si aspettava, le labbra erano bluastre e ricoperte di schiuma bianca.

    Annuì a se stessa, confermando la sua diagnosi. Come parecchi altri uomini della sua generazione, l’ex capitano delle SS Werner Stolz aveva deciso di morire poco tempo prima della sua fine inevitabile. E come aveva preferito morire? Prendendo una pastiglia di cianuro immediatamente prima di spararsi una pallottola nel cervello, imitava il più famoso suicidio della storia: quello di Adolf Hitler.

    Fu solo quando l’infermiera stava andando via, che si accorse di un graffio sul telaio della porta. Guardò più da vicino: il segno sembrava pulito. Doveva essere stato fatto da poco. Poi vide che lo stipite della porta di metallo era stato deformato, come se la porta fosse stata forzata, come se ci fosse stata un’irruzione.

    Qualcuno era entrato senza permesso.

    Capitolo 4

    Monastero di San Simone, Israele

    10:35 ora locale (8:35 ora di Greenwich)

    Padre Samuel abbassò le ginocchia sul marmo freddo e permise al suo ampio diaframma di adagiarsi sul suo grembo. Con gli occhi chiusi, chinò la testa e tenne il rosario avvolto stretto attorno ai propri polsi. Era sicuro che non avrebbe dovuto attendere a lungo.

    Sentì che la porta della cappella si apriva emettendo un debole suono e rimase con l’orecchio teso ad ascoltare il rumore di passi in avvicinamento.

    «Padre Samuel».

    Padre Samuel terminò la propria preghiera, rimise in tasca il rosario, poi si girò e vide il viso familiare. Osservò il volto dell’uomo e pensò che le sue preghiere avevano ottenuto una risposta ancora più velocemente di quanto avesse sperato. «Allora, come sta l’ultimo nazista?»

    «Morto, padre».

    Samuel gustò la notizia, festeggiando silenziosamente dentro di sé. Poi ebbe come la sensazione che l’uomo avesse qualcosa da aggiungere. «C’è altro?»

    «Stolz si è suicidato».

    Padre Samuel fissò l’uomo, cercando di comprendere la notizia.

    L’uomo annuì lentamente, mentre Padre Samuel fece una pausa e aggrottò la fronte. «Per quale motivo un uomo che aveva già vissuto così a lungo avrebbe scelto di abbreviare la propria esistenza?». Chiuse gli occhi in contemplazione, stringendo la mascella mentre pensava. Poi fissò direttamente negli occhi l’uomo che obbedientemente stava attendendo le sue istruzioni. «Ci manca ancora qualcosa, capisce?».

    L’uomo mosse la testa in modo affermativo e uscì dalla cappella con andatura decisa.

    Padre Samuel riprese a pregare, sentendosi molto meno felice alla notizia della morte di Stolz di quanto si era aspettato.

    Capitolo 5

    Ospedale Saint Thomas, Londra

    10:45 ora locale

    L’incidente era accaduto di mattina poco prima dell’ora di punta. La A3202, la strada principale fuori dal Museo Imperiale della Guerra, una delle più utilizzate di Londra, era bloccata.

    Nel giro di un minuto, si era già creata una coda lunga più di un chilometro, fino a raggiungere il Tamigi. Parecchi degli automobilisti bloccati nell’ingorgo avevano provveduto a chiamare un’ambulanza e dopo soli quattro minuti una squadra di paramedici era sul posto.

    Myles venne visitato, caricato su una barella e portato velocemente al vicino ospedale Saint Thomas. Poi era stato sottoposto velocemente a tutta una serie di esami: raggi X, risonanza magnetica, una puntura, una flebo… Alla fine la lettiga di Myles venne spinta in una camera privata.

    Myles non si rendeva conto di niente, perché riusciva a pensare solo e unicamente al ladro. Cosa stava tentando di rubare quell’uomo? Cosa aveva di tanto importante da buttarsi in mezzo al traffico per proteggerlo?

    La porta si aprì cigolando e Frank vi infilò la testa: «Myles, mi spiace veramente tanto». Il suo viso era sudato e pieno di rimorso.

    Myles sventolò la mano: «Non devi scusarti».

    «Cosa dicono i medici?»

    «Potrebbe essere una semplice lesione ai legamenti», disse facendo cenno alla gamba. «Niente di grave, ma hanno trovato qualcosa che non va nella risonanza magnetica al cervello. Non vogliono dirmi cosa, però».

    «Se quello è l’unico infortunio che hai riportato, finirai solo con l’andare in giro zoppicando come me». Frank sollevò la sua gamba poliomielitica, cercando di fare una battuta.

    Myles sorrise, ma subito dopo sentì una fitta di dolore provenire dalla tibia.

    Frank assunse nuovamente un atteggiamento di scusa. «Faresti meglio a stare fermo», continuò. «Tra poco ti daranno qualcosa per il dolore». Frank stava per dare un colpettino sulla gamba di Myles, in simpatia, ma appena ebbe la mano a mezz’aria decise di non farlo, realizzando, assieme all’infortunato, che

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