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Terzo libro d'indaco
Terzo libro d'indaco
Terzo libro d'indaco
E-book180 pagine2 ore

Terzo libro d'indaco

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Info su questo ebook

Nel mondo dei IIII Libri d'Indaco, dove la scrittura è un segreto

per pochi e il sapere un bene più prezioso dell'oro, antichi incubi si

affacciano dalle pagine del passato e dalle sue pietre. In questo nuovo testo

la Setta dell'Unicorno Verde cerca di scoprire quale sia il vero scopo delle

azioni dei fanatici Cercatori. Intanto la paura si addensa senza causa e senza

scopo, come fosse un temporale pronto a esplodere. L'amanuense Naarua però ha

una sua ricerca da portare avanti: ritrovare la magia dimenticata. Ci proverà,

aiutata dal curatore Prisco, da dama Blu, dall'acrobata Tata e da tutti gli

altri, cani, gatti e pappagalli compresi. Scopriranno così la vera natura del

pericolo che dovranno affrontare. Lungo la via, incontreranno nuove figure:

comiche e liriche, eroiche e sfuggenti, fiabesche e orrende. All'orizzonte

intanto, portate dalle ali dei draghi, si addensano le nubi di una possibile

guerra e la ricerca si trasforma sempre più in una lotta contro il tempo.
LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2021
ISBN9791220347303
Terzo libro d'indaco

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    Anteprima del libro

    Terzo libro d'indaco - Francesca Bulgarini

    foglio I

    Torremolo

    Il santo Ustej si grattò la barba attraverso la maschera che indossava e continuò a camminare nei vicoli di Torremolo. A sud le montagne della Grande Freccia erano come giganti nell'ombra del crepuscolo. Il traghetto aveva attraccato verso l'ora del tramonto e i due passeggeri erano scesi come al solito, ma questa volta pagando il viaggio, segno che se ne stavano andando. Così il prete aveva dovuto decidere in fretta se lasciarli andare o se seguirli. Quei due emanavano corruzione e forse cose anche peggiori e lui dunque si sentiva in dovere di indagare, di scoprire che male si nascondesse dietro la loro facciata rispettabile. Il prete fece segno ai suoi due compagni di affrettarsi: i viaggiatori erano apparsi nella strada. In silenzio scivolarono fuori dal vicolo e li circondarono.

    -Ben arrivati signori. Spero non vi spiaccia dirci quali

    affari spingono un aristocratico del lontano Lagur in un porto di confine come Torremolo. La vostra presenza qui è davvero insolita.- Ustej stava alterando la propria voce. Sul traghetto un paio di volte aveva parlato al lagurese e non voleva farsi riconoscere.

    -Questo è il benvenuto che viene dato abitualmente ai viaggiatori? Li circondate nella penombra e poi li interrogate? Mi era giunto un racconto ben migliore dell'ospitalità di questa cittadina.- disse l'aristocratico. Parlava con uno strano accento, liquido e acuto, ma non sgradevole. I due erano figure che non potevano non attirare l'attenzione. Il lagurese era un giovane dai modi raffinati e dallo sguardo altero, ma sempre pronto a allungare una moneta. Indossava una ricca giubba di pelle, ricamata con degli strani motivi geometrici e inserti di pelliccia. La giubba arrivava fino al gomito e da sotto fuoriuscivano le ampie maniche di una camicia di seta. Portava i lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle, come era tipico degli uomini di quella terra. Sembrava anche disprezzare l'uso di qualunque arma, ma poteva permetterselo visto che era accompagnato da un gigante che sulla schiena, oltre ai bagagli, portava una spada. L'uomo doveva essere un servo o un mercenario, perché non parlava mai e si limitava ad ubbidire al lagurese. Ustej aveva concluso che dovesse essere uno di quei mercenari dell'Aha-Kukhni che a volte si vedevano: gente dura e violenta, con le spalle ampie e i capelli chiari, come questo.

    -Ci accontentiamo di poche risposte, la nostra

    insolenza non va certo oltre.- continuò il prete.

    Il lagurese sembrò pensarci un po': -Parole garbate da un volto che non vuole mostrarsi. Ho imparato che quando si viaggia la riservatezza è una dote preziosa, dunque temo di non poter rispondere alle tue domande. Spero che tu apprezzi la mia sincerità: potrei inventare una menzogna credibile senza grande sforzo. La nostra presenza qui è del tutto innocente: cerchiamo solo alloggio per la notte e poi ce ne andremo. Sapresti indicarcene uno rispettabile e adeguato ai bisogni di un aristocratico lontano da casa?-

    -Non ci stiamo intendendo e me ne dolgo. Mi costringete a chiedere ai miei amici di intervenire.- Ustej fece un cenno a uno dei suoi compagni. L'uomo aveva al fianco una spada e con un unico movimento la estrasse e la puntò al petto del mercenario.

    -Si direbbe un professionista. Lo paghi o ti segue? Ah, non importa.- commentò il nobile. Mentre lui parlava il gigante aveva scostato la lama come se lo infastidisse appena e poi, con una pedata ben calcolata, aveva fatto ruzzolare per terra il prete. Stranamente il suo amico si limitò a guardarlo cadere e, anzi, mise via la spada. In fondo alla strada si aprì una porta e ne uscirono delle persone.

    Il nobile parlò di nuovo: -Dato che non avete da offrirci indicazioni utili, spero non vi spiaccia se ce ne andiamo.- Detto ciò, si avviò tranquillamente verso la gente che era comparsa, accompagnato dal mercenario.

    Il prete subito si rialzò, ma il terzo uomo lo trattenne.

    -Lasciali perdere. Quello che hanno da nascondere, anche un cieco lo vedrebbe. Meglio che torniamo al traghetto, prima che loro ci denuncino al capitano del porto. Ti ha riconosciuto. Anche da incappucciato, tu parli come un prete! Non ho voglia di trovarmi contro tutti gli uomini di Torremolo. Abbiamo un incarico e non possiamo perdere tempo.-

    Ustej non gli rispose, ma si avviò verso il molo con il loro traghetto.

    Le montagne azzurre

    Le chiamano le Montagne Azzurre, ma quassù le cime bianche si guardano e si parlano come se fossero vive. Rupi, vette, ghiaioni, nevi che non si sciolgono mai: è un mondo su cui ogni mattino mi affaccio con nuovo stupore, anche se ormai sono trascorsi molti giorni da quando siamo giunti. A sera poi, come per alchimia, tutto il bianco trascolora in rosa. Viene facile dimenticare che giù in basso esiste un mondo in cui gli uomini portano avanti le loro faccende. Viene facile pensare che quelle faccende siano stupide e insignificanti. Quale fardello mi trovo a condividere, nuovo e inatteso! Davvero ora scopro quanto la mia vita alla Casa di Eda fosse piccola e protetta.

    Per i viaggiatori che giungevano da nord quelle della Grande Freccia erano le Montagne Azzurre, perché nel chiarore dell'alba apparivano loro come una lunga catena di punte azzurre e lontane. Poi, mano a mano che si addentravano tra le valli, il verde dei boschi li accoglieva e li accompagnava fino alle vette. Lì il paesaggio diventava brullo e le sassaie bianche facevano da letto alle rupi. Solo radi cespugli osavano aggrapparsi alle rocce aspre e poi i piccoli fiori d'altitudine. Quella era la terra degli stambecchi, con i loro agili zoccoli, e delle marmotte. Luco ormai si era abituato a riconoscere la sagoma tozza della marmotta di guardia sulla cima di una rupe. Se un pericolo si avvicinava, lei fischiava e allora tutte le altre marmotte scomparivano nel loro buco.

    Il ragazzo si stiracchiò al sole pigramente. Quel posto gli piaceva molto e sarebbe stato contento di poterci restare. Spesso capitava di vedere i grandi uccelli. Le marmotte avevano paura anche di quelli e quando comparivano i pastori e i cani si affrettavano a spingere le pecore in un rifugio. Sgagno allora li aiutava, ma ora che era tutto tranquillo dormiva al sole. Era stata Mya a dare quel nome al grosso cane spelacchiato. A un certo punto del viaggio la ragazza aveva iniziato a interessarsi all'animale e allora non aveva avuto più scampo. Con la sua curiosità petulante, lei l'aveva osservato, gli aveva fatto i dispetti e poi, dopo che lui le aveva rubato la cena, gli aveva tenuto una serie di lezioni di buone maniere. L'unico risultato era stato che ora il cane aveva un nome: Sgagno.

    Da sotto il cappello di paglia il giovane vide che Prisco stava tornando con il cesto pieno di erbe medicinali. Il curatore aveva i capelli più biondi che mai, perché aveva approfittato di quella pausa per tingerseli di nuovo. Luco, che aveva sempre odiato la propria testa color carota, gli aveva chiesto se potesse far diventare biondi anche i suoi, ma dama Puma si era categoricamente rifiutato.

    -Oggi le marmotte sono tranquille.- disse il giovane.

    -Sì, fino ad ora è stata una buona giornata. In cielo ci sono solo il sole e la luna d'oro, ma se non ci fosse nemmeno quella sarebbe meglio!- scherzò Prisco. Sulla sua spalla Lucrezia, la pappagallina, arruffò le penne azzurre.

    Una decina di giorni dopo il loro arrivo era apparso un drago. A dare l'allarme erano state le marmotte. Era un pomeriggio in cui c'era una coltre continua di nuvole e di certo la bestia volava di giorno perché nessuno da sotto la poteva vedere. L'oracolo di Ziria però era su una vetta che emergeva al di sopra delle nuvole, così Luco, dal suo nascondiglio sicuro, l'aveva osservato mentre planava. Il drago gli era passato davvero vicino e il giovane era rimasto senza fiato. La bestia aveva grandi ali verdi e una coda saettante, ma la pancia era coperta di lucide scaglie scarlatte che salivano lungo il collo, fino al terribile muso. Aveva anche una criniera e delle corna. Si era portato via una pecora e Cyer, il loro ospite, non ne era stato contento.

    -Non è solo per la pecora, ma non vorrei che quel lucertolone prendesse l'abitudine di passare di qui per le sue merende!- aveva brontolato.

    Luco trovava Cyer divertente, ma suo padre e gli altri lo trattavano con il riguardo che usavano per il santo Miryata. Il suo nome completo era Cyer Sotere e lì era l'unico a non avere il doppio cognome dei naharani. Tutti gli altri vantavano ascendenze nobili, anche se vivevano da pastori. Quello era il modo in cui sfuggivano all'occhio vigile del re del Rhy, che aveva proibito di continuare con le antiche tradizioni aristocratiche e guerriere. La sera, al lume dei fuochi, si trasformavano e nei loro canti c'era tutta la nostalgia per i tempi in cui erano liberi dal dominio straniero, ma per il resto a Luco sembravano proprio solo dei pastori. Tuttavia quello era un mondo sereno e, nei quasi quaranta giorni trascorsi lì, il giovane aveva pian piano lasciato alle spalle la paura e lo spavento.

    A ripensarci da quel prato soleggiato, tutto il viaggio per arrivare era stato una corsa disperata. Prima la fuga dai Cercatori, poi l'agguato, il bucaneve e dama Angelo ferita, infine la scalata delle valli. Per fortuna erano stati riconosciuti dagli uomini della Setta dell'Unicorno Verde, che li avevano condotti fino all'oracolo della dea Ziria. Dama Angelo era guarita, ma spesso le venivano malori che la costringevano a stare a riposo. La donna ora portava in vista un ciondolo bianco dalla forma ovale. Era il bucaneve, che lei aveva ricevuto in custodia dal marito e che aveva sempre tenuto nascosto. Ora che il vento nero era tornato a soffiare, il prezioso dono della dea Heeraya era di nuovo l'unica difesa contro di esso.

    Mentre Luco ripensava a tutto questo, Prisco si era seduto e aveva iniziato a distendere le erbe medicinali per farle seccare.

    Dietro di lui, a una certa distanza, c'erano le cinque pietre che segnavano la via verso il santuario. Erano cinque sassi alti quanto un albero, posti ad anfiteatro attorno ad uno dei pochi spiazzi pianeggianti. Tutt'attorno c'erano altre rocce sparse, mescolate a cespugli, avvallamenti e a qualche tratto erboso. Proprio tra quelle rocce si aprivano le porte che conducevano agli ovili sotto terra, alle stanze per il formaggio e ai rifugi per dormire. L'oracolo vero e proprio però era un luogo all'aperto. La dea Ziria era la signora delle altitudini e dunque il suo oracolo era una piccola e incantevole valle che si apriva nella montagna verso ovest, a pochi minuti di cammino dai rifugi dei pastori. Nella valle c'era un torrente che scendeva dai ghiacci e saltava poi allegramente tra i sassi. Alcuni di essi erano enormi e al loro interno c'erano delle cavità abbastanza grandi da offrire rifugio a uomini o animali. Nella valle però non c'era nessun segno particolare. Cyer aveva raccontato che fino all'epoca dell'Illuminato lì c'era stato un rifugio per i viaggiatori, ma poi un'estate le montagne si erano riempite di missionari in cerca di superstizioni da sradicare e i custodi dell'oracolo avevano ritenuto più prudente eliminare la casa.

    Ora il custode e sacerdote dell'oracolo era Cyer Sotere, un allegro uomo dalle gambe corte, con un cespuglio di baffi e sopracciglia nere come il carbone. Più che un sacerdote era in effetti un pastore, cosa che lui stesso ammetteva con orgoglio.

    Proprio in quel momento Cyer li stava chiamando:

    -Ragazzi, dovete giocare a fare le marmotte per un po'. Qualcuno è salito fino quassù a farsi una passeggiata ed è bene che ci trovi solo pastori e pecore. I vostri compari stanno già portando i cavalli nel loro buco.- Luco si trovò quindi a dover rinunciare al pomeriggio di sole e a scendere nella sala comune. Solo Pawo non era con loro, perché era impegnato come al solito a preparare il formaggio. Il musicista si era appassionato a quell'arte e passava tutto il suo tempo tra pentoloni di latte e forme.

    Maraiko fece un cenno a Luco e il ragazzo lo raggiunse. L'uomo della valle posò sul tavolo il tavoliere della ruota a nove e preparò le carte. Anche Rollo, l'altro uomo della valle, si unì a loro e come quarto giocatore chiamarono Lutha.

    -Giochiamo per scoprire se gli intrusi sono uomini del dannatissimo re del Rhy, oppure Cercatori?- chiese Rollo.

    -Perché no?- rispose Maraiko. Gli uomini della valle usavano il tavoliere della ruota a nove per la pesca, un gioco con le carte che poteva servire anche come divinazione. Si poneva la domanda all'inizio e poi la risposta era il disegno che restava sul tavoliere a fine gioco. Se invece non c'era nessuna domanda, era convinzione che il disegno rivelasse qualcosa sul futuro del vincitore. Il gioco veniva dal lontano Sarui ed era una delle cose che aveva insegnato Arain, il padre di Prisco. Accanto a loro, con un altro tavoliere, anche altri stavano giocando. Luco girò la carta col cinque di rupe e, sul tavoliere, prese la luna col quattro di barca.

    Concentrati com'erano nel gioco, non si accorsero che il tempo passava. Qualcuno bussò e poi subito la porta venne spalancata. Sulla soglia comparve Pawo, accompagnato da uno strano giovane con una giubba di pelle ricamata.

    -Naarua! Dei benedetti, sembri uno smorfioso lagurese! Com'è che sei conciata così?- esclamò Picaro andandole incontro.

    La ragazza rise e si lasciò stritolare in un abbraccio: -Io sono mezza lagurese, mia

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