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Yuki: Retelling di “Biancaneve”
Yuki: Retelling di “Biancaneve”
Yuki: Retelling di “Biancaneve”
E-book202 pagine2 ore

Yuki: Retelling di “Biancaneve”

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Info su questo ebook

Hotaru ha bisogno di una moglie. Yuki non ha nessuna intenzione di sposarsi, mai.
Per ottenere l’alleanza di cui ha un disperato bisogno, Hotaru deve fare in modo che Yuki si innamori di lui. Ma non sembra facile.
Hotaru non era nato per ereditare il ruolo di capo del suo clan. È impreparato per la vita che lo aspetta e, a un passo dalla guerra, sta disperatamente cercando alleati che lo aiutino a proteggere la sua gente. Il clan di Yuki è la sua ultima speranza.
Yuki non è mai stata come le altre ragazze. Si sente più a suo agio nella foresta che tra sete e merletti. Per tutti, è una ragazza strana. Dopo l’improvvisa morte del padre, suo fratello è tutto ciò che le rimane al mondo. Ma anche se farebbe di tutto per lei, la sua malattia cronica non gli lascia più molto tempo.
Tutto ciò che chiede è di saperla sistemata prima che sia troppo tardi, per questo insiste affinché accetti la corte di Hotaru. Ma Yuki non è interessata. O, perlomeno, non pensa di esserlo.
Ha giurato che non si innamorerà mai, ma Hotaru potrebbe essere in grado di far crollare le sue difese.
LinguaItaliano
Data di uscita6 dic 2022
ISBN9791220704458
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    Anteprima del libro

    Yuki - Nicolette Andrews

    1

    I vessilli garrivano al vento, mentre lungo la strada i cavalli scalpitavano e le risate rauche dei soldati riempivano l’aria. In tempo di guerra la cautela era qualcosa di necessario, ma trovandosi in territorio neutrale, e viste le recenti missioni che avevano affrontato, lasciare che gli uomini allentassero un po’ la tensione non era un male. Era bello vederli di nuovo spensierati. Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevano avuto motivo di sorridere. A Hotaru sarebbe piaciuto unirsi ai loro lazzi, ma aveva la testa piena di pensieri. Scrutò l’orizzonte con attenzione, come faceva sempre. Trovarsi in territorio amico non significava non correre alcun rischio.

    «State tranquillo, mio signore. Si tratta di una moglie, non di una sentenza di morte,» disse il suo secondo, affiancandolo.

    «Ma lo è invece per tutte le ragazze del clan, che ne avranno il cuore spezzato!» gli fece eco uno degli uomini.

    «Almeno avranno i loro figli bastardi a ricordargli di voi,» chiosò un altro ancora.

    Gli altri si unirono alle battute e Hotaru si sforzò di sorridere. Se solo si fosse trattato unicamente di cercare una moglie. Sarebbe stato molto più semplice, e non avrebbe dovuto lasciare il suo regno. Erano tante le donne che ne sarebbero state degne e che sarebbero state più che felici di sposarlo. Ma la verità era un’altra e tutti loro la conoscevano: non l’avrebbero seguito sin lì, altrimenti. Anche i suoi uomini erano preoccupati, proprio come lui. Quell’alleanza era fondamentale. Ma non poteva permettersi di mostrare le proprie paure, voleva che i soldati continuassero a sorridere.

    «Non posso sprecare il mio fascino con voialtri,» esclamò Hotaru rivolto ai suoi.

    Quelli scoppiarono in una risata d’approvazione.

    Gli schiamazzi, però, svanirono non appena la foresta si profilò dinanzi a loro e fu come se qualcosa all’improvviso gli avesse risucchiato tutta l’aria dai polmoni. Gli alberi erano fitti, e i tronchi crescevano così vicini da intrecciarsi gli uni agli altri. I rami si protendevano verso di loro come dita scheletriche pronte ad artigliarli.

    Una nebbia densa e bianca aleggiava alle radici dei fusti spogli, serpeggiando tra i tronchi nodosi.

    Lo sapevano tutti che posti impervi come quello erano dominio degli Yokai ¹. C’era stato un tempo in cui Hotaru aveva considerato quelle storie soltanto superstizioni. Ma ora si era ravveduto e aveva imparato a mostrare il dovuto rispetto. Se ci fosse stata una qualunque altra strada, l’avrebbe presa, ma la loro destinazione era al centro della foresta e non potevano aggirarla.

    Rallentarono l’andatura come a voler rimandare l’inevitabile. Hotaru si voltò sulla sella per osservare il suo esercito. Sembravano tutti a disagio.

    «Tenete gli occhi aperti, le armi a portata di mano, e restate sul sentiero,» li ammonì.

    La strada era abbastanza ampia perché viaggiassero appaiati, perciò assunsero la formazione e si misero in marcia.

    Hotaru e il suo secondo erano in testa, con i cavalli che nitrivano per l’ansia. Quello di Hotaru teneva le orecchie piegate in avanti. Anche gli animali percepivano tanto quanto lui che quel posto non era ciò che sembrava. La via che Hotaru scrutava davanti a sé finiva in uno spesso muro di nebbia. Ovunque guardassero c’erano ombre che si allungavano a dismisura. E faceva un freddo pungente; il disgelo primaverile era appena iniziato e la strada era un pantano.

    Poi, alla sua sinistra, tra i cespugli, si udì un fruscio, e a quello subito seguì il tramestio degli uomini che estraevano le armi. Hotaru sollevò la mano per fermarli quando un grosso tanuki ² caracollò fuori dalla boscaglia. Il cane procione rivolse il musetto chiazzato di nero verso di loro. Aveva occhi quasi umani, e intelligenti. Quelle creature erano note per essere veri piantagrane; alcune leggende li dicevano capaci di prendere forma umana per divertirsi a raggirare le persone. Hotaru scosse la testa, convinto che quello che aveva davanti dovesse essere soltanto un normale animale della foresta.

    Dopo un breve scambio di sguardi, il tanuki scomparve dall’altra parte della strada, nel folto del verde, e Hotaru diede ai suoi il segnale di riprendere la marcia.

    Ma non passò molto che un suo simile fece la sua comparsa sul sentiero.

    «Questa foresta è piena di tanuki,» commentò Hotaru, quando il secondo animale lo fissò con gli occhietti svegli, sostenendo il suo sguardo più a lungo di quanto avesse fatto il primo.

    Gli uomini scrutarono la foresta che li circondava come se si aspettassero di vedere sbucare dalle ombre un’orda di cani procione pronta a strappar loro le carni dalle ossa. A quel punto, Hotaru fece una battuta, più per scacciare le loro paure e indurli a proseguire che per altro. Nei meandri della sua mente, una strana sensazione gli diceva di stare in guardia.

    Più avanti, lungo il sentiero, apparve un terzo tanuki.

    Uno degli armigeri, spinto dalla paura e dalla sconsideratezza, gli scoccò una freccia. Non lo colpì, nonostante l’ottima mira, perché l’animale si spostò al momento opportuno. E, per la frazione di un secondo, Hotaru credette di vedere un cappello di paglia sul capo della creatura. Ma non ebbe il tempo di elaborare quel pensiero che una donna sbucò dai vicini cespugli.

    «Non puoi sfuggirmi!» gridò la giovane correndo via, e non sembrò neppure notare nessuno di loro. Cosa che, forse, fu meglio, visto che sembrava lei stessa una creatura selvatica. I lunghi capelli d’ebano erano legati in una treccia quasi sfatta e aveva piedi scalzi e coperti di fango. Anche il kimono che indossava era sporco e stropicciato, oltre a essere sollevato fino alle ginocchia.

    Hotaru l’osservò andarsene e restò a bocca aperta a lungo, anche quando lei fu scomparsa nella foresta, dietro al tanuki che inseguiva. Forse è stato uno sbaglio venire. Ho sentito dire che questa gente è strana… Ma non aveva avuto scelta. Si augurò che i capiclan fossero più civili.

    «Usciamo da qui. E non fate niente fino a mio ordine.» Lanciò uno sguardo di rimprovero all’uomo che aveva scoccato la freccia.

    Il soldato chinò la testa, contrito. Dopo quello, non ci furono altri strani incontri e arrivarono al palazzo. Emergeva dalla foresta e dalla nebbia come un luogo incantato. Grossi tronchi d’albero lo circondavano, e i tetti verdi degli edifici spiccavano oltre una muraglia fatta di rovi. Nella nebbia sarebbe stato facile perdersi, se non si sapeva dove si stava andando.

    Hotaru fece segno agli uomini di arrestarsi e si avvicinò al portone.

    «Sono il daimyō ³ Kaedemori, in visita al signore di questo clan,» annunciò.

    La testa di uno dei guardiani fece capolino oltre la muraglia.

    «Fatevi indietro, il portone si sta aprendo.»

    Hotaru indietreggiò, mentre il massiccio portone si schiudeva e lui e i suoi poterono marciare all’interno. Aveva annunciato la visita con anticipo, e si era aspettato di essere accolto dagli Anziani del clan. Ma a salutarli, in prima linea davanti a lui, c’era un uomo dai tratti delicati che sembrava nuotare nel suo haori ⁴ finemente ricamato. Doveva essere il figlio del daimyō. Alle sue spalle, c’era una bellissima donna in un kimono chiaro con ricami di fiori. Doveva trattarsi della figlia del daimyō, la donna che Hotaru era venuto a sposare. Si guardò attorno, aspettandosi che anche il daimyō di quel clan li raggiungesse per dargli il benvenuto.

    Ma non arrivò nessun altro e Hotaru ne restò offeso. La questione non stava procedendo senza intoppi come aveva sperato.

    Smontò da cavallo con un movimento ostentato e si assicurò di regalare agli astanti il suo sorriso più accattivante. In risposta, la figlia del daimyō nascose il proprio sorriso dietro una manica del kimono. Corteggiare quella donna non sarebbe stato affatto un problema, era del capoclan che doveva guadagnarsi il rispetto.

    Si inchinò di fronte ai suoi ospiti. «Vi ringrazio per la vostra accoglienza, cugino. Ho portato alcuni doni per vostro padre, il daimyō Fujimori.» Fece un cenno verso i bauli dove erano riposti i tesori e i regali che aveva recato con sé. I soldati li sollevarono per poi deporli di fronte al giovane signore, mentre Hotaru continuava a sorridere.

    La pelle del giovane era quasi traslucida, tirata sugli zigomi sporgenti, e cerchi scuri gli segnavano gli occhi. A un tratto voltò la testa per tossire.

    «È un piacere vedervi, cugino. Ma debbo comunicarvi che mio padre non è più con noi.»

    Hotaru si sforzò di non mostrare il proprio sbigottimento. La notizia della morte del daimyō Fujimori non gli era giunta. Non esserne al corrente era un piccolo passo falso da parte sua, a cui non poteva porre rimedio con facilità.

    «Mi duole sentirlo. Condivido la tua pena; anche mio padre ha recentemente lasciato questo mondo. È un bene che ci incontriamo ora, all’inizio dei nostri rispettivi regni.» Fu al giovane daimyō Fujimori che si rivolse, ma i suoi occhi cercarono quelli della ragazza. La figlia del daimyō, Yuki, era una bellezza proprio come gli era stato riferito.

    Non c’era sempre da fidarsi delle voci. Spesso la bellezza di una donna veniva esagerata per non demotivare i potenziali corteggiatori. Non che nel suo caso avrebbe avuto importanza. Quello che Hotaru doveva contrarre era un matrimonio strategico. Si considerava fortunato che la ragazza in questione fosse tanto attraente. «È un piacere incontrare te e la tua amabile sorella,» disse Hotaru, chinando il capo verso la giovane.

    «Lei non è mia sorella. Anche Yuki avrebbe dovuto essere qui per accogliervi, cugino, ma…» Il daimyō Fujimori si fermò per un altro violento accesso di tosse.

    «Mio signore, dovreste riposare.» La bellissima donna gli mise la mano sul gomito mentre la tosse lo piegava in due. Dunque, quella doveva essere sua moglie, la nuova signora di Fujimori. Che peccato. Anche se forse non avrebbe dovuto sentirsi troppo deluso. Se la vera Yuki fosse stata bella anche solo la metà di quella donna, non avrebbe avuto di che lamentarsi.

    Fece un inchino. «Non vedo l’ora di incontrarla.»

    Il daimyō Fujimori si accigliò, e non sembrò darsi la pena di dissimulare la propria contrarietà. Hotaru era appena arrivato e già aveva la sensazione di procedere su un terreno accidentato. Ma, anche se quel ragazzo era diventato daimyō di recente, doveva sapere come andavano le cose. Per quale altro motivo, se non un matrimonio che sancisca un’alleanza, il daimyō celibe di un altro clan si sarebbe presentato a loro? Specie quando soffiavano venti di guerra.

    «Tu e i tuoi uomini sarete stanchi,» disse il daimyō Fujimori.

    Alle sue spalle, Hotaru sentì qualcuno gridare e, quando si voltò, venne travolto da qualcosa, che lo fece cadere al suolo. Hotaru guardò la giovane che gli era ruzzolata sopra a cavalcioni. Aveva i capelli sporchi e c’era del fango sulla sua guancia. Ma, nonostante l’aspetto sudicio, era piuttosto carina, con occhi grandi e la bocca a bocciolo di rosa.

    Scese dal suo grembo senza bofonchiare più che uno spiacente e corse su per i gradini, verso il giovane signore. Nessuno fece nulla per fermarla. Era la stessa donna selvatica che aveva visto nella foresta. La giovane fece un inchino verso il daimyō Fujimori e la treccia le ricadde giù dalla spalla.

    «Mi dispiace, fratello. Mi darò una ripulita prima di ricevere i nostri ospiti.»

    Il daimyō Fujimori sospirò prima di fare un gesto verso Hotaru. «Mio signore Kaedemori, lascia che ti presenti mia sorella Yuki.»

    2

    Yuki procedeva immersa nella foresta, inspirando ed espirando a ogni passo. Quel luogo le parlava, non tanto a parole quanto attraverso emozioni e immagini. Conosceva il nome di ogni pianta e animale. Sarebbe quasi riuscita a tastarne l’energia con le proprie mani, ed era in grado di lasciarla entrare in sé, in connessione con la propria. Se avesse desiderato cacciare dei cervi, avrebbe potuto ordinar loro di raggiungerla. Se avesse cercato cibo, la foresta l’avrebbe guidata verso ciò che desiderava. Ma quel giorno aveva in mente solo una cosa, non aveva che un obiettivo. Percepì la terra morbida sotto i piedi scalzi mentre si faceva strada nell’oscurità. Il vento le soffiava contro, celando il suo odore alla preda.

    Il tanuki le dava le spalle, scavando sotto un tronco caduto, in cerca di larve. La sua lunga coda a strisce si arricciava avanti e indietro. Era paffuto, e del tutto ignaro della sua presenza. Yuki sollevò la propria arma oltre la testa, in assetto d’attacco. Ma d’un tratto il vento cambiò. Il cane procione alzò il capo, con le narici nere che si allargavano e i baffi fremettero. Yuki gli si lanciò sopra senza perdere tempo, affinché non scappasse via, ma il tanuki fu più veloce e si rifugiò sotto un cespuglio prima che riuscisse ad acciuffarlo.

    Battendo il cespuglio con il bastone, riuscì a farlo uscire dal nascondiglio e, a quel punto, si rimise a rincorrerlo, procedendo come lui a zig-zag per la foresta. A un tratto lo vide infilarsi in una caverna, una di quelle che, riusciva a percepirlo, erano senza via d’uscita. Adesso non aveva più scampo.

    «Ti ho preso adesso,» canticchiò entrando.

    La sua voce le riecheggiò attorno, distorta, moltiplicata. Risuonò, facendola sentire come se fosse circondata. Un brivido le scese lungo la schiena, mentre un refolo freddo spirava attraverso la bocca della grotta, come un lugubre ululato. Puzzava di muffa e acqua stagnante che sgocciolava lì da chissà dove. Il suolo era sdruccioloso e i piedi scivolarono diverse volte. Si strinse vicino il bastone e sentì la peluria del collo sollevarsi, in allerta. Qualcuno l’osservava.

    «Non voglio farti del male. Non c’è bisogno che tu ti nasconda,» disse, cercando di convincerlo. Ma la tattica non funzionò.

    Scrutò l’oscurità, ma la luce non riusciva a penetrare nelle profondità della grotta e strinse gli occhi per cercare di scorgere il tanuki. Poi, all’improvviso, le apparve un singolo occhio giallo. Dapprima alla sua altezza, poi più in alto, e ancora più in alto, finché l’occhio non torreggiò su di lei. Yuki incespicò all’indietro, aggrappata al bastone, mentre dalla

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