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La Stagione dei Marusticani
La Stagione dei Marusticani
La Stagione dei Marusticani
E-book878 pagine14 ore

La Stagione dei Marusticani

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Info su questo ebook

Nell’autunno del 1944 l’Emilia-Romagna, appena liberata dall’occupazione tedesca, si interrogava con preoccupazione su quanto poteva riservare la fine o il proseguimento del conflitto mondiale; il fronte delle operazioni di guerra si era fermato a pochi chilometri e il nord dell’Italia era ancora sotto il regime nazifascista. In quei giorni nella gente di questo territorio si agitavano contrastanti sentimenti: il ritorno al regime che l’aveva illusa in sogni di grandezza e la delusione per la fine che stava profilandosi pur auspicando un pronto ritorno della pace. L’interesse quotidiano era tuttavia dedicato alla ricerca di soluzioni per superare le difficoltà del presente fra odio, diffidenza e miseria. Il racconto che si snoda in questo romanzo, sorretto da spunti autobiografici, è il ritratto di quel periodo visto dagli occhi di un adolescente: le vicende di Robertino, attraverso i suoi occhi, e della sua famiglia. Il protagonista ci guida dentro la realtà difficile di quegli anni: la guerra ancora in corso, ma prossima alla fine, viene rievocata con la paura dei bombardamenti, con le difficoltà quotidiane nella ricerca dei generi necessari alla sopravvivenza, i luoghi dove cercare riparo e la conseguente vita al buio; quindi la fine della guerra, la resa dei conti, la ripresa, i cambiamenti. La vita prosegue dove la famiglia si deve trasferire, in un paese di mare che viene descritto così come si presentava nell’immediato dopoguerra, la frequentazione della scuola ivi riaperta che accoglieva anche i ragazzi quasi maggiorenni privati dell’istruzione negli ultimi anni, ma ormai inseriti nelle attività di vita e ben più navigati del protagonista di questo racconto. Le difficoltà legate alla sopravvivenza lasciavano poco spazio agli adulti per occuparsi dei ragazzi, della loro necessità di crescere accostandosi gradualmente e con delicatezza alla conoscenza delle fasi successive della vita. Le esperienze di ogni giorno, nel periodo di ansiosa attesa di ciò che poteva accadere e negli avvenimenti del periodo successivo, quando l’intera Nazione si avviò lungo il cammino della conquistata libertà, sono vissute dall’adolescente Robertino nella loro crudezza, esperienze che lo portarono prepotentemente a maturare pur lasciandolo nella sua acerba e incantata sensibilità che non accettava di adeguarsi alla violenza dei fatti quotidiani che la realtà poneva sotto i suoi occhi. Il primo sorgere dei teneri sentimenti dell’amore e dell’attrazione verso l’altro sesso. I ricordi non sono mai solo rievocazioni ma più spesso proiezioni nel sogno e nella visione poetica in cui si vogliono trasformare le esperienze vissute.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788830650961
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    Anteprima del libro

    La Stagione dei Marusticani - Nando Taddei

    LQtaddei.jpg

    Nando Taddei

    LA STAGIONE

    DEI MARUSTICANI

    (un racconto d’altri tempi)

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-4227-0

    I edizione settembre 2021

    Finito di stampare nel mese di settembre 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    LA STAGIONE DEI MARUSTICANI

    (un racconto d’altri tempi)

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Capitolo 1

    Seduto sul sellino della bicicletta condotta a mano dal nonno se ne stava rannicchiato fra due grosse sporte piene degli oggetti più disparati che penzolavano dal manubrio. Avanzavano con passo svelto e strascicato lungo il margine di una strada sconnessa e tappezzata di larghe pozzanghere fangose seguendo il margine di un fossato in cui l’acqua color ocra trascinava, scorrendo, rami secchi e rifiuti galleggianti. Dal cielo uniformemente grigio, tipico delle giornate novembrine, scendeva una interminabile e leggera pioggerellina.

    Robertino teneva le mani sul manubrio guardando la strada scorrere sotto la ruota anteriore sulla quale una crestina di fango si alzava e andava a sporcare le sporte appese al manubrio. Di tanto in tanto volgeva lo sguardo verso il fossato e rincorreva con gli occhi gli oggetti che scambiavano il loro posto sulla superficie dell’acqua, Senza girarsi eccessivamente sul fianco sbirciava i genitori che camminavano portando ciascuno una pesante valigia e sollevando solo leggermente i piedi dal fango che ricopriva la strada. Avvertiva il disagio che quella situazione di privilegio gli procurava, vedendo i suoi famigliari arrancare lungo quella strada impervia. Loro tuttavia sembravano non far caso a ciò che li circondava: camminavano in silenzio guardando avanti: li animava la speranza di riprendere la vita normale e il pensiero era rivolto all’esistenza futura lasciando alle spalle i pericoli passati.

    Sentiva scorrere brividi di gelo lungo la schiena quando pensava che anche lui avrebbe dovuto trascinare nel fango della strada i piedi scalzi racchiusi nei sandaletti logori, sotto quella pioggerellina che entrava sempre più fredda e appiccicosa attraverso gli indumenti leggeri che indossava. Si aggrappava allora ancor più saldamente al manubrio cercando di scacciare quel pensiero.

    Gruppi di persone dall’aspetto dimesso percorrevano taciturne la loro stessa strada: chi a piedi con borse e valigie, chi con biciclette cariche oltre misura di fardelli, chi trainando a mano carretti carichi di ogni genere di oggetti e anche piccole masserizie. Talvolta il mesto corteo si allineava lungo il margine della strada e cercava di ripararsi dagli schizzi di acqua e di fango sollevati dagli automezzi militari che li superavano traballando. I soldati che stavano sui camion si scambiavano battute nella loro lingua incomprensibile ridacchiando per le loro trovate scherzose, mentre i volti lunghi e preoccupati di quanti erano fermi lungo il ciglio della strada li guardavano in silenzio. Solo alcuni si preoccupavano di proteggersi dagli schizzi, saltellando e facendo segno con la mano di passare e di allontanarsi alla svelta.

    Le poche parole che venivano scambiate nell’arrancare verso la città contenevano il pensiero rivolto a ciò che li attendeva al termine di quella strada. Si interrogavano senza pretendere riposta su quanto avrebbero trovato di ciò che avevano lasciato. Con qualche sospiro pensavano al futuro mentre cercavano di convincersi che il peggio doveva essere passato.

    Il pensiero di Robertino andava invece alla campagna che stava lasciando e osservando quegli alberi che si ergevano ora quasi scheletrici nei campi lungo la strada li rivedeva come erano appena pochi mesi prima, quando aveva percorso quella strada in senso opposto: erano allora rigogliosi, quasi festosi nel loro verde più smagliante e carichi dei frutti che sarebbero via via maturati nei mesi a venire. In fondo quei mesi passati nella casa di campagna, accolti dai contadini amici del babbo, erano stati ricchi di esperienze entusiasmanti. Avventure che ora gli sembrava quasi impossibile di aver vissuto e alle quali si era adattato con una straordinaria ed inconcepibile incoscienza. Per lui in fondo era stata una vacanza fuori dal comune, nella quale aveva assaporato una libertà che mai prima aveva conosciuto, in compagnia di ragazzi anche più grandi di lui. Aveva passato tanto tempo in compagnia degli adulti e degli anziani della comunità che lavorava nel podere, i quali lo avevano preso in grande simpatia. Ma la cosa che più lo aveva riempito di orgoglio era che lo avevano trattato da grande. Si era spesso unito ai contadini quando al mattino partivano per lavorare nei campi e mostravano di gradire la sua presenza, silenziosa e osservatrice. Quando se ne usciva con domande inattese su ciò che accadeva intorno a loro, quella gente faceva a gara per dare una risposta, e la risposta il più delle volte era tale da suscitare fra loro stessi un coro di sonore risate. Gli altri ragazzi stavano invece ad ascoltare incuriositi, perché loro non avrebbero mai osato chiedere e mai si sarebbero inseriti nei dialoghi degli adulti: guardavano Robertino con ammirazione e stavano in silenzio ad attendere i suoi commenti. Una vacanza al di fuori del solito luogo in cui aveva trascorso l’estate gli altri anni. Da quando i genitori gli avevano permesso di uscire a giocare con gli amici, il teatro dei suoi giochi era stato la strada sotto casa, quella via acciottolata racchiusa fra i muri continui delle case. Era qui che Robertino costruiva le trame dei suoi giochi con gli amici coetanei del quartiere: entravano ed uscivano dagli androni, bui ed odoranti di muffa, delle case, i quali divenivano spesso le tane del gioco del rimpiattino. Erano anche un riparo, un fresco sollievo, nelle infuocate giornate d’estate o un tiepido rifugio nelle rigide giornate invernali. In quella strada aveva trascorso le vacanze estive negli anni precedenti, rincorrendo le ombre corte delle case in uno dei lati della via per sedersi sul selciato a scambiare le figurine, nell’attesa che la sera portasse un po’ di sollievo alla calura della giornata. E la strada iniziava allora ad animarsi: gli adulti si affacciavano all’uscio della loro casa portando con sé una sedia impagliata e lì si intrattenevano poi fino a tardi conversando o ascoltando chi più aveva da raccontare. I più piccini terminavano la loro giornata addormentandosi seduti per terra, con la testa appoggiata alle ginocchia delle mamme, le quali stendevano un fazzoletto o un giornale sul loro capo per ripararli dagli assalti delle zanzare.

    Ma questa estate appena trascorsa era stata diversa, con tante nuove realtà realizzatesi improvvisamente e adorne di innumerevoli aspetti dell’esistenza fino ad allora neppure immaginati. Non aveva conservato di esse un ricordo piacevole o spiacevole: tutto era semplicemente accaduto generando una naturale assuefazione ad accettare ogni nuovo avvenimento senza reazioni. Non gli avevano causato particolari emozioni neanche quelle situazioni che si usava nascondere temendo di offendere l’innocenza di un bambino: era intervenuta una specie di autodifesa che attutiva ogni emozione e, fatto ancor più straordinario, questo era avvenuto in tempi brevi. Ora stava lasciando l’ambiente in cui aveva trascorso cinque mesi di grandi novità e pensava a ciò con qualche rammarico. Quella strada che si snodava monotona e fangosa davanti a lui, sotto la pioggerellina battente, lo rattristava e non riusciva a immaginare alcun progetto che generasse entusiasmo di giungere alla fine di quel viaggio.

    La troveremo ancora la nostra casa? Sarà ancora in piedi? Speriamo non sia entrato qualcuno a portar via tutto mentre eravamo lontano disse la mamma del ragazzo sospirando e con voce piagnucolosa, senza alzare lo sguardo dalla strada.

    Pensiamo ai pericoli ai quali siamo scampati rispose il marito sbuffando dopo tutto questo inferno e con tutti i morti che ci sono stati per i bombardamenti ci saranno più case vuote che persone vive! Riprese fiato e scuotendo la testa continuò: poco prima del passaggio del fronte una strage ogni giorno: i bombardamenti nella zona della stazione ferroviaria dove c’erano fabbriche hanno fatto centinaia di vittime fra i civili. E dopo? Cosa è successo in queste ultime settimane quando sono arrivati i liberatori? Alcuni andavano dicendo che li avrebbero fermati e si sarebbero battuti per le strade e nelle piazze.

    Parlando ogni tanto tirava il fiato e guardava di soppiatto il nonno, con l’intenzione di provocare un suo commento.

    Non credo che i fascisti romagnoli si siano ritrovati con abbastanza fegato per rimanere lì a farsi ammazzare. Secondo me sono scappati tutti quanti appena hanno visto che le cose si mettevano male. Dicevano di voler raggiungere il duce per essere vicini al capo nel pericolo, ma secondo me e non solo secondo me, pensavano ad essere vicini alle vie di uscita del Nord, nel caso la situazione precipitasse rispose il nonno con qualche smorfia ironica ammiccando a Robertino che si era girato a guardarlo.

    Il bambino ricordò le discussioni, a volte anche accese e non prive di acceso contrasto che erano avvenute fra il babbo e il nonno, quando il conversare sfociava nella politica. Il babbo aveva accettato la logica del regime e qualche volta si era lasciato prendere dall’entusiasmo verso le iniziative correnti. Anche il suo lavoro di funzionario alle dipendenze dello Stato, non gli consentiva di scostarsi dalle direttive che venivano dall’alto: mirando poi a fare carriera non mancava di agire a volte con eccessivo zelo. Al nonno era invece rimasta l’impronta dell’ideologia socialista, più come ricordo degli entusiasmi giovanili che per adesione a un movimento politico. Tanti come lui, quando poco più che adolescenti avevano conosciuto la dura fatica del lavoro che riempiva tutta la giornata, entrando in fabbrica per guadagnarsi da vivere, avevano abbracciato gli ideali che alimentavano la speranza di poter riscattare una posizione di maggiore dignità, meno schiava delle ferree regole dettate dal padronato industriale. Aveva esultato quando il suo concittadino Benito Mussolini aveva assunto un’importante posizione nel partito, ma la guerra, la confusione che ne era seguita e l’incapacità di rimettere in piedi una classe di governo che ripristinasse l’ordine e la legalità avevano smorzato le aspettative che da quella parte politica potesse venire qualcosa di positivo per la gente come lui. Il lavoro era divenuto tuttavia meglio organizzato e il tenore di vita sempre più accettabile: insomma la tessera del partito fascista non la rifiutò. Anche perché si andava dicendo in giro che il posto di lavoro con quella tessera si sarebbe conservato meglio. Quella scelta tuttavia il babbo gliela ricordava spesso, anche se sapeva bene che senza il salario del nonno la famiglia avrebbe dovuto stringere la cinghia di qualche buco.

    La mamma intanto aveva ripreso a scuotere la testa e uscì dicendo con voce tremolante: Poverini, farsi ammazzare così, erano tanto giovani, poco più che bambini....

    Ma va là che non si è fatto ammazzare nessuno, sono scappati prima disse il nonno, e la conversazione si interruppe di nuovo. Il parlare risultava troppo faticoso avanzando per quella strada e con quei fardelli. Continuò così il cammino in silenzio e ognuno andava forse rimuginando in sé le proprie opinioni.

    Robertino teneva le mani sul manubrio della bicicletta del nonno guardando la ruota anteriore della bicicletta che avanzava sulla strada fangosa.

    Si fece vivo il ricordo del giorno in cui lasciarono la città per trasferirsi in campagna: il babbo e il nonno accompagnarono lui e la mamma e poi tornarono in città. Le fabbriche non erano state ancora chiuse; non si abbandonava il lavoro nonostante il continuo pericolo dei bombardamenti degli alleati. Per quanto al lavoro del babbo poi, negli uffici della questura, era impensabile che potesse subire soste.

    La loro era una città di provincia dove gli avvenimenti della grande politica giungevano solo come eco. L’evento più atteso, che poi tutti seguivano, simpatizzanti o contrari, era il discorso del duce trasmesso via radio: la gente si radunava attorno ai pochi gracchianti apparecchi radio e per la strada non si vedeva più nessuno, come oggi quando c’è la partita della nazionale di calcio. La vita scorreva tranquilla lontano dal tumulto delle grandi città industriali: i pigri romagnoli con le loro abitudini paesane, erano paghi di potersi godere le modeste risorse frutto del loro lavoro. Pacifici sì, ma orgogliosi e poco propensi a farsi menare per il naso quando erano messi con le spalle al muro. Quando lo stato del papa mise le grinfie sulla loro città il loro carattere battagliero si fece sentire mettendo più di una volta in difficoltà le autorità del momento. Avevano mantenuto una ironica acredine verso le gerarchie ecclesiastiche, anche se spesso familiarizzavano fino alla cordiale e sincera amicizia con il povero curato che viveva come loro nelle ristrettezze. A morte i preti dicevano, ma i bambini dovevano essere battezzati se no non crescevano bene; i funerali e i matrimoni dovevano essere fatti in chiesa altrimenti non avrebbero contato niente ed i ragazzini fino alla adolescenza dovevano andare all’oratorio, dove il cappellano di turno li sapeva tenere in riga.

    L’orgoglio di essere romagnoli si era poi accresciuto quando quel personaggio che appariva tutto d’un pezzo aveva preso in mano le sorti della nazione: lui era nato nella loro terra e aveva stretto la mano a vescovi e cardinali facendo intendere che si doveva andare d’accordo anche con loro. Così era stato facile illudersi che la tranquillità della loro città sarebbe durata in eterno, che la guerra in cui lui si era cacciato sarebbe finita con grandi vantaggi per tutti gli italiani, e che non li sfiorasse da vicino.

    Ma un giorno di quel maggio del 1944 giunse nel quartiere la notizia che nella piazza assolata e affollata da molti piccioni e da pochi crocchi di uomini che conversavano appoggiati alle loro biciclette era improvvisamente arrivata con molto rumore una colonna motorizzata di militari tedeschi. Nugoli di piccioni si alzarono in volo e voci concitate echeggiarono dalla piazza: Sono tedeschi, sono arrivati i tedeschi!. Le staffette sulle motociclette girarono intorno alla piazza e dietro di loro avanzarono le auto e le camionette mimetizzate che andarono a formare un cerchio pressoché completo intorno al rialzo centrale dove poche persone stavano silenziose e sbigottite. Alcuni ufficiali scesero dalle camionette e iniziarono a parlottare fra loro indicando gli edifici e le vie circostanti. Altra gente si era intanto radunata sotto i portici incuriosita e intimorita mentre altre si erano affacciate all’uscio dei negozi. Anche i baristi erano usciti asciugandosi le mani nel grembiule che portavano davanti, osservando sbigottiti la scena. Molte di quelle persone rievocavano le scene che avevano visto nei film-luce quando ciò che stava accadendo lì si era verificato da altre parti, avvenimenti che consideravano di altre città, di altre nazioni, se non addirittura di altri mondi.

    La notizia si sparse velocemente, di strada in strada, di casa in casa. Giunse anche lungo la tortuosa via che si snodava infossata fra i vecchi edifici, ed un grido rimbalzava alimentando ansie e timori Sono arrivati i tedeschi, hanno occupato la piazza e puntano i cannoni sul municipio!.

    La mamma di Robertino si affacciò alla finestra e guardò giù sulla strada: un gruppo di persone si era radunato davanti alla rivendita di sali e tabacchi e parlottava animatamente: qualcuno agitava le braccia e indicava la fine della via. Sporgendosi il più possibile dalla finestra di quel primo piano per essere meglio udita, provò a chiedere: Cosa sta succedendo?. Alcuni si volsero verso di lei ed un uomo grassoccio, togliendosi il toscanello acceso dalla bocca, rispose: Sono arrivati i tedeschi! Non si sa cosa abbiano intenzione di fare.

    Non pare abbiano delle buone intenzioni da come sono armati e dalla faccia cattiva che hanno disse un altro abituale frequentatore della rivendita.

    Uno che è arrivato dal centro ha raccontato che una donna fra la gente ha sputato per terra mentre loro stavano scendendo dalle camionette e un soldato tedesco vedendola è uscito dal gruppo e l’ha costretta a pulire per terra tenendola per i capelli. L’uomo grassoccio che aveva parlato prima ascoltò attentamente e senza togliersi il toscanello di bocca osservò: Qui la si mette male, meglio stare alla larga.

    Intanto si era unito al gruppo anche l’addetto alla sede locale del partito facendo alcuni gesti che volevano tranquillizzare i presenti: Vedrete che si limiteranno ad occupare qualche casa e qualche palazzo per farne i loro alloggi e se non ci sarà della fronda credo che alla popolazione non ne deriverà alcun fastidio.

    Ma quello che si dice, dei fatti successi a Roma…? Neanche le donne e i bambini sono stati risparmiati osò dire una donnetta con voce piagnucolosa, tenendo una mano davanti alla bocca.

    La mamma di Robertino pensò subito al peggio. Fu presa da un senso di paura e di sgomento ed il pensiero andò immediatamente al suo bambino. La assalì il pensiero che doveva subito raggiungerlo per proteggerlo da chissà quale pericolo. Scese allora le scale di corsa, percorse l’androne buio del piano terreno ed uscì sulla strada dirigendosi un po’ camminando e un po’ correndo verso l’istituto di religiose presso il quale Robertino frequentava le scuole elementari. Arrivata davanti al grande portone di legno scuro tirò il pomello della campana ed attese qualche istante prima che si aprisse uno spiraglio nella porticina e lasciasse vedere una striscia del viso della madre portinaia. Avendola riconosciuta la vecchia suorina aprì un po’ di più l’uscio per lasciarla entrare.

    Siete voi signora Aurora, entrate, entrate, immagino che anche voi siate venuta a prendere il vostro bambino. Che tempi, che tempi ... il diavolo è proprio arrivato anche qui. E parlando con la sua vocetta stridula faceva strada e agitava una mano davanti al viso, come per cacciare una cattiva visione volgendo ogni tanto gli occhi verso l’alto. Si fermò e fece cenno ad Aurora di attendere, quindi varcò un uscio da sola. Parvero secoli quelli che trascorsero prima che la suorina tornasse con il bambino per mano. Aurora cercò di mostrarsi tranquilla e ponendo un braccio attorno al collo di Robertino disse: Vieni, dobbiamo andare a casa. Saluta la suorina, per un po’ di tempo credo che non la vedrai.

    Ma è già ora di vacanze? chiese con meraviglia il bambino guardando incuriosito la mamma. Aurora era già con il pensiero altrove e non vedeva l’ora di uscire dall’edificio: non rispose ma lo prese per mano e insieme si avviarono camminando speditamente verso casa.

    I giorni che seguirono furono caratterizzati da un’altra novità: gli allarmi aerei. Iniziò tutto all’improvviso quando si udì improvvisamente un suono ondeggiante e sguaiato che ruppe la quiete di quell’ora assolata e andò progressivamente aumentando di intensità. La strada, prima deserta, cominciò ad animarsi mentre un gridio veniva da più parti: L’allarme, l’allarme aereo!. A quell’ora il babbo e la mamma erano in casa e stavano facendo la dormitina pomeridiana nella camera da letto mentre Robertino se ne stava sveglio nella stanza accanto semibuia, una stanza che era insieme ingresso, sala da pranzo e camera da letto del nonno. Era intento a riempire di colore le pagine di un giornale con le sue matite colorate. Apparve sull’uscio della stanza da letto il babbo, scarmigliato e in canottiera mentre si allacciava i pantaloni. Fece cenno a Robertino di seguirlo e, aperto l’uscio, scesero rapidamente le scale. Giù, nell’ androne buio si erano già radunate altre persone che abitavano nel caseggiato e a loro si era aggiunto qualcuno che si era trovato a passare di lì. Dopo qualche istante li raggiunse Aurora portando con sé una grande sporta, nella quale doveva aver buttato alla rinfusa le cose che le erano sembrate più importanti da salvare. Nell’androne c’era un silenzio di tomba: le persone stavano silenziose e addossate alle pareti come se in quel locale buio potessero isolarsi dal pericolo incombente.

    Un cugino di Aurora che abitava nell’appartamento accanto al loro si avvicinò e chiese sottovoce: E adesso cosa facciamo? Saremo al sicuro qui se arrivano gli aeroplani?

    Meglio stare qui che uscire sulla strada. Il rifugio più vicino dista tre isolati. Sopra di noi qualcosa che ci protegge almeno lo abbiamo. Così parlò uno degli ospiti che si era aggiunto a loro in quel temporaneo ed illusorio luogo di riparo.

    In prefettura si dice che la nostra città non dovrebbe essere bersaglio di attacchi aerei devastanti in quanto non presenta centri di interesse militare e strategico disse il babbo di Robertino. Alcuni si volsero verso di lui annuendo, più per togliersi un peso di dosso che per convinzione. Le sue parole meritavano attenzione data la posizione che occupava come funzionario di Pubblica Sicurezza in servizio presso la prefettura e da poco anche promosso di grado.

    Perché poi dovrebbero avercela con noi? Speriamo che la Madonna ci aiuti e mandi quegli aeroplani da un’altra parte disse intanto la mamma di Robertino, ancora visibilmente preoccupata.

    Non sarebbe la prima volta che bombardano città in cui vi sono persone che hanno il solo torto di essere spettatori di questa brutta situazione in cui ci hanno cacciato. E intanto si deve stare qua a passare delle belle paure! Gianone tutti lo conoscevano e teneva ancora la sua ramazza in mano quando si era rifugiato là nell’androne insieme agli altri appena era suonato l’allarme.

    Senti chi parla! C’eri anche tu qui di fianco nella tabaccheria a battere le mani davanti alla radio quando il duce ha fatto quel discorso sull’entrata in guerra scattò il cugino di Aurora tenendo un braccio puntato verso di lui. Un sibilo uscì da più bocche, un invito a non parlare, quasi si temesse che le voci facessero aumentare il pericolo.

    Robertino era stato fino ad allora appoggiato al muro dietro al babbo e alla mamma ascoltando quanto dicevano gli adulti. Pian piano si lasciò scivolare a sedere sul pavimento. Così, nascosto dalle gambe dei genitori, prese a comporre piccoli disegni sulla parete con una matita colorata che aveva portato con sé. All’improvviso, un altro suono di sirena segnò la fine del pericolo dell’incursione aerea. La porta dell’androne fu aperta ed una luce vivida penetrò nell’ambiente. Quasi tutti uscirono sulla strada e guardarono in alto per scoprire chissà quale residuo del passato pericolo. Le anziane signorine proprietarie della tabaccheria riaprirono il negozio ed alcuni entrarono per acquistare la loro razione quotidiana di generi da fumo insieme ad altri che li seguirono per continuare a commentare quanto era appena accaduto. Aurora vedendo le decorazioni tracciate in basso sul muro da Robertino esclamò strattonandogli il braccio ma senza intenzione di sgridarlo veramente: Che cosa hai combinato? Non ti si può perdere di vista un istante, adesso dovrò ridiscendere a lavare la parete!.

    Girando l’angolo della scala Robertino si voltò nuovamente per ammirare il proprio disegno rimasto incompiuto: un aereo che sorvolava alcune figurine dall’apparenza umana, con le braccia alzate, mentre lasciava cadere su di esse dei piccoli oggetti di natura non ben definita.

    Gli allarmi divennero sempre più frequenti e qualche volta si udì anche il rombo cupo degli aeroplani che volavano alti nel cielo. Ogni volta che suonava l’allarme avevano iniziato a uscire di corsa di casa per dirigersi verso gli orti che si stendevano nelle vicinanze. Qualcuno aveva sparso la voce che lì si poteva essere più sicuri che nelle case e così gli orti divennero la meta per sfuggire ai bombardamenti. Uscendo di corsa di casa portavano con sé le sporte tenute sempre a portata di mano e contenenti i tesori di famiglia, oltre ai generi alimentari consistenti in una bottiglia d’acqua e nelle gallette, che invecchiavano di giorno in giorno dentro a un sacchetto di tela. Lo squinternato corteo che si andava formando correva verso gli orti procedendo rasente ai muri pensando di proteggersi dal pericolo che doveva venire dall’alto. Infilavano quindi il largo passaggio del cancello di legno già aperto e si distribuivano lungo gli stretti passaggi fra le floride e splendide verdure che ancora venivano con cura coltivate. Cercavano quindi posto nei piccoli spiazzi liberi dalle coltivazioni o si rannicchiavano fra le fila delle piante di fagiolini, pomodori e peperoni. Gli allarmi non risparmiavano neanche la notte e allora, oltre alle solite sporte, venivano buttate sulle spalle anche leggere coperte. Robertino, assonnato e piagnucolante, veniva sollevato dal babbo avvolto da mezzo letto e trascinato così fino negli orti veniva messo a dormire sotto le stelle.

    Con il passare dei giorni gli allarmi, fortunatamente a vuoto, vennero presi un po’ meno sul serio. Alcuni rimanevano nelle loro case, altri se ne venivano negli orti brontolando, altri ne facevano motivo per passare qualche ora in compagnia fra battute ironiche. Così, una volta arrivati là fra il verde, nel fresco della notte di primavera avanzata, sdraiati sotto le loro coperte rimanevano a dormire fino al mattino.

    Ma i bombardamenti avvenivano in luoghi sempre più vicini. Di notte si potevano vedere in lontananza lampi di luce e bagliori rossastri che accompagnavano brontolii, come di tuono. Aurora bisbigliava qualche preghiera sospirando, mentre il marito guardava il cielo pensieroso. Anche Robertino, steso sulla coperta buttata sull’erba, guardava il cielo. Le stelle vivide sopra di lui ed i bagliori filtravano in basso attraverso i rami degli alberi. Non riusciva a dormire, avvertiva l’ansia che pervadeva il babbo e la mamma, il loro timore che qualcosa di terribile sarebbe potuto accadere da un momento all’altro. Una sera prese la mano della mamma e chiese: Perché la guerra non la fanno solo i soldati e non lasciano in pace le persone che non ne vogliono sapere?.

    La guerra non guarda in faccia a nessuno. C’è chi la vuole e chi la subisce rispose il babbo.

    Quando io andrò in guerra passerò con l’aereo a buttare le bombe dove ci sono i nemici e non sulla testa della gente che non c’entra niente aggiunse Robertino con convinzione.

    Preferisco vederti prete che soldato disse Aurora, uscendo con una frase che mai le sarebbe venuta in mente in altri momenti i preti in guerra non ci vanno. E poi non se la passano tanto male! aggiunse ancora, quasi a voler addolcire le prime parole.

    Quando suonò il cessato allarme cominciava già ad albeggiare; racimolarono le loro cose e si avviarono stancamente verso casa. Il babbo sospirò: Se ne sono andati. Anche per questa volta hanno vuotato il sacco da un’altra parte.

    La situazione si mantenne tale ancora per una settimana ed ai bombardamenti nelle zone vicine si cominciò a fare l’abitudine. Ci si illudeva che là dovessero fermarsi. Ma le cose cambiarono ancora e purtroppo in peggio. E quando il peggio giunse, quasi inaspettato, la gente di quella città si rese conto di persona di cosa fosse veramente la guerra.

    L’ululato della sirena squarciò la calma di una assolata mattina ed un sordo boato si associò quasi immediatamente ad essa. I vetri cominciarono a cadere dalle finestre mentre i muri parevano oscillare goffamente lasciando cadere croste di calcinacci. Una nuvola di polvere avanzava lungo la stretta via e andò presto ad oscurare la vivida luce del sole di maggio: dentro la nuvola si vedevano ombre che correvano urlando. Aurora si affacciò alla finestra dopo aver aperto violentemente le verdi persiane scrostate e cominciò ad urlare con le mani sollevate al cielo: Robertino, Robertino, dove sei? Corri a casa. Non udendo riposta, uscì dall’appartamento correndo, infilò le scale e uscì sulla strada. Si fermò, gemendo, con le mani nei capelli guardando ora un lato ora l’altro della strada: Ma dove sarà andato! diceva piagnucolando dove si sarà cacciato! Mio dio, mio dio, voglia il cielo che non gli sia capitato niente.

    Quando era iniziato tutto quel trambusto Robertino stava giocando oltre l’angolo della loro strada con alcuni ragazzi del borgo, seduto sul selciato sotto al porticato antistante la grande chiesa. Avevano scelto l’angolo più lontano da casa, l’angolo più fresco e silenzioso dove il porticato terminava davanti al portone del convento delle suore di clausura. Allo scatenarsi di quel pandemonio i ragazzi si guardarono in viso sbigottiti, si alzarono lasciando le loro figurine per terra. Il più grandicello guardò gli altri poi prese coraggio e urlò: Presto scappiamo, stanno arrivando le bombe!.

    Robertino si mosse per correre verso casa ma fu preso dall’affanno e le gambe gli divennero d’improvviso pesanti. Si aggrappò ad una colonna del lungo portico e guardando là in fondo, dove finivano le arcate e i raggi del sole giocavano fra la polvere che si era levata, chiamò con voce angosciata: Mamma!.

    La nuvola di polvere si stava facendo sempre più fitta e ora non riusciva a vedere dove cominciava il retro della sua casa, al di là della strada. La gente passava correndo, chi a piedi e chi in bicicletta, e non prestava attenzione a chi, fermo andava chiedendo: Ma dove è stato? È la nostra città che hanno bombardato? Quale rione?.

    Robertino, dove sei? Perché non rispondi?.

    Mamma, sono qui.

    Robertino ora la vide mentre attraversava la strada e si dirigeva verso di lui. Aurora sollevò il figlioletto stringendolo teneramente mentre continuava a singhiozzare. Lo rimise a terra, lo prese per mano ed insieme, di corsa, si diressero verso gli orti.

    Passando davanti alla palazzina degli Strozzi udirono delle grida e si fermarono un istante davanti al grande cancello: alcune persone si agitavano cercando di calmare la signora che in mezzo a loro si disperava levando le braccia al cielo. Quella signora Robertino l’aveva vista tante volte passando davanti a quel cancello, sempre agghindata e sorridente, spesso seduta nella sedia di vimini a leggere un libro. Ora non pareva lei:

    La mia Faustina, morta così, che colpa aveva lei di tutto questo, ditemelo voi? Perché deve accadere tutto questo? andava dicendo fra i singhiozzi tenendo un fazzoletto premuto sulla bocca.

    Una delle signorine della tabaccheria era intanto giunta fin lì e con le lacrime agli occhi disse ad Aurora: Sotto al bombardamento c’è rimasta la Faustina, la figlia della signora Strozzi. Pensa un po’ il destino: passava con il nipotino davanti agli uffici della fabbrica del gas quando è caduta la prima bomba. Si è buttata a terra, coprendo il nipotino e un gran pezzo di cornicione è caduto loro addosso.

    Ma il bambino si è salvato? chiese Aurora.

    Sì, l’hanno sentito piangere sotto la Faustina e l’hanno tirato fuori. Neanche un graffio rispose la tabaccaia che ora li aveva lasciati per infilarsi dentro al cancello degli Strozzi. Aurora fece in tempo ancora a chiederle mentre si allontanava: Ma il bombardamento ha colpito la fabbrica del gas?.

    rispose la tabaccaia ma solo in parte, almeno così ho sentito dire da quelli che venivano da lì.

    Il mio babbo, il nonno cominciò a lamentarsi Aurora mentre camminavano sarà riuscito a mettersi in salvo?.

    Il nonno lavorava nell’officina della fabbrica del gas.

    Giunsero così negli orti, ove trovarono altre persone lì radunate ed accovacciate sotto le piante. Alcune donne con il volto funereo stavano recitando il rosario levando di tanto in tanto il volto al cielo. Aurora si unì a loro e fece adagiare sull’erba anche Robertino: Prega, prega, recita un’avemaria per il nonno, perché non gli succeda niente gli sussurrò in un orecchio.

    Robertino, che era molto affezionato al nonno, iniziò a recitare la preghiera bisbigliandola a fior di labbra non volendosi unire al coro delle altre donne che snocciolavano una nenia nel loro storpiato latino.

    Suonò quindi il cessato allarme e le persone presero ad avviarsi verso le loro abitazioni: il loro quartiere non era stato toccato dal bombardamento anche se dalla zona colpita non distava più di un chilometro. L’aria era ancora offuscata dalla polvere e strani odori si avvertivano nell’aria. La fantasia di Robertino lavorava cercando di immaginare il luogo dove era avvenuto il disastro e quegli odori acri, mai avvertiti in precedenza, contribuivano a costruire una fosca visione.

    Il nonno, dove sarà il nonno? Non posso togliermelo dal pensiero ripeteva Aurora dove si trovava quando sono cadute le bombe? e si agitava mentre camminavano verso casa.

    Guarda mamma, il nonno sta arrivando esclamò Robertino, puntando il dito verso la strada che portava alla periferia della città. Lui stava sopraggiungendo pedalando a testa bassa a cavalcioni di una monumentale bicicletta scura con ancora addosso la tuta da lavoro ed il berretto ben schiacciato sulla testa. Aurora agitò un braccio chiamandolo ad alta voce: Babbo, babbo, siamo qui.

    Lui si diresse verso di loro, scese dalla bicicletta e tenendo una mano sul manubrio con l’altra strinse una spalla della figlia. Si chinò poi verso Robertino dandogli una scopoletta. Mentre si incamminavano verso casa prese poi a dire scuotendo la testa:

    Non avevo mai visto una cosa del genere. Un isolato intero di alcune centinaia di metri, tutto raso al suolo. Magazzini, uffici, case. E chi era lì, dentro o fuori, c’è rimasto.

    Meno male che non hanno centrato l’azienda dove lavori tu disse Aurora rincuorata.

    Anche Robertino volle soddisfare la sua curiosità: Sei riuscito a scendere nel rifugio quando è suonato l’allarme?.

    No, non c’è stato il tempo. Tutto è successo in pochi istanti: quando è suonato l’allarme abbiamo sentito gli aerei che stavano scendendo e ci siamo buttati sotto alle macchine da lavoro. Tutto il pavimento intorno a noi sussultava e i vetri cadevano giù dai finestroni. Siamo rimasti così, là sotto, fermi e in attesa del peggio. Poi, quando ci siamo resi conto che gli aerei avevano sganciato il loro carico e si allontanavano abbiamo trovato il coraggio di rialzarci e ci siamo detti: Questa volta ci è andata bene, non era la nostra ora".

    Giunti al portone della loro casa lo infilarono e si avviarono su per le scale dopo che il nonno aveva sistemato la bicicletta nell’androne.

    Entrando nel loro appartamento trovarono che alcuni vetri delle finestre erano caduti per terra in frantumi. La loro vecchia casa, che aveva ospitato almeno quattro generazioni della famiglia del nonno, pur fatiscente e con le pareti gonfie e ricoperte da vistose chiazze di umidità, non aveva subito altri danni di sorta.

    La mamma ed il nonno si misero in silenzio al lavoro per ripulire il pavimento dai cocci di vetro. Occorreva pensare alle decisioni da prendere per i giorni successivi. Poco dopo giunse anche il babbo di Robertino ed Aurora parve ricordarsi d’un tratto di tutto quanto era successo e portandosi le mani al viso esclamò: Ernesto dove eri quando è successo tutto quel finimondo?.

    In ufficio, dove vuoi che fossi? Sai che fino a quando non ci arrivano proprio le bombe sulla testa per noi è impossibile lasciare il luogo di lavoro! rispose Ernesto con una punta di insofferenza.

    Oggi però ad alcuni colleghi è andata male aggiunse Ernesto mentre accarezzava Robertino

    Si trovavano di servizio nella zona del bombardamento. Ma tu piuttosto Aurora? Dimmi di voi. Siete usciti di casa in tempo? E tu Robertino hai avuto paura?.

    Non ho capito più niente quando ho visto tutta quella gente scappare fra la polvere e ho pensato subito a lui perché non era in casa. Poi ci siamo precipitati insieme negli orti.

    Sta diventando sempre più pericoloso rimanere in città ora che il fronte si sta avvicinando disse Ernesto pensieroso I bombardamenti diventeranno sempre più frequenti e altri rioni saranno bersagliati. Oggi ho sentito che alcuni colleghi porteranno la famiglia in campagna, lontano dai possibili obbiettivi dei bombardamenti.

    Ma perché non mangiamo intanto qualcosa, mentre prepariamo i piani di fuga disse il nonno mostrandosi spazientito ed anche per sdrammatizzare l’atmosfera da esodo che si stava preparando: Aurora avrebbe certamente male accettato la proposta di allontanarsi da casa.

    Bisogna rassegnarsi, la guerra è ormai un fatto di tutti i giorni e con qualcosa sullo stomaco le decisioni si prendono meglio.

    Adesso non me la sento proprio di mettermi a preparare il pranzo sbuffò Aurora ho un peso sullo stomaco che non va né su né giù.

    Non ti preoccupare, ci arrangiamo con quello che c’è nella credenza. Un po’ di pane, una fetta di salame e un bicchiere di vino disse il nonno alzando un braccio per chiudere ogni altro commento. Fu così apparecchiata frettolosamente la tavola e deciso di raccogliere dalla cucina tutto ciò che poteva essere messo sotto i denti.

    Porta anche il fiasco del vino rosso ordinò Ernesto alla moglie appena preso posto a tavola. Avutolo, riempì il bicchiere per sé e per il suocero.

    Credo che Aurora e Robertino dovrebbero andare dagli Strada. Abitano in un podere abbastanza lontano dalla città e la loro casa colonica è spaziosa disse Ernesto guardando il bicchiere e tenendo la voce bassa perché Aurora non udisse.

    Il nonno annuì e si chinò verso Ernesto: Ci troveranno il posto, per un paio di letti non dovrebbero negarci questo favore disse, portando il bicchiere alla bocca e sorseggiando un po’ di quel vino che veniva proprio dalla tenuta che coltivavano gli Strada. Ernesto prese a tagliare alcune fette di pane e riprese senza alzare lo sguardo: Quanti anni sono che ci riforniamo da loro di ogni genere: la legna, il vino, la farina, le patate ... senza contare che quel figliolo, quando si è cacciato nei guai con quelle idee balorde ... io ci ho messo una buona parola perché non finisse dentro.

    Loro sono però convinti che non avesse fatto niente di male, che si fosse solo mischiato ad altri che facevano un po’ di baccano. Comunque stai tranquillo che per l’ospitalità che dovremo richiedere si faranno pagare bene aveva aggiunto il nonno per tagliare corto in quanto stava giungendo Aurora. Robertino aveva ascoltato attentamente, pur fingendosi distratto, seduto al tavolo e con la testa appoggiata su una mano. Aurora era giunta con il piatto di portata e a lui fu servita per primo la sua parte. Armeggiando con la forchetta pensò di togliere tutti dall’ imbarazzo esclamando: Sai mamma la bella notizia? Domani andremo in campagna dagli Strada, dove siamo stati parecchie volte a fare le gite e rivolto verso il babbo: Ma questa volta ci fermeremo di più non è vero? Anche a dormire, a mangiare e per molti giorni. La guerra è lontana da lì e non ci sono tante case e fabbriche come qui da bombardare.

    Attendeva di essere rassicurato ma il nonno e il babbo continuarono a mangiare aspettando la reazione di Aurora. Lei rimase in silenzio con il viso rivolto verso la finestra. Non toccò cibo e appena alcuni piatti furono vuoti ne approfittò per alzarsi ed andare in cucina.

    Ernesto si rivolse a Robertino accarezzandolo.

    Terminato il modesto desinare il nonno partì immediatamente in bicicletta per andare dagli Strada ad esaminare la situazione. Ernesto tornò in ufficio ed Aurora prese a rovistare nei cassetti per mettere da parte tutto ciò che sarebbe andato nelle valigie da portare con loro in campagna. Alle valigie si sarebbero aggiunte le sporte già pronte: in esse era stato riposto da tempo tutto quanto si riteneva costituisse il tesoro della famiglia. Robertino intanto aveva accostato una sedia alla finestra e vi si era inginocchiato sopra per guardare giù sulla strada attraverso le fessure inclinate delle persiane chiuse. Quella di tenere le persiane chiuse nelle ore del primo pomeriggio era un’abitudine dei mesi estivi e serviva per creare l’illusione di fresco e un’atmosfera più propizia al riposo pomeridiano. Quel giorno però erano state chiuse in anticipo, quasi a creare un illusorio riparo verso quanto stava accadendo all’esterno. Attraverso le fessure, spostando la testa quasi appiccicata alla persiana in alto e in basso, Robertino cercava di ottenere la più ampia vista dell’esterno. Lì davanti alla casa i ciottoli della strada infissi nel terreno degradavano verso il pozzetto centrale di raccolta dell’acqua piovana e poi risalivano e continuavano lungo quella strada dalla quale il mattino era giunta fino a loro la nuvola di polvere causata dal bombardamento. L’inclinazione delle fessure non gli permetteva però di spingere la vista molto lontano e di quella strada poteva vedere solo l’inizio.

    Quell’ostacolo accese la sua immaginazione che cavalcò le descrizioni della scena del bombardamento che aveva sentito raccontare. Davanti a lui apparvero montagne di macerie che crollavano addosso alla gente che passava di lì, braccia e gambe si dimenavano spuntando fra i detriti crollati addosso alle persone.

    Scese dalla sedia e si avvicinò alla mamma: Allora domani andiamo proprio in campagna! Non voglio passare dal luogo dove sono avvenuti i bombardamenti!.

    Aurora si rese conto che il bambino era impaurito e stava reagendo a quanto era successo nella mattinata.

    No, non passeremo da quelle parti. Per andare dagli Strada si va dalla parte opposta.

    E il babbo e il nonno, verranno con noi?.

    Ci accompagneranno, ma non potranno fermarsi. Il loro lavoro li trattiene ancora qui in città. Forse il babbo ci raggiungerà la sera per rimanere a dormire. I suoi turni di servizio sono imprevedibili. Il nonno no: lui al suo letto proprio non riesce a rinunciare.

    Al ritorno dalla spedizione esplorativa il nonno riferì che gli Strada erano disposti ad ospitarli. Avevano già accolto in casa altri sfollati e avevano messo a disposizione il camerone al piano superiore della casa colonica, sopra alle stalle, dove normalmente accumulavano i prodotti delle raccolte che dovevano essere conservati in un luogo asciutto.

    Dentro a quel camerone avrebbero dovuto trovar posto diverse famiglie.

    Si sedettero a tavola per la cena ed Aurora servì loro un caffelatte: il nonno vi inzuppò come al solito un’abbondante razione di pane tagliato a pezzetti mentre Robertino lo sorseggiò svogliatamente. Il nonno disse quindi che voleva coricarsi in quanto il mattino successivo avrebbe dovuto levarsi di buonora per preparare alcune cose per la partenza. Aurora passò con Robertino nella stanza attigua, lo aiutò a spogliarsi e si sedette su un lato del lettuccio pressoché attaccato a quello dei genitori. Rimase così accanto a lui rispondendo alle sue domande che riguardavano alternativamente quanto era accaduto al mattino e quanto sarebbe dovuto accadere nei giorni successivi, finché la stanchezza, alla quale molto avevano contribuito gli avvenimenti della giornata, giunse a chiudere gli occhi del bambino.

    Fu svegliato più tardi da un vociare concitato anche se tenuto sottovoce. La mamma ed il babbo stavano discutendo animatamente, ma erano soprattutto le lagnanze di lei a tenere banco. Rimproverava al marito di essere rientrato ad ora tarda per essersi fermato con i compagni di baldoria invece di pensare ai problemi che avrebbero dovuto affrontare in quei giorni. Quel rituale si ripeteva spesso e finiva il più delle volte in lite. Quella notte i rimproveri della mamma e le risposte sempre più innervosite del babbo finirono naturalmente per indirizzarsi sull’argomento della partenza per la campagna. Aurora non voleva convincersi ad abbandonare la sua casa e a questo si aggiungeva il pensiero che il marito avrebbe approfittato della sua assenza per godersi più liberamente le sue scappatelle notturne. Robertino era abituato a questi sfoghi e mentre le parole si allontanavano sempre più nel buio della notte si immerse di nuovo nel sonno.

    La sveglia, il mattino successivo, fu data dal nonno che aveva preceduto abbondantemente il resto della famiglia nell’alzarsi da letto. Aurora, che aveva chiuso occhio solo a tratti durante la notte, si alzò lasciandosi sfuggire alcune esclamazioni di insofferenza e andò a scrollare Robertino. Il bambino aprì gli occhi, poi li richiuse, come era solito fare quando poteva rimanere a poltrire ancora un poco nel letto. Ricordò improvvisamente il programma della giornata e si sedette sul letto stropicciandosi gli occhi e cercando i suoi vestiti.

    Mamma, aiutami a vestirmi, voglio andare ad aiutare il nonno a preparare le cose per la partenza!.

    Tu pensa soprattutto a raccogliere i tuoi libri e i tuoi quaderni. Quest’anno la scuola è finita prima del solito ma non credere di essere in vacanza. Dovrai far da solo quello che non è stato possibile portare a termine a scuola gli ingiunse la mamma mentre gli porgeva i vestiti. Poco dopo nel piccolo ingresso dove Robertino stava intingendo alcuni biscotti in una tazza di latte giunse Ernesto e si sedette accanto al bambino. Non si era particolarmente preso cura del suo aspetto oltre ad aver rapidamente passato la spazzola sui capelli inumiditi. Il suo sguardo era assente, l’espressione assonnata e Robertino sapeva che era bene non stuzzicare il babbo nelle prime ore della giornata perché era solitamente insofferente e irascibile. Aurora andava avanti e indietro per la casa afferrando, sbattendo, buttando ogni tanto qualcosa nelle sporte appoggiate per terra vicino alla porta d’ingresso. Si rivolse a Robertino invitandolo senza troppi complimenti a terminare alla svelta la colazione, ma non rivolse parola al marito. Ernesto si era versato del caffè dalla cuccuma che era in mezzo al tavolo e lo stava sorseggiando lentamente immerso nei suoi pensieri. Quindi si alzò e si diresse verso la porta che immetteva nelle scale:

    Vado su in solaio a prendere le biciclette, vi aspetto di sotto.

    Aurora mise le sporte già ricolme al di fuori della porta, tornò quindi dentro l’appartamento, sollevò la cartella di Robertino rigonfia di tutto quanto lui vi aveva infilato e gliela mise a tracolla. Prese poi il bambino per mano, afferrò due sporte e si incamminò di corsa giù per le scale. Anche Ernesto era sceso e le biciclette erano nell’androne appoggiate al muro.

    Il nonno stava ancora armeggiando intorno alla sua, resa ancor più monumentale dal carico che le aveva sistemato sopra: due grandi sporte appese al manubrio e una voluminosa valigia su un improvvisato portapacchi posteriore. Sulla canna era fissato anche il sellino con relativo poggiapiedi sul quale avrebbe viaggiato Robertino. Aurora appese le sporte al manubrio della sua bicicletta, rimase a fissarla indecisa sul da farsi, quindi si girò e tenendo il viso rivolto verso il basso tornò di sopra. Dopo qualche minuto, non vedendola ridiscendere, Ernesto si diresse di sopra a lunghi passi sbuffando. Passarono pochi istanti e ridiscese seguito da Aurora che piagnucolava:

    Lasciare così la mia casa, senza sapere se e quando potremo tornare. Per la prima volta nella mia vita. Cosa troveremo al ritorno?

    Auguriamoci prima di tutto di tornare, e poi che torni la tranquillità, il resto conta di meno. Una casa si ricostruisce … disse Ernesto spazientito.

    Io resto qui ... finché sarà possibile disse il nonno ostentando la massima tranquillità non ti preoccupare per la casa. Se però arrivano le bombe non posso farci niente aggiunse avviandosi con la bicicletta condotta a mano verso l’uscita dell’androne. Fece cenno a Robertino di avvicinarsi, lo sollevò e lo infilò sul sellino fra le due grandi sporte. Montò poi anche lui in sella ma rimase fermo ad osservare gli altri mentre uscivano dal portone: la figlia con la bicicletta carica delle due sporte appese al manubrio ed Ernesto con una valigia buttata di traverso sulla canna della bicicletta.

    Il nonno partì in testa al gruppo facendo da battistrada. Era una bella mattina luminosa con il sole che faceva capolino fra i comignoli delle case. Attraversarono lo spiazzo che fiancheggiava la grande chiesa, lasciando alle spalle il loro isolato e passarono sotto l’alto campanile che, visto dal basso, sembrava conficcato con la sua punta lassù in alto nel cielo azzurro. Aurora si fermò un istante e si fece il segno della croce, borbottando qualcosa rivolta verso l’alto: una raccomandazione a modo suo.

    Se servisse, io me ne farei cento di segni della croce borbottò il nonno che si era voltato per guardare se gli altri lo seguivano speriamo non esca il prete se no lei è capace anche di fermarsi per raccontare dove stiamo andando e tutti i suoi piagnistei per la sua casa disse rivolto a Robertino che si era intanto girato anche lui.

    Nonno, non dire così, si deve dire una preghiera a Gesù quando si è in pericolo protestò il bambino ce lo hanno insegnato le suorine. Quando si è in pericolo bisogna chiudere gli occhi e chiedere aiuto a Lui.

    Tu fai come dicono le suorine, per la preghiera. Però è meglio non chiudere gli occhi quando si è in pericolo. Guardati bene intorno e cerca un modo per evitarlo disse il nonno spingendo sui pedali.

    Ma tu nonno non preghi mai? chiese Robertino. Lui rimase in silenzio e subito parve voler evitare di rispondere ma si rassegnò: Quando ero bambino nessuno mi ha insegnato a pregare. Ho cominciato presto ad andare a lavorare, così ho imparato a mie spese che occorre arrangiarsi e non sperare troppo negli altri. Fra gli operai i preti non erano ben visti e quelli che andavano in chiesa venivano canzonati.

    Il gruppetto percorse lo stradello degli orti, superò il ponte sul canale e imboccò la strada che portava verso la campagna, a nord della città. Altri gruppi di persone percorrevano la stessa strada e la loro espressione, il loro equipaggiamento facevano pensare che avessero le loro stesse intenzioni. Qualche rara automobile si annunciava con un rauco suono di trombe superandoli. Robertino guardava i campi dove il grano era già alto e ondeggiante, mosso dalla brezza del mattino, gli alberi erano verdi e rigogliosi lasciando intravedere fra le foglie i frutti ancora acerbi. Stavano andando verso il luogo dove avrebbero trascorso i mesi prima dell’arrivo di qualcosa di nuovo.

    Il passaggio del fronte Robertino lo visse lì, in campagna. Un periodo in cui si alternarono avvenimenti di ogni genere, vivendo esperienze mai conosciute in precedenza e realtà che si affacciarono spesso in maniera cruda e improvvisa. D’altra parte era un tempo in cui anche la vita e la morte erano parte di un gioco impietoso, nel quale la sopravvivenza si esprimeva con un numero, quello dei fortunati che scampavano alle bombe che cadevano sugli edifici, ai mitragliamenti degli aerei sui veicoli in movimento, ai rastrellamenti e alle fucilazioni dei tedeschi e dei loro alleati. Soltanto quando il gioco usciva dall’anonimità, il pensiero che la morte potesse ghermire qualcuno dei famigliari o dei conoscenti produceva un acuto senso di dolore e alimentava l’ansia di rivedere quelle persone in vita.

    Ora il fronte era passato e stavano tornando a casa in quella grigia giornata autunnale. Ad un certo punto dovettero fermarsi: un camion giaceva rovesciato sulla strada. Alcuni militari con in testa l’elmetto formavano un cordone intorno al camion volgendo le spalle alla strada. Senza neppure girarsi facevano cenno con la mano alla gente che sopraggiungeva di non avvicinarsi. Ernesto ritenne di avere l’autorità per cercare di passare oltre quell’ostacolo e si avvicinò ad uno dei militari. Questi, vedendolo giungere, gli intimò perentoriamente di fermarsi dove era. Ernesto mise la mano dentro la giacca ed estrasse un cartoncino, lo agitò in aria e tentò nuovamente di avvicinarsi al militare di grado più elevato. Robertino, ancora seduto sulla bicicletta del nonno, tremava dal freddo ed aveva le gambe informicolite. Sebbene indossasse due maglie di lana, le gambe erano abbondantemente scoperte a causa dei corti pantaloncini che indossava, all’interno dei quali era cresciuto durante l’estate. Quando erano partiti avevano portato con loro solo gli indumenti estivi sia perché la stagione calda era decisamente avanzata sia perché non avevano previsto di rimanere lontano da casa per così lungo tempo. Avevano anche perso buona parte di quello che avevano portato con loro alla partenza. Nei giorni critici, quando si stavano avvicinando le truppe degli alleati, furono costretti ad abbandonare la casa colonica e cercare rifugio per alcuni giorni nei cunicoli scavati sotto ai fienili. Quando poterono rientrare nel piano di sopra del cascinale trovarono le loro cose buttate all’aria e dei pochi averi che avevano portato con sé quando erano sfollati in campagna ben poco era stato lasciato. Indumenti, biancheria, articoli per la casa, qualche oggetto di valore nascosto fra di essi: in gran parte scomparsi. Anche la bicicletta di Aurora era sparita. Seppero poi che la notte precedente l’arrivo degli alleati, alcuni tedeschi sbandati e appiedati erano entrati nella casa colonica ed avevano sequestrato tutto quanto si muovesse su ruote. Carretti, carriole sulle quali sistemavano tutto quanto portavano con sé e che attaccavano poi come rimorchio alle biciclette. Lasciarono, in compenso, un loro compagno ferito ormai in fin di vita, che morì poche ore dopo adagiato sulla paglia della stalla. Anche il nonno era venuto in campagna nei giorni in cui in città si avvertiva che ormai si era giunti alla resa dei conti. Non era però sceso nel rifugio e raccontò di aver cercato di opporre resistenza al sequestro del suo bene: la sua bicicletta. Tentò di far intendere con gesti e frasi accalorate che quello era un oggetto importante per lui, indispensabile per il suo lavoro e cercava di strappare la bicicletta dalle mani del tedesco. Ma quello non sentì ragioni e gli puntò il mitra al petto accompagnando il gesto con frasi inviperite in cui risuonava spesso la parola Kaputt, kaputt. Il nonno fu così dissuaso dall’insistere ulteriormente e se ne rimase sconsolato e con le lacrime agli occhi a guardare il militare montare a cavalcioni della sua inseparabile amica. Con lei aveva fatto tanta strada durante la maggior parte della sua esistenza.

    Cat vegna na’ zident disse fra sé alzando appena un braccio verso il militare che si stava allontanando.

    Vedi, se restavo a casa, questo non mi succedeva mormorò scuotendo la testa.

    Stavano tornando a casa con l’unica bicicletta rimasta, quella di Ernesto. Lui aveva raggiunto i famigliari solo nelle ultime ore di passaggio del fronte, dopo che per alcuni giorni non erano giunte sue notizie.

    Il militare che aveva assunto un’espressione interrogativa, lasciò che Ernesto si avvicinasse e guardò quindi il cartoncino che lui mostrava. Non mostrò eccessivo interesse per quelle credenziali e di nuovo fece cenno di aspettare, ritornando a biascicare con vigore la sua gomma. Qualcuno dall’altra parte del camion pronunciò alcune frasi in inglese ed il militare ora si volse, facendo cenno alla gente in attesa di avvicinarsi: Ernesto per primo, seguito da Aurora e quindi dal nonno. In fila indiana passarono fra il camion ed il fosso in una stretta passerella formata da assi di legno. Mentre passavano udirono i militari che parlottavano fra loro e il militare al quale si era avvicinato Ernesto si rivolse ad un altro: Italian Police disse in tono sarcastico.

    Passati dall’altra parte del camion videro che erano ormai giunti in vista della periferia della città. Nella zona confluivano strade provenienti da direzioni diverse e le persone che si dirigevano verso la città divenivano via via sempre più numerose. Anche gli automezzi militari transitavano con maggiore frequenza in entrambe le direzioni, sollevando ampi schizzi di acqua dalle pozzanghere. L’atmosfera grigia e brumosa non permetteva di distinguere gli edifici della città, che in una giornata serena sarebbero stati ben visibili da dove si trovavano ora. Si sarebbe dovuto già vedere il campanile della cattedrale che si ergeva sulla piazza principale e, più in qua sulla loro destra, quasi in primo piano, quello della chiesa che si ergeva vicino alla loro casa. Nelle serate estive al ritorno dalle gite in campagna, in tempi che ora sembravano infinitamente lontani, la vista di quei campanili che brillavano nel tramonto dorato generava un senso di sollievo: segnalavano che erano prossimi alla loro casa dove si sarebbero presto gettati sul letto stanchi per la giornata movimentata e per la galoppata finale in sella alla bicicletta.

    Sul fianco della strada che avevano imboccato si delineò un muro alto che pareva non avere fine e il nonno continuando a camminare a testa bassa osservò: Di là dal muro c’è la fabbrica. Si comincia a sentire aria di casa.

    Aurora posò la valigia per terra e si guardò intorno portandosi una mano alla schiena: Ora che siamo vicini a casa comincio a sentirmi sfinita. Non trovo la forza per proseguire e si sedette sulla valigia che aveva posato per terra.

    Ernesto, che aveva proseguito lungo la strada si fermò, si volse e quindi tornò indietro sbuffando. Prese Aurora per un braccio e la esortò ad alzarsi: Su, fatti coraggio, siamo arrivati, ti riposerai a casa.

    Aurora rimase seduta tenendo le braccia penzolanti lungo i fianchi e guardando per terra: Ho paura disse ho paura per quello che troveremo. Se qualcuno in questi giorni di confusione è riuscito ad entrare in casa avrà portato via tutto!.

    Ma cosa vuoi che ti abbiano portato via! Quei pochi stracci che ci sono in casa non valgono neanche la fatica di fare le scale! disse Ernesto spazientito.

    Tu dici così perché quelle cose sono mie e della mia famiglia. Non hai contribuito molto tu ad aumentare i beni che ci sono in casa.

    Il nonno si era fermato poco più avanti e temendo per la piega che stava assumendo la discussione su argomenti già sentiti tante altre volte li incitò stizzito a proseguire verso casa.

    Dovevano pensare a Robertino che si stava lamentando per il freddo e la stanchezza. La discussione fu quindi sospesa e ripresero a camminare. Sbucarono poco dopo nella via degli orti e Robertino notò che qualcosa era cambiato rispetto all’ultima volta che era passato di là, quando erano partiti per la campagna. Al posto del largo ponte in muratura sul canale antistante il mulino, si ergeva una passerella di legno rabberciata alla meglio. Anche l’edificio ampio e squadrato del mulino, con l’ampio portale che era sempre spalancato e lasciava intravedere il lavoro che si svolgeva all’interno, aveva un aspetto diverso. Una fiancata dell’edificio era completamente diroccata ed il portone, parzialmente divelto, era serrato. Si fermarono

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