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Lullà: Sul molo e sul patino
Lullà: Sul molo e sul patino
Lullà: Sul molo e sul patino
E-book115 pagine1 ora

Lullà: Sul molo e sul patino

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Info su questo ebook

Il Geppo, un vecchio marinaio viareggino, plasmato dai venti e dalle burrasche, perde tragicamente la moglie, l’unica compagna della sua vita. Da allegro ed estroverso che era, diventa un uomo burbero e solitario, che non sa rassegnarsi. Lascia la casa di Viareggio per passare in solitudine gli ultimi anni della sua vita, rifugiandosi in un capanno sulle sponde del lago di Massaciuccoli. Quando ci arriva, vi trova Tobias, un giovane esule greco, fuggito dal suo paese perché ingiustamente accusato di un delitto. Fra i due nasce una profonda amicizia e il Geppo, nell’aiutare il fuggiasco, ritrova nuovo interesse per la vita. Aiuta il ragazzo ad affrontare l’attesa del riscatto e del ritorno a casa, insegnandogli i segreti del calafato e narrandogli le sue avventure in mare. Quando finalmente Tobias viene riconosciuto innocente e fa ritorno in patria, il vecchio si chiude nuovamente in se stesso e passa i pomeriggi sul molo di Viareggio, fissando il mare da cui attende una risposta alle sue angosce, nella segreta speranza che il giovane un giorno ritorni. Diventa così una figura misteriosa e solitaria, accoccolata su uno scoglio in cima al molo, che la gente finisce per chiamare semplicemente Lullà, quello là.

Un romanzo deliziosamente nostalgico.

Antonio Markovina, di origine dalmata, è un ex funzionario della Comunità Europea e ha svolto attività di ricerca nel campo della sicurezza dei reattori nucleari presso il Centro di Ricerca di Ispra, in provincia di Varese, dove ha svolto la maggior parte della sua carriera scientifica.

In età ormai avanzata, scrive questo breve racconto dedicandolo alla sua nipotina, appena nata, per farle assaporare i colori e i caratteri della Viareggio di un tempo, quella della sua giovinezza.
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2014
ISBN9788863966039
Lullà: Sul molo e sul patino

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    Anteprima del libro

    Lullà - Antonio Markovina

    tramonto.

    I

    Sul molo di sera

    Che tipo strano, quello là! dicevano i turisti che si affacciavano sul muretto della piazzola del faro, in cima al molo di ponente di Viareggio.

    Chi? Lù là? rispondevano i pescatori viareggini lì intorno. Nessuno sa chi è! Nessuno lo conosce!

    Da alcuni mesi veniva tutte le sere, un paio di ore prima del tramonto, con la sua bicicletta scassata e arrugginita e con la canna e gli attrezzi da pesca.

    L’aveva armeggiata in modo che ciascun pezzo avesse il suo posto giusto: la canna fissata con l’elastico al telaio, la cassetta degli arnesi sul portaoggetti posteriore, con sopra il retino per il recupero del pesce, il barattolo dei vermi sul canestro attaccato al manubrio, un seggiolino di tela fissato di lato, ma questo usato qualche volta solo nei primi tempi. La bicicletta l’appoggiava al muretto, scioglieva i legacci e con la canna e il barattolo dei vermi in una mano e la cassetta e il retino nell’altra si arrampicava sul muretto e scendeva verso la punta del molo.

    Si metteva a sedere sempre al solito posto, sullo scoglio più avanzato, che era diventato il suo posto. Per arrivarci, dopo aver scavalcato il muretto, bisognava passare in equilibrio da un masso all’altro; quello era il più avanzato verso il mare, più grosso e un po’ più alto degli altri e aveva un pianoro su cui mettersi a sedere, le gambe penzoloni verso il mare. Si distingueva perché era quasi bianco.

    Gli altri pescatori lo sapevano che lui voleva sempre quel posto e nessuno si azzardava a portarglielo via. Quando era successo, lui era rimasto fermo in piedi sul muretto a guardare l’intruso con fare addolorato. Finché quello, anche sollecitato dagli altri pescatori, si allontanava.

    I pescatori più giovani, che arrivavano con il motorino e con le canne nuove, qualche volta si lasciavano andare a commenti arguti e piccanti.

    Lù là ha le traveggole, ha delle fantasie per la testa. Un giorno o l’altro finisce in mare.

    Ma venivano subito ripresi: Non v’azzardate a molestarlo. Lù là vive in un mondo suo e non dà noia a nessuno. Bisogna rispettarlo.

    Ma che ci viene a fare sul molo, visto che non pesca mai nulla? insistevano.

    Questo lo sa solo lui, concludevano i pescatori più vecchi.

    Così, a poco a poco, i lucchesi e i pistoiesi, che venivano a passare il pomeriggio a Viareggio, anche nei giorni freddi ma chiari dell’inverno, avevano preso l’abitudine di chiamarlo semplicemente Lullà. Dicevano ai conoscenti: Se vai a Viareggio, vai in cima al molo, dove ogni boccata d’aria vale mille lire e si può vedere tutta Viareggio circondata dalle montagne, e chiedi di Lullà.

    Era vestito sempre uguale, d’inverno e d’estate, l’unica differenza era un maglione a collo alto sopra la camicia. Aveva un impermeabile scuro, che gli scendeva sotto le ginocchia e un cappellaccio di tela, che gli copriva buona parte delle spalle e gli nascondeva il viso. Gli serviva anche per ripararsi dalla pioggia e dagli spruzzi, quando il mare si alzava.

    Se qualcuno gli rivolgeva la parola, non rispondeva, al massimo faceva spallucce. A volte lo sentivano borbottare fra sé, ma lo faceva sottovoce e non si capiva cosa dicesse. Soltanto ai pescatori più anziani, che si ritrovavano tutte le sere sul molo insieme a lui, dava retta.

    Com’è stasera? Abbocchino?

    Si voltava e rispondeva con un Eh, eh, che voleva dire tutto e niente e agitava la mano verso il mare, come a dire stanno laggiù o chissà quale altra cosa.

    Allora si vedeva la sua faccia, quella di un vecchio rugoso, magro, gli zigomi sporgenti e le guance infossate, la barba bianca e le ciglia folte; il vento e il salmastro l’avevano scavata. Teneva un sigaro fra le labbra, l’immancabile toscano, che accendeva raramente ma che biascicava in continuazione e se lo passava da una parte all’altra della bocca, ritmicamente, come a voler scandire il tempo. Le mani portavano il segno dei tanti anni di duro lavoro, mani secche, callose, con le vene in rilievo e la pelle vizza; gli occhi erano azzurri come il mare, lo sguardo vivo e acuto, che si fissava sull’interlocutore fino a volerlo penetrare.

    Pochi lo hanno visto prendere pesci, sembrava quasi che non si curasse che abboccassero e che il verme fosse ancora attaccato all’amo, che gli importasse solo di stare là di fronte al mare. Tirava su la canna ogni tanto e poi la ributtava con un movimento meccanico, senza interesse. Guardava a lungo il mare, con lo sguardo perso in lontananza, oltre l’altro molo, oltre l’altro faro, da dove arrivavano i pescherecci e le barche da turismo. Sembrava che cercasse qualcosa, che volesse vedere lontano.

    A poco a poco anche i vecchi pescatori avevano perso interesse a sapere chi fosse. Nessuno era riuscito a parlarci e a scambiarci più di due parole. Ormai era diventato parte del paesaggio, lo accettavano come uno di loro, anche se percepivano che era diverso, che dietro quel fagotto scuro seduto sullo scoglio si nascondeva forse un mistero. Quando arrivavano sul molo verso sera, prima di smontare gli attrezzi e allestire la canna, si affacciavano per vedere se c’era e se c’era voleva dire che era tutto a posto.

    Lui si metteva a sedere sul suo scoglio e sembrava disinteressarsi di tutto quello che avveniva alle sue spalle; guardava solo verso il mare e, anche quando il mare si faceva grosso e le ondate salivano sopra gli scogli fino al muretto della piazzola e non era possibile pescare, lui se ne stava per ore al riparo della colonna del faro a guardare lontano, tanto aveva il suo mantello e il cappello che lo riparavano dagli spruzzi. Non voleva mancare, tardava ad andare via.

    Arrivava sempre alla solita ora ed era l’ultimo ad andare via, con il sole ormai tramontato, che quasi non ci si vedeva più, e con le luci sulla riviera della Versilia e sulle colline intorno, che si accendevano a una a una. Quando il mare era in bonaccia e si sentiva solo lo sciabordio delle onde sugli scogli e gli altri pescatori se ne erano già andati, lui era ancora lì, mentre le lampare uscivano lentamente dal porto e si dirigevano verso quell’angolo di mare, lontano un chilometro o due, dove le attendevano ciortoni[1] e aguglie in quantità.

    [1] Sgombri. 

    II

    In darsena si ricordavano di lui

    In darsena qualcuno si ricordava di lui, anche se era passato molto tempo da quando lo vedevano aggirarsi fra le bancarelle del pesce, lungo il canale della Burlamacca,[1] a dare una mano alla sua Rosi oppure vicino al suo peschereccio sulla banchina ad aggiustare le reti, danneggiate nell’ultima uscita.

    Abitava a quei tempi in una delle viareggine che si affacciano sul canale, prima del ponte girante, sul Lungo Canale Est, accanto alla fabbrica del ghiaccio.

    Si chiamava Gianpiero, ma era conosciuto come il Geppo e viveva con la moglie, che lui chiamava la mì’ Rosi.

    Era una coppia strana, lui sempre allegro e pronto alla battuta, il carattere salmastroso dei viareggini, rudi, ignoranti, ma schietti e generosi. Lei un po’ in carne, non troppo alta, il viso rotondo, i capelli neri lunghi sulle spalle e lo sguardo severo; era diversa dalle altre popolane di darsena, che avevano sempre il tono di voce spostato verso l’alto e il de la fia[2] ripetuto ogni cinque parole. Era di gergo gentile, ma fermo e tirava sempre al concreto.

    Li sentivano spesso discutere animatamente, vociare a voce alta. Ma non era un litigare cattivo. Era piuttosto un dialogare aspro e grossolano, che lasciava capire che, sotto sotto, c’era dell’affetto. Si sentiva soprattutto la voce della Rosi, era lei la padrona di casa, che guidava la vita della

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