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Gnosi Protocristiana: Iniziazione dei vivi e dei morti nel giudeo-cristianesimo
Gnosi Protocristiana: Iniziazione dei vivi e dei morti nel giudeo-cristianesimo
Gnosi Protocristiana: Iniziazione dei vivi e dei morti nel giudeo-cristianesimo
E-book822 pagine11 ore

Gnosi Protocristiana: Iniziazione dei vivi e dei morti nel giudeo-cristianesimo

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Scritto nato dalle riflessioni del teologo Emmanuele Testa, che analizzò minuziosamente un patrimonio di testimonianze e reperti trascurati dai ricercatori, i quali non ne avevano minimamente colto l’importanza, che testimoniano della diffusione di una dottrina e di un metodo contrastanti con gli insegnamenti contenuti nei Novissimi in merito all’esercizio delle capacità agonali dell’anima durante il trapasso. Questa pratica arcaica è accostabile a forme simili presenti in altre tradizioni, come quella estremo-orientale e quella egizia, oggi ben conosciute, e mostrano un’universalità di atteggiamento in ordine alle possibilità postume di “combattimento” dell’anima. Agonico e agonale coincidono: veri viaggi mistici, di stati di coscienza estatici. Una vera miniera inesplorata di possibilità “sottili”. Ci accorgiamo così della abissale differenza che l’approccio “tradizionale”, fideistico, ha con l’altro, esperienziale e quindi legato alla conoscenza sacra, propria della cardiognosis, che rimuove l’ignoranza metafisica e presuppone la capacità del soggetto, tramite una rigorosa disciplina iniziatica e opportune tecniche, di separare, volontariamente, il corpo dall’anima. Nel giudeo-cristianesimo non si parla di “salvezza” ma di theosis e quindi della possibilità che, attraverso la pratica inziatica, l’esperiente si indii a seguito di previsti passaggi iniziatici.
LinguaItaliano
Data di uscita16 ott 2023
ISBN9791280418593
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    Anteprima del libro

    Gnosi Protocristiana - Antonio Bonifacio

    Gnosi-protocristiana_cover-a.jpg

    Antonio Bonifacio

    GNOSI PROTOCRISTIANA

    Iniziazione dei vivi e dei morti

    nel giudeo cristianesimo

    Giacomo e Paolo: due cristianesimi tra confronto e scontro

    cristianesimo0_1cristianesimo0_2

    Ad Alessandro, mio figlio.

    «Siccome i vescovi della circoncisione ebbero termine dopo la rivolta di Bar Kokba, è giusto a questo punto esporre l’elenco dei loro nomi dal principio. Il primo quindi fu Giacomo, il cosiddetto fratello del Signore; il secondo Simeone, il terzo Giusto, il quarto Zaccheo; il quinto Tobia, il sesto Beniamino; il settimo Giovanni; l’ottavo Mattia; il nono Filippo; il decimo Seneca, l’undicesimo Giusto, il dodicesimo Levi, il tredicesimo Efrem, il quattordicesimo Giuseppe, e infine il quindicesimo Giuda. Questi sono i vescovi di Gerusalemme vissuti dal tempo degli apostoli fino a quella data, tutti appartenenti alla circoncisione».

    (Eusebio di Cesarea: Storia ecclesiastica, libro IV, capitolo 5,34)

    Premessa

    Abbiamo affermato che il processo d’enunciazione dogmatica fu nei primi secoli quello dell’Iniziazione graduale. Che vi erano in breve un exoterismo e un esoterismo nella religione cristiana. Piaccia o no agli storici, si trovano incontestabilmente le vestigia della legge dell’arcano all’origine della nostra religione.

    (P. Villaud: Etudes d’ésoterisme càtholique, in F. Schuon: L’unità trascendente delle religioni)

    Questo scritto non sarebbe nato se non ci avessero fortemente colpito alcune riflessioni dell’archeologo e teologo francescano Emmanuele Testa, che visse e insegnò in Terra Santa per tutta la seconda metà del secolo appena trascorso, parole, queste sue, appena sotto riprodotte, che costituiscono il basamento stesso del suo corposo volume, ristampato alcuni anni fa, a distanza di oltre quarant’anni dalla sua prima uscita[1].

    Questa è la frase che, più d’ogni altra, ci ha mosso nell’elaborare lo scritto che qui si presenta: I riti d’iniziazione dei vivi e dei morti (presso i giudeo cristiani n.d.r.) avevano lo scopo di facilitare il buon viaggio del mistico o del defunto dalla terra o dalla tomba alla presenza di Dio, attraverso le tre regioni cosmiche: la tomba, l’aria, e i sette cieli che si trovano nel Chenoma e nel Pleroma (Il buon viaggio cosmico).

    Il potenziale di questa frase è, ad avviso di chi scrive, enorme[2].

    Padre Testa intravedeva nel primigenio cristianesimo (il giudeo-cristiano), comunque ortodosso, la possibilità di giungere al cospetto di Dio, da vivi e in forma pressoché volontaria, attraverso una modalità d’iniziazione in grado di distaccare l’anima dalla corporeità e adiuvare il suo complesso viaggio celeste e così, parimenti, sosteneva che ciò poteva avvenire da defunti, operando sempre attraverso lo strumento dell’iniziazione un’attività rituale che principiava dallo stato agonico del soggetto e proseguiva addirittura nella tomba, utilizzando anche adeguati viatici (sigilli, segni, lettere alfabetiche) collocati, più o meno occultamente, nel sepolcro. Essi avrebbero avuto lo scopo di istruire e accompagnare l’anima nel suo percorso post mortale fino all’auspicata dimora finale.

    Tale vero e proprio patrimonio di testimonianze è stato posto minuziosamente all’attenzione da padre Testa stesso nel suo volume; si tratta di reperti che, fino alla loro valorizzazione, erano stati assolutamente trascurati dai ricercatori che, almeno così sembra, non ne avevano minimamente colto non solo l’importanza, ma la stessa semplice presenza e che ci testimoniano la diffusione di una dottrina e di un metodo che paiono persino contrastare con gli insegnamenti contenuti nei Novissimi (le ‘cose ultime’) in merito all’esercizio delle capacità agonali dell’anima durante il trapasso. Se confrontiamo le parole proposte da padre Testa e i concetti che esse veicolano, con quanto si indica attualmente come contenuto della iniziazione cristiana realizzata attraverso i sacramenti, notiamo un evidente iato.

    Questa documentata pratica arcaica si può accostare, almeno schematicamente, a consimili forme di salvezza post-mortale presenti in altre tradizioni, per esempio a quella estremo-orientale e a quella egizia, che sono, ai nostri tempi, ben conosciute in conseguenza della considerevole letteratura di commento che si è sviluppata intorno alla tanatologia spirituale in esse configurata. Tali viatici mostrano un’universalità di atteggiamento, pur nelle sue variegate declinazioni, in ordine alle possibilità postume di combattimento dell’anima: agonico e agonale pressoché coincidono.

    Se confrontiamo le parole proposte da padre Testa e i concetti che esse veicolano, con quanto si indica attualmente come contenuto della iniziazione cristiana sacramentaria, si verifica facilmente che essa ha espunto ogni riferimento al compimento di viaggi mistici, esperiti in uno stato di coscienza evidentemente estatico, consentito dall’apparato fisiologico di sostegno che, si potrebbe dire, è di natura sephirotica. Si è di fronte a una vera e propria obnubilata miniera inesplorata di possibilità sottili, e questo ci fa accorgere della abissale differenza che separa i due approcci: l’uno è fideistico, l’altro è, anche, anzi soprattutto, esperienziale e quindi legato alla conoscenza sacra, propria della cardiognosis, che rimuove l’ignoranza metafisica e che presuppone la ordinaria capacità del soggetto di separare volontariamente, con opportune tecniche, il corpo dall’anima, facoltà potenziale che può attualizzarsi solo attraverso una rigorosa disciplina iniziatica, salvo sporadiche eccezioni in cui il sacro si versa, senza mediazioni, direttamente nell’immanenza investendo, con irresistibile forza folgorativa, il soggetto orante.

    Quest’ultimo aspetto rimanda al numinoso di Rudolph Otto, al sacro come esperienza commista di tremendo e misterioso e congiuntamente fascinante che però, detto per inciso, avrebbe come rifermento un tipo umano già fortemente alterato dal distanziamento con il divino. Chi meglio di Otto si è espresso sul tema dell’alterità che è sempre vicina con la sua grazia all’uomo pio e devoto? Gli dèi, nel contesto del mondo classico, oggetto dei suoi studi, non sono frutto di invenzioni, elucubrazioni o rappresentazioni, possono costituire una forma di esperienza teurgica manifestandosi come potenze individualizzate, aspetti dell’Uno, direttamente sperimentabili in un sempre possibile incontro, quello stesso incontro grazioso che Jean Richer, appassionato grecista, ha più volte evocato nei suoi studi. Gli dèi, nei miti, nelle ierostorie e quindi nel rito manifestano direttamente la loro presenza, l’audizione/comprensione della loro voce è legata al grado di capacità di ascolto spirituale nella nostra anima (il cosiddetto ascolto akroatico che era possibile nella civiltà greca e latina e, forse, ancor di più in quella egizia, segnandosi così con il silenzio degli oracoli una netta frattura antropologica tra due tipi umani, tra l’uomo che ode e l’uomo che non ode più)[1].

    Così tutti quei popoli, in cui l’extraumano si svela in varie forme - dèi, angeli o spiriti -, assumono che queste entità, variamente immaginate (e visibili nell’immaginale), assolvono al compito vitale di essere autentiche rivelazioni ontologiche. Non fantasticherie nate da sogni evaporanti dall’anima, piuttosto immagini scaturenti dalla lucida contemplazione consentita dai sensi spirituali, infine spalancati sull’essere delle cose. Non stupisca la presenza di questa riflessione, apparentemente estranea all’argomento, nel contesto introduttivo del nostro lavoro dedicato al cristianesimo delle origini: sarà lo stesso padre Testa infatti a inserire la vicenda sciamanica di Omero, intesa come viaggio, comparabile a quello di altre tradizioni, compresa quella giudeo-cristiana, che infine appare solo come l’adattamento di una dottrina a un pattern precostituito e quindi identificabile, pressoché come in un rapporto di specie genere, in una categoria universale, definibile come viaggio mistico, che si esprime con le modalità proprie di un linguaggio allusivamente specifico.

    Di contro a questo carattere implicitamente sciamanico dell’esperienza mistica in questa manifestazione primigenia del giudeo cristianesimo (del resto è stato un allievo di Giorgio Colli, Angelo Tonelli a definire gli insegnamenti cristici come sciamanici), si ha la diversa concezione dell’iniziazione cristiana espressa dal liturgista Albert Hossiau nell’articolo I riti dell’iniziazione cristiana. Qui il noto teologo, ignorando completamente nella sua esposizione il giudeo-cristianesimo nazaretano e, con esso, il dato fondamentale della sua struttura liturgica a sfondo iniziatico, appena prima evocato, scrive, in posizione involontariamente antipodale alla precedente: Il significato originale dei riti di iniziazione cristiana si comprende solo all’interno dello specifico universo simbolico cristiano, la salvezza attraverso e negli avvenimenti della morte e della resurrezione di Gesù Cristo (p.215).

    In realtà di questa impronta originale non pare vi sia una qualche traccia evidente nel giudeo - cristianesimo che attinge piuttosto alla narrazione esperienziale dei viaggi celesti della tradizione apocrifa vetero-testamentaria e neo-testamentaria, senza dimenticare cenni al platonismo in generale (il viaggio di Er). Del resto, la locuzione Albert Hossiau ha tutte le caratteristiche dell’ambiguità, in un terreno in cui al credere si può associare, o meno, all’esperire la stessa vicenda di Gesù ed in cui del salto ontologico, conseguenza naturale della riuscita della pratica iniziatica, non pare esservi riprova alcuna.

    Nel giudeo-cristianesimo, come si vedrà, non si parla di salvezza ma semmai di Theosis e quindi della possibilità che, attraverso la pratica, l’esperiente si indii a seguito dei previsti passaggi iniziatici di cui si parlerà nel presente scritto.

    Questa omissione, sia pure presunta, sarà il nostro tema in quanto, ci permettiamo di fare nostre, in base a un approccio certamente più divulgativo rispetto al ponderoso e poderoso lavoro di padre Testa, le parole di Anna Comnena, credendo con ciò di proporre come questi aspetti primigeni della religione predominante ora in Occidente, meritino, senza alcun dubbio o tentennamento, d’essere meglio conosciuti perché tratteggiamo l’esistenza di una condizione spirituale che, se non perduta, quanto meno è grandemente obliata.

    Scriveva la storiografa bizantina: Il Tempo, nel suo scorrere perpetuo e irresistibile, trascina via con sé tutte le cose create, e le sprofonda negli abissi dell’oscurità, siano esse azioni di nessun conto o, al contrario, azioni grandi e degne di essere celebrate, e pertanto, come dice il grande poeta tragico, porta alla luce ciò che era nascosto e avvolge nell’oscurità ciò che è manifesto [Sofocle]. Ma il racconto dell’indagine storiografica è un valido argine contro il fluire del tempo, e in certo modo costituisce un ostacolo al suo flusso irresistibile, e afferrando con una salda presa quante più cose galleggiano sulla sua superficie, impedisce che scivolino via e si perdano nell’abisso dell’Oblio".

    Per conseguenza, dopo aver consultato il folto materiale messo a disposizione sul tema, è stato naturale scegliere, come via espositiva pressoché obbligatoria, quella del libro, in luogo di un sintetico articolo che avrebbe necessariamente compresso, oltre misura, le enormi potenzialità della materia, mortificando certamente un tema di così fruttuoso contenuto, soprattutto per le indefinite possibilità che esso offre da un punto di vista della comparazione storico-religiosa.

    La forma libresca permette evidentemente una trattazione più estesa in cui è possibile adeguatamente valorizzare reperti e testimonianze difficilmente accessibili, cercando, comunque, di mantenere ben aperta la forbice che marca la distanza tra corretta divulgazione e volgarizzazione.

    Come al solito il lettore è giudice dell’opportunità di questa operazione ed a Lui si affida questa piccola fatica che, evidentemente, non ha alcuna pretesa di approfondimento specialistico del tema. Essa costituisce un mero incipit che ha il solo scopo di porre correttamente in evidenza un tema che, allo stato, è pressoché inedito, e teologicamente assai lontano dalle istanze della contemporaneità, mantenendo appieno il rispetto delle fonti. Coloro che si sentiranno stimolati e coinvolti da tali tematiche potranno ovviamente proseguire personalmente la ricerca, vista la pingue bibliografia che si ha a disposizione.


    Note:

    [1] Nel corso della presenta opera si userà costantemente la locuzione giudeo-cristianesimo perché è quella che correntemente negli studi identifica gli ebrei credenti in Gesù Cristo. Questa d’altronde sarebbe la dizione più corretta per identificare tale movimento dal momento che di cristianesimo si può cominciare a parlare solo ben più avanti nella storia. Tuttavia, uno studioso del calibro di Simone Claude Minouni ha potuto parlare di comunità nazoreana cristiana di Gerusalemme alludendo evidentemente alla primigenia comunità del Sion che, per questo ricercatore, sarebbe stata fondata dallo stesso Cristo, antecedentemente alla sua Passione e Resurrezione. Le cristofanie evangeliche, apocrife e gnostiche, sarebbero quindi già momenti successivi che insisterebbero su un già consolidato apparato dottrinale. Con l’occasione vogliamo aggiungere la definizione proposta da un altro studioso, Riccardo Petroni, idonea a contrassegnare questa comunità delle origini, ovvero movimento giudeo messianico.

    [2] Il tema del viaggio cosmico costituisce un vero e proprio leit-motiv di tutta l’iniziazione nazarena e per questo se ne vogliono, qui, fin da ora, indicare i punti essenziali che accompagneranno tutto il corso dello studio, perché davvero ci si trova di fronte a una cattedrale di dottrina e prassi da tempo inghiottite che vanno opportunamente resuscitate. Come annota padre Testa si possono identificare tre stati fondamentali di questo complesso itinerario che coincidono poi con le tappe del monachesimo medioevale e che identificano tre regioni di passaggio o stazioni dell’anima. Le tappe sono: purificazione,illuminazione e unione. Quanto la prima, essa consisteva in vari passaggi. Il primo di essi si risolve in un esame di coscienza davanti al Cristo – Sole,attraverso un esame degli otto vizi capitali e nella liberazione dalle catene di tali vizi, la liberazione era conseguita mediante riti di iniziazione che si compivano dopo profonde meditazioni operate nelle spelonche mistiche. Questo però era solo l’esordio del percorso perché l’anima, abbandonando ogni attaccamento, doveva addentrarsi nella tenebra fino a raggiungere un determinato luogo identificato come il Paradiso terrestre, contraddistinto da un’isola dominata da una alta montagna e posta all’estremo occidente della Terra. L’asceta o il morto, sottolinea padre Testa, era chiamato a ulteriori meditazioni fino a giungere a contemplare le sette stelle richiamate da Dante e i tre globi fissi del suo itinerario che portano a Dio. Qui inizia la via illuminativa che si compie ascendendo ai sette cieli in cui nell’ultimo l’anima gode della visione degli angeli e dei santi, si potrebbe dire che consegue una visione isoangelica. Ma il settimo cielo è ancora un limite per l’iniziato che può completare il suo itinerario (superando quindi la stessa sfera della santità) penetrando nei tre cieli delle stelle immobili fino a giungere nel Regno di Dio e avere una visione facciale dello stesso. È questa la terza tappa l’unione con Dio che determina l’indiarsi dell’asceta. (cfr. E. Testa: 2004, 117, 118).

    [3] Siccome il termine akroatico si riferisce a un concetto assai complesso e crediamo che sia utile proporre questa lucida pagina di Nuccio d’Anna esplicativa del tema: Sicché per ripetere ancora le parole di Hans Keyser, ‘a fianco della percezione visiva del mondo (aithesis) l’armonistica pone quale fattore gnoseologico di pari importanza, qualcosa di fino ad allora sconosciuto, la percezione uditiva del mondo’. E poiché quelle che chiama ‘forme armonicali’ hanno anche la capacità di essere vissute e percepite interiormente, il ritmo con il quale esse si rivelano e parlano al mondo può essere controllato non con la mente, che è solamente una facoltà mediatrice in grado di interpretarne lo sviluppo logico e le consequenzialità esplicative su un piano di mera astrazione, ma con l’anima, che secondo Kayser è ordinata per l’utilizzo di adeguate ‘forme armonicali’ ed è perciò in grado di poterne assimilare il significato, il ritmo e la stessa potenza creativa che dimora nel puro e insondabile silenzio originario (Nuccio D’Anna, Atti del convegno L’armonia del mondo – Hans Kayser e le forme della scienza pitagorica, p.18). Ci imbatteremo costantemente nel corso dell’esposizione in questo caratteristico sentire dell’anima.

    Parte prima

    Capitolo Primo: Nel mare magnum del protocristianesimo si naviga a vista

    ...che il cristianesimo storico sia stato qualcosa di molto differente dal cristianesimo primitivo è una banale constatazione, Gesù sarebbe stato il primo a stupirsi di ciò che ne è stato del suo insegnamento e i membri della comunità di Gerusalemme avrebbero fatto molta fatica a immaginare cosa sarebbe diventata la Chiesa. (Alain de Benoist: Gesù e i suoi fratelli)

    Introduzione

    L’affermazione per la quale la Tradizione Apostolica e il Magistero che ne è scaturito copre pressoché tutti i duemila anni della storia della Chiesa dall’anno della crocifissione ai nostri giorni, senza alterazione alcuna, stabilendo l’esistenza di un’ortodossia imperitura, al cui margine si sono addensate lungo i secoli una legione di correnti eretiche e scismatiche, appare odiernamente affermazione assai problematica. Il cristianesimo non sembra affatto nato in maniera così monolitica, come Minerva dalla testa di Giove, armato del suo patrimonio dottrinale inscalfibile, granitico, fin da subito. Per questo è necessario riandare ai primordi dello stesso e, con l’ausilio dei nuovi dati che si hanno oggi a disposizione, tornare a esplorare luoghi e personaggi dell’epoca gesuana, per rimettere di nuovo in gioco il tema dell’ortodossia, anche attraverso un confronto dei testi, diversissimi, che furono alla base dei, molteplici cristianesimi perduti.

    La cattedrale inghiottita

    Non deve stupire che i più puri iniziati all’esoterismo biblico, gli Esseni, siano passati, fin da principio al cristianesimo, seguaci della tradizione messianica illuminati preparatori in occulto della venuta di Cristo, erano già qualificati per riconoscerlo e per integrare le antiche conoscenze arcane dell’Antico Testamento, con gli insegnamenti del Figlio di Dio. (Paolo Virio: La Kabbalah cristiana, p. 17)

    Diversi decenni fa sono stati recuperati, a poca distanza di tempo uno dall’altro, due depositi di testi di capitale importanza per lo studio del cristianesimo delle origini.

    Accadde che le sabbie del deserto restituissero un’intera biblioteca gnostica, congiuntamente ad altri testi pagani (nel 1945) che ad essa s’accompagnavano, un giacimento di tesori che si era provvidenzialmente conservato nelle prossimità di un monastero pacomiano[1] in località Jabal al-Tarif o Nag Hammadi, conosciuta altrimenti come Isola Elefantina[2], dove questo prezioso deposito era stato accuratamente occultato. Grazie a queste testimonianze ci si trova di fronte, con ragionevole certezza, a una comunità cristiana di gnostici presenti in un ambito territoriale ove il monachesimo era di preponderante diffusione. Al momento del cambio di vento, conseguente alle ferree disposizioni di Atanasio, in ordine alla liceità dottrinale dei testi da considerarsi ispirativamente redatti, questa comunità nascose con cura, così si presume, i libri della propria biblioteca monastica, riponendo scrupolosamente nelle giare tredici volumi, ormai compromettenti, scritti in copto, che furono occultati per essere infine tratti dal loro oblio secolare quasi due millenni dopo.

    Questo nascondimento, che mascherava l’evidente intento di un possibile futuro recupero, altrimenti i libri considerati eretici avrebbero dovuto essere direttamente bruciati in esecuzione delle disposizioni ricevute, mostra come le istruzioni trasmesse dal citato vescovo alessandrino Atanasio nella Lettera festiva 39a del 367, inerenti la determinazione dei testi da ritenere ortodossi e quindi da impiegarsi nella liturgia – mentre tra i deuterocanonici inserisce la Didaché e il Pastore di Erma giudicandoli validi per i neofiti, anche se non canonici -, evidenzi di riflesso l’esistenza di una sorta di straordinario brodo primordiale di scritti e tradizioni inerenti la neo religione cristiana. Questo magmatico e variegato corpus, a distanza di oltre tre secoli dalla morte del Cristo, circolava liberamente tra le due sponde del Mediterraneo ed era costituito da materiale utilizzato liberamente da cristiani di diversa sensibilità che appartenevano a gruppi organizzati che non nutrivano affatto dubbi circa la loro appartenenza all’ortodossia[3].

    Quello del riconoscimento della canonicità delle scritture sacre era il vero problema principiale della nuova religione. Ci si muoveva, infatti, in un vero e proprio mare magnum, agitato da varie correnti di pensiero che acerrimamente disputavano tra loro circa la proprietà del vero deposito scritturale del cristianesimo. Ognuna delle parti, asseriva di essere in possesso del vero deposito e, per conseguenza, dichiarava falso quello dell’altro. Il clima generato dalle disposizioni della Lettera Festiva voleva arrestare questo moto centripeto imponendo varie censure, e tale orientamento si consoliderà e contrassegnerà l’azione dell’ortodossia da qui ai secoli successivi.

    In quelle vivacissime regioni ci si trova sostanzialmente e sincronicamente di fronte agli stessi problemi. Sono questi gli anni nei quali dilagano, specie nelle città, le campagne contro gli «eretici» dirette dai rappresentanti della Grande Chiesa ormai stabilmente consolidatasi. I vescovi e i capi di comunità a loro legati sono in grado non solo di proclamare ma anche di far rispettare quell’unica verità, ormai statuita e, per conseguenza, questi sono anche gli anni nei quali è illecito detenere materiale non canonico ed è quindi considerato reato il possesso di libri non conformi a quelli ufficiali della ortodossia. Sono gli anni nei quali la religione cristiana diventa religione di Stato e i suoi rappresentanti ufficiali, sulla base delle ferree disposizioni contenute nella normativa teodosiana, perseguitano gli eretici, e, per conseguenza, i loro libri vengono bruciati e distrutti[4].

    Passiamo ora all’altro giacimento.

    Un poco più avanti negli anni dai ritrovamenti di Nag Hammadi (1947-1956) seguì la scoperta, egualmente fondamentale, dei Manoscritti del Mar Morto e ciò avvenne nella località desertica di Qumran. Alcuni di questi reperti appena precedono il cristianesimo e la lenta pubblicazione di questi documenti ha indotto molti studiosi a sospettare quasi la presenza di una volontà di oscuramento del materiale rinvenuto, in ragione della possibile messa in crisi delle consolidate teorie finora circolanti sul cristianesimo delle origini. C’è da dire che sul ritrovamento pende la spada di Damocle di una generica possibile falsificazione moderna, falsificazione che, al momento, sarebbe limitata ai frammenti che riguardano il Genesi, perché falsi, essi, di recente, sono stati dichiarati.

    Seppure da un punto di vista archeologico l’ordine dei ritrovamenti ha portato a rinvenire prima una, quasi intatta, biblioteca gnostica e, poco dopo, il deposito di Qumran, evidentemente, dal punto di vista della cronologia storica, la natura dei testi del secondo ricupero è antecedente al primo. Tra i due giacimenti esisterebbe comunque un sorprendente filo di continuità, come indica lo specialista Luigi Moraldi in una sua brillante riflessione in ordine al tema dell’origine della gnosi, tema su cui s’inciamperà in continuazione su queste pagine.

    La gnosi sarebbe contrassegnata da una volontà di rottura con l’ordine costituito. Gli Esseni, che custodivano Qumran, come si vedrà più in dettaglio in prosieguo, erano stati un movimento di rivolta e avevano infatti rotto col Giudaismo ufficiale e con la vita sociale degli Ebrei del tempo, tanto che si erano ritirati nel deserto presso il Wadi Qumran iniziando un genere di esistenza totalmente nuovo. A Nag Hammadi, scopriamo la presenza di un testo significativo che fa da ponte tra gli gnostici esseni qumranici e gli gnostici cristiani, si tratta dell’Apocalisse di Adamo, documento che è anche conosciuto come La genesi gnostica (Cod. V). In esso si descrive come il primo uomo di quaggiù trasmetta il suo singolare testamento al figlio Seth, il terzo figlio della coppia primordiale: Così, scrive James M. Robinson, la storia dello gnosticismo, secondo la documentazione della biblioteca di Nag Hammadi inizia all’incirca ove la storia degli Esseni, secondo la documentazione dei Rotoli del Mar Morto, finisce (Luigi Moraldi: Testi gnostici, 1992, 91).

    Diversamente dai testi che si conoscono e che formano il mutevole Canone (mutevole in quanto non ci si è fatto scrupolo di modificare pro domo sua testi già canonizzati; lo si vedrà meglio più avanti) gli scritti di queste due biblioteche sono rimasti intatti, conservati nei loro depositi come un insetto nell’ambra e possono offrire una ghiotta occasione di confronto e integrazione con la letteratura successiva. In ogni caso i motivi che riguardano l’autenticità dei testi che si sono salvati dalla possibile manipolazione dal degrado o addirittura dalla distruzione sono molteplici e concorrenti. Gli scritti che oggi fanno pare del Canone sono stati riconosciuti come divinamente ispirati solo nel IV secolo, e ciò è accaduto tra mille accese controversie. Si trattò di conflitti dottrinali asperrimi, di durata davvero secolare, intercorsi fra parti avverse e molti di questi documenti sono passati, per nulla indenni, di mano in mano, di scriba in scriba, dal tempo ignoto in cui furono scritti fino alla loro definitiva canonizzazione, continuando però a essere, più o meno volontariamente, alterati.

    Per conseguenza questo tipo di trasmissione ha generato errori di trascrizione e la inevitabile possibilità di interpolazione, cosciente o involontaria che essa sia stata, non esistendo un’originale biffato a garanzia della loro autenticità originaria.

    Parrebbe che in giro per il mondo ci siano ben 5400 copie del Nuovo Testamento compilate in diverse epoche e nessuna di esse, così si scrive, appare esente da variazioni rispetto all’identico passo una volta che questo sia messo a confronto da quello proveniente da altro scritto. A volte tali differenze sono davvero significative, rendendo assai complesso, se non disperato, il lavoro dei filologi (per esempio esiste un conflitto tra i sinottici sul tema della temporalità dell’Ultima cena, che si tratterà in seguito). Per questo, se è pur vero che tutti gli apocrifi sono pseudoepigrafici, è altrettanto vero che i Vangeli canonici sono attribuiti ai quattro evangelisti solo per tradizione, senza possibilità di un oggettivo riscontro circa la reale paternità del testo. Un altro, se pur breve, appunto è da fare sul valore dei testi apocrifi. Essi, secondo Origene, sono stati così definiti perché ‘nascosti’, in quanto nascosti alla divulgazione, ma questa loro ascosità è frutto della prudenza dei loro possibili fruitori, perché: lo Spirito Santo ha voluto che i testi apocrifi fossero nascosti perché contenenti concetti superiori all’umana intelligenza; perciò non bisogna far posto ad essi tra i testi canonici in quanto non si devono spostare i limiti eterni che i nostri Padri hanno stabilito (Paolo Galiano: 2001, 21). Tuttavia, avverte l’autore di questa osservazione, Origene considerava stimabilissimi tali scritti in quanto, probabilmente, essi raccoglievano un’ampia tradizione orale, richiamando, Egli, altresì, il fatto che i testi da lui apprezzati non coincidono con quelli comunque pervenutici e, in ogni caso, il Padre della Chiesa sottolineava che tale coincidenza sia solo parziale perché alcuni di essi, lo si sa o, comunque, lo si presume, sono andati perduti. Resta il fatto fondamentale: per Origene, grossolanamente esplicitando la tematica, sussisteva, congiuntamente, una letteratura evangelica per tutti accanto a un’altra riservata ai pochi[5].

    Un possibile, vistoso esempio di manipolazione potrebbe essere il cosiddetto Vangelo segreto di Marco; in verità si tratterebbe non di un altro vangelo ma di un frammento gnostico appartenente a un supposto vangelo più ampio, un frammento che si trova contenuto in una lettera di Clemente Alessandrino, scritta contro i carpocraziani. Tale estratto sarebbe stato fortunosamente rinvenuto nella biblioteca di Mar Saba all’interno di un libro che raccoglieva le opere di Ignazio di Antiochia ed esso è denominata lettera di Mar Saba. Esso, quindi, sarebbe un brano espunto da questo Vangelo che, colmando alcune ipotetiche lacune testuali del Marco ortodosso, mostrerebbe il carattere iniziatico di questo scritto e, altresì, raccorderebbe bene tra loro le vicende descritte che danno comunque il sentore di alcuni mancamenti testuali.

    Ricordiamo che il carattere esoterico di questo evangelo era stato svelato, con diverso approccio ermeneutico, da Paolo Virio che ha pubblicato le sue conclusioni in un saggio più volte ristampato e quindi piuttosto diffuso, una tesi sviluppata da un punto di vista molto diverso da quello dello Smith che necessita, per congruità espositiva, della presenza inedita di un brano sconosciuto per mostrare, con maggior evidenza, il suo carattere iniziatico. Inciso a parte, si ricorda che Morton Smith rinvenne la predetta epistola, la fotografò e propose il testo riprodotto all’attenzione degli studiosi, senza però essere in grado di mostrare l’originale, perché la lettera disparve dal libro in cui si era fortunosamente conservata, per poi ricomparire, anni dopo, nelle mani di Guy Stroumsa e di altri tre studiosi; infine disparì ancora, e si è in attesa che qualche novello Indiana Jones la rintracci nuovamente. Questo frammento gnostico, che s’incastonerebbe perfettamente nel testo marciano, narrerebbe d’un insegnamento segreto conferito dal Cristo a un giovane, introdotto separatamente e quindi individualmente alla conoscenza dei misteri del Regno mostrando così uno dei caratteri precipui di questa gnosi: la nudità dell’iniziatore e dell’iniziato.

    Se ciò corrispondesse a verità si mostrerebbe (la posizione di Morton Smith nella vicenda è assai controversa, eufemisticamente parlando) che in questo caso ci sarebbe stata un’espulsione di questa parte compromettente dal testo marciano, al fine di eliminare un periodo che riguarderebbe la possibile ed enigmatica e, altresì, imbarazzante iniziazione di un giovane nudo, praticata dal Cristo stesso, un episodio che trova dei significativi paralleli con quanto narrato – irrelativamente all’apparenza - dallo stesso Marco, a proposito di un giovane che si intratteneva notturnamente con Cristo nell’Orto degli Ulivi fino al momento del suo arresto (XIV. 51) (P. Galiano: 2001, 31)[6].

    Procedendo sul tema si può osservare come lo studioso Luigi Moraldi produce un ulteriore ottimo esempio di possibile interpolazione che è, per così dire, dinamicamente opposta da quella offerta appena in precedenza; stavolta, in luogo di un brano espunto, si fa l’esempio di un brano presuntivamente aggiunto, anzi incastonato, nel testo marciano e pure di cospicuo spessore. Il ricercatore utilizza per la sua dimostrazione il tema delle apocalissi sinottiche, ovvero di brani del Vangelo che trovano principale testimonianza nel cap. 13 del Vangelo di Marco e dal quale dipendono gli altri due evangelisti Matteo (cap. 10;13;24) e Luca (cap. 21), che trattano di avvertimenti gesuani legati al compiersi degli eventi degli ultimi giorni. I brani menzionati sembrano estranei al linguaggio del Cristo e in contrasto con la sua stessa predicazione, al punto che lo studioso dichiara: Queste espressioni sono state vagliate sotto ogni punto di vista, storico, letterario, testuale, e l’analisi si è conclusa con un giudizio negativo in merito alla loro autenticità come parole di Gesù: non hanno il timbro delle parole di Gesù, sono brani tratti da scritti apocalittici giudaici a Cristo contemporanei (Luigi Moraldi: 1987, XIV).

    In ogni caso sul tema della storicità dei contenuti dei Vangeli e la loro attribuzione al Gesù storico il recente volume, in più tomi, prodotto dal biblista Jean Paul Meier – presente, con grande apprezzamento, nella bibliografia del suo Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, in cui si trova scritto: l’opera in più volumi di un sacerdote americano rappresenta sotto molti aspetti un modello di esegesi storico-critica, in cui si palesano sia l’importanza sia i limiti di questa disciplina (vol. I, p. 410) -, mette in discussione questo consenso generalizzato penetrando a fondo della stessa struttura narrativa evangelica e non sottraendo a singole particelle l’autenticità secolare garantita dalla trasmissione ecclesiale, ovvero il depositum fidei. Sostiene infatti il competente autore che nessun criterio di storicità può fornire ragioni convincenti per assicurare che una determinata parabola abbia avuto origine sulle labbra del Gesù storico (ma neanche il contrario, beninteso). Non si dispone difatti di argomenti fortemente positivi a favore della storicità delle parabole, anche se ciò non dimostra che esse non siano autentiche. In ogni caso Meier conclude, alla fine della sua corposa e scrupolosa disamina, che solo quattro parabole - quella del Granello di Senape, dei Vignaioli Malvagi, dei Talenti e del Grande Banchetto - possono rivendicare validamente la propria autenticità ed essere attribuite al Gesù storico con sufficiente certezza. (sul tema: Un ebreo marginale, ripensare il Gesù storico, Vol. 5°. L’autenticità delle parabole). Intorno all’argomento si può aggiungere ancora qualcosa, esprimendoci naturalmente a un livello piuttosto colloquiale e perciò ricorrendo a un convincente esempio.

    È da ricordare, infatti, che gli studiosi hanno sempre attribuito a Marcione, nella prospettiva della sua radicalizzazione paolina, non solo la modifica di alcuni passaggi delle lettere stesse del suo Maestro, ma anche l’adattamento del Vangelo di Luca, ovvero quel testo che, comunque, sarebbe più strettamente d’aderenza paolina, alle sue esigenze teologiche, portandolo così a scrivere quello che è conosciuto come "il Vangelo di Marcione. Un testo, evidentemente prezioso, che non ci è giunto nella sua integrità ma solo attraverso sparsi frammenti e quindi solo in modo molto parziale e che, assai pazientemente, è stato ricostruito utilizzando queste citazioni disperse in una miriade di fonti. Un risultato, quindi, ottenuto attraverso un cospicuo lavoro di ricomposizione compiuto attraverso la ricucitura delle citazioni degli eresiologi e, comunque, dalle confutazioni dei suoi avversari. Ebbene, l’apparente dato di fatto, su cui riposava la ricostruzione manipolatoria, ovvero che Marcione avesse compiuto un’opera di taglia e cuci sul testo lucano per adattarlo alla sua teologia", è stato oggi prospetticamente rovesciato. I capitoli filo giudaici sarebbero essi piuttosto un’aggiunta successiva a un precedente vangelo più simile al Vangelo di Marcione, che quindi coinciderebbe approssimativamente con il testo lucano originario.

    Davvero un assai significativo ribaltamento di prospettiva[7]. Allo stesso modo è ormai ben noto che, tra le diverse interpolazioni presenti nei Vangeli particolarmente vistosa è quella, assai postuma, inserita nel Vangelo di Giovanni, a proposito della lapidazione della peccatrice. Quasi tutti gli studiosi cristiani - benché taluni evidenzino come l’episodio potrebbe comunque adattarsi alla persona di Gesù e ai contenuti della sua predicazione -, concordano ormai sulla circostanza che tale pericope non appartenga al Vangelo secondo Giovanni e gli esegeti dell’interconfessionale Bibbia TOB confermano sostanzialmente che ci si trova di fronte a un pezzo di origine sconosciuta, inserito più tardi. Non diversamente gli studiosi curatori del Nuovo Grande Commentario Biblico, rilevano anch’essi come il testo non sia presente nei manoscritti più antichi ed affidabili e non sia compatibile con lo stile giovanneo, ritengono che l’interpolazione successiva trovi causa nella volontà d’inserire un passaggio pervenuto al copista per mezzo di un appunto a margine proveniente probabilmente dalla tradizione orale. Di passata, si ricorda, che quando scompare la generazione di uomini contemporanei a Cristo, nascono e si moltiplicano rapidamente le prime raccolte scritte di materiali tradizionali relativi a ciò che Gesù aveva detto e fatto (i "vangeli"), anche se, ancora agli inizi del II secolo, Papia, vescovo di Hierapolis in Frigia, va controcorrente e confessa candidamente di preferire «la voce viva e permanente» della tradizione orale, ovvero quella trasmessa di maestro in discepolo, rispetto al prodotto scritto.

    Ci riserviamo per ultima una annotazione che riveste un particolare interesse in questo lavoro e che riguarda il tema del battesimo e, più in particolare, la formula battesimale. Si tratta di una riflessione più che rilevante proposta dalla studiosa Vittoria Luisa Guidetti in una conferenza dal titolo Cristianesimi diversi con o senza Iniziazione battesimale, in cui la ricercatrice ha sottolineato come il vescovo Eusebio da Cesarea, importante storico del cristianesimo vissuto proprio a cavallo degli anni travagliati del concilio di Nicea (265 - 340), abbia fornito due versioni, molto diverse del passo matteano (28,16,20). In un suo scritto, difatti, Eusebio riporta il predetto passo con queste parole: Andate e ammaestrate tutte le Nazioni in mio Nome, solo dopo Nicea, Eusebio scrive che Cristo avrebbe statuito che gli apostoli battezzino nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito santo. In altre parole è stato inserito, un frammento, su un testo già in precedenza canonizzato, in cui si attribuisce a Gesù un comando (essenziale per gli sviluppi che tale comando avrà nella storia del cristianesimo) che Gesù non ha mai dato. Cristo, in definitiva, non ha mai disposto di battezzare e, per conseguenza, men che mai ha istituito un battesimo trinitario[8].

    Come si può comprendere, pur discendente da un’esposizione così sintetica in cui complessi argomenti sono presentati a macchia di leopardo, in tema delle Scritture e della loro autenticità resta uno scoglio generale che riguarda sia il cristianesimo ortodosso, sia i cosiddetti cristianesimi perduti, alcuni di essi supportati dall’autorità, da scritti che proverrebbero dagli stessi autori del canone, ovvero Pietro, Paolo, Giovanni, Giacomo, etc. Se gli apocrifi sono unanimemente conosciuti come pseudoepigrafici, come si diceva, non va però meno bene neanche per gli scritti extra-evangelici inclusi nel canone. Infatti, circa la metà delle lettere paoline è sub iudice con vari gradi di possibile autenticità tra le stesse e solo sette sono ritenute sicuramente autentiche (cfr. C. Gianotto: 2013,34 n. 1). Allo stesso modo gli scritti rivelano possibili tracce di manipolazione degli stessi testi, ancorché siano attribuiti con sicurezza a questo e a quello, come abbiamo appena visto, e questo è, secondo alcuni studiosi e in alcune circostante, di evidenza palmare[9].

    Testi ortodossi ma non canonici: cenni (una sepoltura cristiana ad Akhimin)

    Qualcuno venerava Pietro e il suo Vangelo, qualcuno che viveva in Egitto circa 400 o 500 anni dopo che Serapione aveva proibito l’uso di questo vangelo; e questo egiziano non era solo ma doveva far parte di una comunità che aveva una copia contemporanea del Vangelo e lo accettava come testo sacro... Noi avremo anche perduto il Vangelo di Pietro, ma nei primi secoli del Cristianesimo era ampiamente usato e continuò a esserlo fino all’inizio del Medioevo in alcune parti della chiesa. (Bart. D. Ehrman: I cristianesimi perduti, 45)

    Questo il panorama che si presenta oggi. Esso è evidentemente confuso e confusionario, in cui il fatto nuovo e recente è costituito dalla messa in crisi della ripartizione manichea tra ortodossi (canonici e non) ed eretici (apocrifi, gnostici, etc.), essendo di dubitabile ortodossia anche quegli scritti che erano stati considerati a prova di errore. In conclusione si può affermare che per la maggior parte dei popoli e delle nazioni raggiunte dal cristianesimo, si determinò una serie di, più o meno confliggenti, depositi di fede, e quindi di ortodossie, che non confluirono affatto volontariamente in un collettore comune componendosi così in un puzzle volontario, se ciò fu possibile lo fu solo forzatamente, a seguito delle conclusioni del Concilio di Nicea in cui un’unica corrente prese possesso dell’insegnamento. Questa linea di pensiero, è stata ex post identificata come proto ortodossia ed essa, una volta consolidata, rese definitivamente eretici molti di quegli scritti che avevano accompagnato la vita e il trapasso di generazioni di diversamente cristiani, tra cui coloro di cui ci si occupa in questo saggio.

    Come si comporta il cuculo entrando nel nido dove sono poste le uova di altri uccelli di specie diversa, così, forte dell’appoggio imperiale, la proto ortodossia si mosse: distese le ali scacciando dal nido gli implumi indesiderati determinandone una rapida e negativa sorte, un’attività di marginalizzazione e demonizzazione che si sarebbe protratta, declinata in molte diverse varianti, per diversi secoli. Questi cristianesimi alternativi non scomparvero totalmente, tutt’altro, in una certa misura si occultarono, mutarono d’aspetto ma ricomparvero ciclicamente nella storia, come per esempio fecero i Bogomili e i Catari che rivendicarono una loro letteratura, comunque ritenuta ortodossa, a sostegno della loro diversa ortodossia.

    Il credo di queste correnti primigenie trovava fondamento su testi censurati che sarebbero stati obliterati dopo poche generazioni o sarebbero stati conosciuti solo attraverso il filtro, spesso deviante, degli eresiologi, che, obiettivamente, hanno enfatizzato certi tratti letterari pruriginosi nelle loro sprezzanti critiche, situazioni che non trovano poi effettivo riscontro nel testo originale ripescato e, difatti, a mitigare le posizioni oltranziste di questi aspri censori è intervenuto il fortunoso ritrovamento di Nag Hammadi, anche se gli scritti ivi rinvenuti sono, verosimilmente, solo una parte di quelli utilizzati e venerati nei primi secoli.

    Esemplare, a proposito della sopravvivenza di canoni diversi, è il rinvenimento in Egitto ad Akhimin della sepoltura di un monaco risalente a un periodo indeterminato, che sta compreso in un’ampia forbice temporale che va dal VIII° al XII° secolo. Il pio monaco è stato trovato tumulato con una serie di scritti a lui cari, rilegati in un unico volume, che si può supporre lo accompagnassero nel viaggio post-mortale dell’anima. Il libro, o forse sarebbe meglio dire il brogliaccio, era costituito da una raccolta di frammenti, più o meno estesi, di testi oramai proibiti, selezionati con un criterio di cui sfuggono le coordinate e, tra questi estratti, spicca il Vangelo di Pietro, scritto che ebbe grandissimo seguito e diffusione proprio nel milieu del giudeo-cristianesimo, nonostante il suo carattere nettamente antiebraico, ancor più marcato che in Matteo, come sostiene Robert Eisenman a proposito di quest’ultimo. Esso rappresenta, insieme all’Ascensione di Isaia, l’eco della gnosi, cioè della teologia di questo ambiente di primordiale cristianesimo, il suo modo di manifestare il credo cristiano espresso con le caratteristiche dell’Apocalittica giudaica, secondo l’interpretazione offerta da Jean Daniélou, vero gigante sugli studi di questo tema. Ciò è ben circostanziato da due commentatori della tematica: componente basilare delle apocalissi è la rappresentazione di due livelli di realtà, l’uno accessibile all’esperienza umana, l’altro proprio agli esseri spirituali e conoscibile solo nella misura in cui è rivelato. [...] Tale conoscenza è concessa ad alcuni personaggi privilegiati sia permettendo loro l’accesso al mondo di là, sia mediante una visione o la comunicazione da parte di un inviato (Moreschini C. e Norelli E., 1995, 140)

    Per questo l’apocalittica giudaica accompagnerà queste note come l’ombra il corpo.

    Il citato e apprezzato Vangelo di Pietro[10] girò indisturbato tra i cristiani d’allora per oltre un secolo, fino a che il vescovo Serapione (divenuto tale nel 199), ne proibì la diffusione perché asseriva che esso contenesse elementi docetisti, naturalmente invisi alla nascente ortodossia. Ci siamo soffermati su questo importante documento per la diffusa popolarità che esso assunse ma, insieme ad esso, come detto, nel sepolcro del nostro pio monaco si trovavano rilegati, sempre per brani/frammenti, altri scritti: l’Apocalisse di Pietro, il Primo libro di Enoch e gli Atti di Giuliano a dimostrazione che, accettando la datazione alta della tomba - attribuendola quindi all’epoca tardo medioevale -, la circolazione di questi scritti fosse ancora viva e il loro valore dottrinale apprezzato (cfr. Bart D. Erman: 2012, 35-36).

    Si parlerà in maniera dispiegata di Enoch più in avanti, adesso, per l’importanza che riveste il testo, si farà un breve cenno all’Apocalisse di Pietro che, conobbe anch’essa all’epoca una straordinaria diffusione. Lo storico Sozomeno di Costantinopoli, nato nel 400 d.C., documentava nella sua Historia Ecclesiastica che l’Apocalisse di Pietro veniva letta pubblicamente nella Palestina del V° secolo. A ben considerare questa libertà poteva considerarsi rappresentativa di un fenomeno cronologicamente ben esteso e quindi di respiro ben più ampio, poiché della liceità della sua pubblica lettura, durante le funzioni, ci si interrogò prolungatamente, quindi almeno nel periodo dal IV al IX secolo, ovvero dai tempi di Eusebio di Cesarea (265-340 ca.) fino al Patriarca Niceforo, che s’insediò in sede nell’806 e ivi permase fino all’ 815. La conoscenza del testo apocrifo e la sua ampia diffusione traspare inoltre anche in trattati teologici che ne indicano la lettura privata in autori del III e V secolo come Clemente di Alessandria (150 circa-215) e Macario Magnesiaco (400 ca.). Va considerato che tale Apocalisse, fatta propria da alcune correnti gnostiche che erano state ostili alla creazione della Grande Chiesa burocratica e centralizzata e quindi statalizzata, nella consapevolezza che questo avrebbe impedito ai membri della comunità cristiano-gnostica di giungere, in maniera autonoma, alla reintegrazione pneumatica, non impedì l’affermazione del testo che continuò a circolare, come ben si è visto, per diversi secoli dopo Nicea.

    Da tutto ciò ne discende conclusivamente che, come ognun vede, i testi sigillati nel tempo di Nag Hammadi sono davvero privi di possibilità di contaminazione politica, di censura e adattamenti/aggiustamenti basati alle mutevoli esigenze del momento, essi, infatti, sono tal quali. Gli scritti sono infatti rimasti nel loro luogo di occultamento temporale, come i sette dormienti di Efeso, protetti dal tempo e dalla variabilità di pensiero degli uomini, incapsulati nel loro sarcofago temporale, finché un evento, forse di natura provvidenziale, li ha resuscitati dall’oblio, consegnandoli alla comprensione dei tempi nostri. Diversamente va per le altre opere in circolazione ai tempi di cui spesso poco o nulla ci rimane.

    Questi messaggi nella bottiglia ci consegnano una realtà ben più complessa, ciò anche dal punto di vista strettamente politico, di quella descritta nei vangeli canonici, bizzarramente molto accomodanti nei confronti della dominazione romana, nonché una dottrina e una pratica dei sacramenti (e non) contraddistinta da una forte impronta iniziatica di cui il frammento presuntivamente escluso del Vangelo di Marco ci ha offerto una possibile e clamorosa - se del caso - testimonianza. Su questo punto varrà la pena d’insistere perché, come si vedrà, l’impalcatura degli apocrifi e la prassi che si riscontrerà nei rinvenimenti archeologici riposa essenzialmente sull’anticipazione escatologica al presente dello stato futuro e per questo l’adepto è invitato e guidato esperienzialmente a conseguire quanto descritto dal testo, non rinviando pertanto a un futuro indeterminato la condizione di salvato, anzi addirittura precorrendo la sua divinizzazione. Clemente Alessandrino scrive: Allora (queste anime) entrano nella camera nuziale al confine [del Pleroma] e giungono alla visione del Padre e divengono Eoni spirituali (Exc. ex Theodoto 63, 2).

    Di ciò si riparlerà successivamente con ben maggiore ampiezza, comunque, come ben si constata, l’autore utilizza il verbo presente nel brano, non declinandolo al futuro, alludendo così evidentemente a qualcosa che si può ben raggiungere in vita risultato che discende anche dallo sforzo disciplinato del praticante.

    Tutto ciò, se ben ci si riflette, muta completamente l’apparato liturgico e lo volge profondamente al conseguimento di un difforme stato ontologico (che poi sostanzialmente è quello di un liberato in vita, di un rinato nello Spirito come nella pericope di Nicodemo), attraverso un supposto processo di iniziazione, come si dettaglierà in prosieguo.

    Teologia del giudeo cristianesimo: alcune linee guida

    L’oggetto del nostro studio è esattamente questa teologia, Essa copre il periodo comunemente chiamato di padri apostolici, se non sempre cronologicamente, almeno morfologicamente. (Jean Daniélou: La teologia del giudeo cristianesimo)

    Decorsi pochi anni dalle scoperte citate, Jean Daniélou, un ecclesiastico, che non aveva affatto nascosto le sue simpatie guénoniane - così almeno a detta di Silvano Panunzio, che si basava sull’accoglienza positiva che il teologo aveva riservato all’edizione del testo del metafisico d’oltralpe La crisi del mondo moderno nel 1958 - , pubblicava la prima edizione de la Teologia del giudeo cristianesimo. destinato a segnare una profonda traccia negli studi teologici ed ecclesiologici resuscitando, di fatto, una teologia perduta.

    Qui, per la prima volta, accadeva che un teologo di fama internazionale affermasse un fatto fondamentale, ovvero che, PRECEDENTEMENTE all’elaborazione ellenistica della teologia cristiana, si era sviluppata un’altra teologia, puramente semitica, che affondava il proprio humus nell’apocalittica giudaica, tanto che lo studioso L.M.A. Viola ha potuto, a propria volta, di recente affermare - e quindi confermare - che: La tradizione cristiana non è dunque un particolare sviluppo della tradizione ebraica MA IL SUO COMPIMENTO PNEUMATICO, tanto che la Chiesa Madre non si distingueva né voleva distinguersi in alcun modo dall’ebraismo (L.M.A. Viola: 2008, 105).

    Ciò sembra trovare parallela conferma in questa citazione prodotta dalla ricercatrice Vittoria Luisa Guidetti:

    Recentemente Martyn G. Richter ed io abbiamo tutti cercato di ricostruire la storia pre-evangelica della comunità giovannea a partire da cenni presenti nel vangelo. Tutti e tre concordiamo che la comunità giovannea ebbe origine tra i Giudei che credevano che Gesù avesse portato a compimento attese giudaiche ben conosciute, come per esempio quella di un messia o di un profeta come Mosé (Guidetti in: AAVV, La comunità del Sion e la Didaché, Religione e le religioni: 2018, 142).

    L’affermazione del compimento pneumatico delle scritture, insieme escatologico e messianico, era una condizione che era stata partecipata dallo stesso Origene che è stato convintamente consapevole della presenza di un significato nascosto, e quindi pneumatico, negli scritti vetero-testamentari, un tesoro che era ancora da estrarre dai testi. Si tratta di quel significato anagogico che i giudei non comprendevano, proprio perché avevano rifiutato Gesù, il Cristo-Messia, il loro esegeta ultimo. Il Messia aveva invece donato loro per primi le chiavi per l’accesso alla comprensione integrale della Scrittura inaugurando un’esegesi spirituale da contrapporre a quella carnale, configurandosi quindi la figura messianica come quello di un Rabbi. Origene infatti affermava che, a similitudine del composto umano, formato da corpo, anima e spirito, anche la Scrittura sarebbe distinta in queste tre articolazioni che corrispondono al senso letterale, a quello morale e a quello sapienziale o spirituale. Origene doveva possederla per via gnostica, in quanto allievo di Clemente Alessandrino, e quindi doveva detenere le chiavi della filologia sacra che gli permettevano di accedere agli arcani della Scrittura.

    Scrive a tal proposito S. H. Nasr: Origene collega la conoscenza sacra direttamente alla Sacra Scrittura, e ritiene sia compito degli esseri spirituali scoprire il significato intimo della verità rivelata e usare la loro intelligenza nella contemplazione delle realtà spirituali. La via spirituale dell’uomo non è altro che il graduale sviluppo della capacità di accedere all’intelligenza spirituale della Scrittura che, come Cristo stesso, nutre l’anima (S. H. Nasr: 2021, 40).

    Ne offre testimonianza lo stesso Gesù in Luca 24, 25, 27.

    25 Allora egli disse loro: O insensati, e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! 26 Non conveniva egli che il Cristo soffrisse queste cose, e così entrasse nella sua gloria? 27 E cominciando da Mosè, e seguendo per tutti i profeti, dichiarò loro in tutte le scritture le cose ch’erano di lui. (nuova Deodati, evidenziazione presente nel testo).

    Perciò si può affermare che: Questa esegesi è fondata sulle interpretazioni segrete: è necessario comprenderle nel segreto (G. Stroumsa: 2000, 105). Di passata rileviamo come anche il beatificando Gioacchino da Fiore (di spirito profetico dotato) aveva indicato come la terza età, l’ultima, di competenza dello Spirito Santo, che succedeva all’Età del Padre e del Figlio, come quella che avrebbe coinciso con la piena intelligenza delle Scritture[11].

    In tutto ciò, nell’indicare alcune vie operative che potevano condurre esperienzialmente a un diverso stato dell’essere, s’intravidero i tratti dell’antica ribellione paradisiaca, quella che aveva spinto la coppia a immaginare di rendersi uguali a Dio nella conoscenza del bene del male, un’iniziativa oscura, quella dei progenitori, nata dalla superbia e dalla concupiscenza conoscitiva e alimentata dalla suggestione dell’omicida fin dal principio, un atto che avrebbe dato luogo a quel complesso – fucina di eresie etichettate sotto il termine gnosticismo o, altrimenti, secondo alcuni interpreti, alla gnosi spuria -, elementi su cui si tornerà nel successivo paragrafo[12].

    Questo variegato universo sarebbe nato a seguito di quello che alcuni eresiologi, e a tal proposito citiamo, Tertulliano, Ippolito, Clemente Alessandrino, considerano l’innaturale innesto di questi temi squisitamente semitici nell’ellenismo e, purtuttavia, come riporta ancora la Guidetti, molteplici linee di gnosticismo sarebbero nate esattamente dagli insegnamenti degli stessi successori di Gesù al Cenacolo a principiare da Thebuthi, come la ricercatrice riferisce il suo testo (V. L. Guidetti: La comunità di Sion e la Didaché, in AA.VV.: 2018, 136. nota 28).

    Lasciamo agli specialisti l’incombenza di sviluppare le loro argomentazioni sul delicato tema la cui disamina è ben di là delle nostre possibilità e dalle finalità di questo scritto.

    Tuttavia la lotta contro lo gnosticismo, il cui confutatore emblematico, affatto isolato, fu Ireneo, impose per inevitabile necessità il negare l’esistenza di una qualsiasi tradizione esoterica all’interno del cristianesimo: la sapienza nascosta mal si addiceva all’universale proselitismo che scaturiva dalla predicazione paolina e di questo atteggiamento universalista alcune linee pneumatiche ebbero a soffrire talmente tanto che agonizzarono, fin quasi a scomparire (G. Stroumsa: 2000, 17).

    Ora, a distanza di tanto secoli, è da dire, quasi fosse una nota di colore, che l’ecumenismo vaticansecondista, soprattutto in alcuni suoi aspetti più velati, sta lentamente riscoprendo che certe affermazioni poste dai Padri conciliari chiamano ad un più di verità, profondità ed universalità di cui si sono fatti ben consapevoli alcuni ecclesiastici consapevoli come il trappista guénoniano Elie Lemoine[13].


    Note:

    [1] Pacomio apparterrebbero al filone tradizionalista del giudeo cristianesimo, insieme a Epifanio, Girolamo e Teofilo, (cfr. E. Testa: 2004, 527). Difatti l’influenza dei giudeo cristiani si riscontra anche in San Pacomio e nel di lui discepolo Teodoro per la dottrina contenuta nelle sue lettere (E. Testa: 2004 XXX).

    [2] Località in cui si mantenne intatto l’ebraismo preesilico, anche dopo il ritorno degli Ebrei da Babilonia.

    [3] Delle 45 lettere festive di Atanasio, la 39a, scritta per la Pasqua del 367 d.C., è di particolare interesse per quanto riguarda il canone biblico. In questa lettera Atanasio elenca i libri del Vecchio testamento come 22 secondo la tradizione ebraica. Al Tanakh (acronimo che designa la Torah scritta ricevuta da Mosé) aggiunge il Libro di Baruch e la Lettera di Geremia ma esclude il Libro di Ester. Elenca i libri di Nuovo Testamento come il familiare 27: i 4 Vangeli, Atti degli Apostoli, le 7 Epistole generali (elencati nell’ordine in cui compaiono nelle edizioni moderne del Nuovo Testamento), le 14 Lettere paoline (elencato con la Lettera agli Ebrei posto tra quelli ai Tessalonicesi e le Epistole pastorali, e il Libro dell’Apocalisse. Sebbene l’ordine in cui Atanasio colloca i libri è diverso da quello che è ora usuale, il suo elenco è il primo riferimento all’attuale canone del Nuovo Testamento. (da Wikipedia).

    [4] Sul tema si veda. Giovanni Filoramo: La croce e il potere i cristiani da martiri a persecutori, Laterza.

    [5] Anche il delicatissimo tema della Resurrezione è sospetto di manipolazione partendo proprio dalla disamina degli esemplari più antichi del Vangelo di Marco che è accreditato come l’essere il più arcaico tra i Vangeli. Le presunte aggiunte al testo marciano avrebbero successivamente influenzato a cascata i Vangeli di Luca, Matteo e Giovanni, scritti decenni dopo. L’assunto si muove sulla base della semplice: consultazione dei due più antichi papiri originali esistenti del Vangelo di Marco, ovvero: il "Codex Sinaiticus ovvero il Codice Sinaitico - esposto alla London Library di Londra che è scritto in greco onciale (ovvero in maiuscolo) ed è datato intorno al 325 d.C. e che fu ritrovato dal tedesco Konstantin von Tischendorf (teologo, filosofo e ricercatore di manoscritti) presso il Monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai, in Egitto, nel 1859 - e il Codex Vaticanus o Codice Vaticano" perché è conservato in Vaticano. Ha le stesse caratteristiche del Codice Sinaitico e contiene lo stesso testo. Entrambi si concludono così: Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto. Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite. Per conseguenza nel racconto di Marco, così come esso è redatto negli originali esistenti, si dice che è solo di un giovane sconosciuto, vestito di bianco davanti alla tomba vuota la domenica mattina, primo giorno della settimana ebraica, che afferma che Gesù è risorto e che invita le tre donne presenti, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salomé, a darne l’annuncio. Le tre donne però non credono a quanto viene loro detto da quell’enigmatico personaggio e scappano spaventate. Non v’è seguito alla narrazione. Secondo Riccardo Petroni tutto ciò è perfettamente compatibile con la situazione politica del tempo dal momento che Gesù e Pietro prima e Paolo dopo, avevano infatti unanimemente preannunciato che con la morte del Maestro sarebbe arrivata, nella sua stessa generazione, quindi subito dopo, la Fine dei Tempi, il Regno dei Cieli, cioè l’Era Messianica. Un’Era Eterna di giustizia e di pace, nella quale avrebbe preso il sopravvento Yahveh (il Dio degli Ebrei), con alla sua destra Gesù stesso (si chiama la Parusia). Con l’arrivo dell’Era Messianica sarebbe anche finita l’odiosa dominazione romana.

    [6] In ogni caso, per come già anticipato, il tema della nudità, che per Paolo Galiano riveste una grande importanza in relazione agli elementi d’identificazione della gnosi, costituendone, in qualche modo, come una sorta di terza gamba motivazionale atta a sorreggere il tripode argomentativo, ci spinge a pensare, rispetto a certe pruriginose osservazioni che sono state fatte sull’episodio da parte di taluni interpreti, che il sostrato di questa nudità vada possibilmente cercato nel tema del ristabilimento paradisiaco, laddove l’uomo delle origini era privo del rivestimento di pelli morte che assunse con la cacciata (si è trattato estesamente il tema nel nostro scritto Il Terzo Occhio, in bibliografia).

    [7] Sul tema, cfr. Claudio Gianotto. Andrea Nicolotti: Il caso Marcione.

    [8] Di questo c’è una testimonianza in un testo gnostico dove si può leggere: Qualcuno entra nella fede con la ricezione del battesimo nella speranza di avere in esso la salvezza, quando invocano il sigillo. Essi non conoscono, il Figlio dell’Uomo non ha battezzato alcuno dei suoi discepoli ...se coloro che sono battezzati fossero avviati alla vita, il mondo sarebbe vuoto...Non così è il vero battesimo, ma si trova nella rinuncia al mondo (Testimonium veritatis 67, 7-24 cit. in Moraldi L , Le Apocalisse gnostiche, ripreso in L.M.A. Viola 2008,162).

    [9] Su questo tema, anche per l’agile lettura consentita dall’esposizione degli argomenti di natura davvero fondamentale, si possono leggere i due volumi di Bart D. Ehrman che hanno per titolo Sotto falso nome e I cristianesimi perduti, dove la tematica è diffusamente trattata.

    [10] Questo antico apocrifo (risalente alla prima metà del II sec.), riporta la dinamica stessa della resurrezione di Gesù, contrariamente ai Vangeli canonici e ad altri scritti neotestamentari che, invece, non descrivono l’evento in quanto si limitano a narrare solo l’incontro con Cristo già risorto. Ecco la sua versione: "I soldati... videro aprirsi i cieli e due uomini scenderne vestiti di grande splendore e avvicinarsi al sepolcro. La pietra che era stata addossata alla porta, rotolando via da sé, si scostò da una parte e il sepolcro si aprì ed entrambi i giovani vi entrarono. Come videro ciò, i soldati destarono il centurione e gli anziani, poiché anche questi stavano là di guardia. E mentre spiegavano loro quanto avevano visto, di nuovo vedono tre uomini uscire dal sepolcro, e i due sorreggevano l’altro e una croce li seguiva; e la testa dei primi due si spingeva fin al cielo, mentre quella di colui che conducevano per

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