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Un giorno, sempre: Le parole confondono, #4
Un giorno, sempre: Le parole confondono, #4
Un giorno, sempre: Le parole confondono, #4
E-book525 pagine7 ore

Un giorno, sempre: Le parole confondono, #4

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Info su questo ebook

L'estate a Napoli è la stagione delle stagioni: giunge sempre prima, le giornate diventano ricche di colori, di luce, di sogni e di sorprese. È in un giorno troppo caldo di maggio che Gianluca incontra Francesco; non si vedono da quattro anni ma lui ricorda bene il periodo in cui l'amico lo ha aiutato.

 

Tornano le forti sensazioni di allora, e i sentimenti d'amore per Francesco, quelli che ha sempre represso, riprendono a invadergli il cuore. È spaventato come lo era allora: non vuole permettere al dolore di riemergere, e non può perdere la preziosa amicizia ritrovata dopo così tanto, perché l'emozione che Gianluca credeva sopita torna ancora una volta a chiedere attenzione, un'attenzione che stavolta dovrà essere assoluta.

 

 

Quarto volume della serie "Le parole confondono", può leggersi come romanzo a sé stante, anche se si consiglia la lettura di "Un giorno, sempre" dopo "Le parole confondono", "Certe incertezze" e "I motivi segreti dell'amore".

 

Giovanni Venturi è autore anche dei racconti/raccolta di racconti:

- Deve accadere

- Viaggio dentro una storia

- Journey within a story

- Racconti dall'isola

- Questa estate succede che

 

dei romanzi:

- Joe è tra noi

 

e dei romanzi della serie "Le parole confondono":

- Le parole confondono: volume 1

- Certe incertezze: volume 2

- I motivi segreti dell'amore: volume 3

- Un giorno, sempre: volume 4

- Sempre coi tuoi occhi: volume 5

- Sai correre forte: volume 6

LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2018
ISBN9788890755996
Un giorno, sempre: Le parole confondono, #4

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    Anteprima del libro

    Un giorno, sempre - Giovanni Venturi

    Uno

    Lo sto guardando da un po’. Non so se se ne è accorto o meno. È davanti a me, siamo entrambi completamente immobili, mi rendo conto di trattenere persino il respiro. Ho paura che un mio movimento possa fargli capire che lo sto fissando senza motivo.

    Fuori c’è il sole. Il mio amico è in piedi, dinnanzi alla finestra, e sta scrutando il palazzo di fronte mentre il sole gli si poggia con delicatezza sul volto. Ha un leggero sorriso sulle labbra, forse sta ricordando qualcosa. Sposta lo sguardo, ora osserva di sotto. Ha le mani aperte ferme sul davanzale e la finestra è dischiusa solo in parte.

    Per sempre, sì, vorrei che…

    Per sempre è la parolina magica che mi spinge a distrarmi, a sognare che certe cose durino per tutta la vita, per dare un senso di pace e aggiungere sicurezza all’esistenza. Eppure, quella tanto agognata tranquillità che cerco spesso, si contrappone a una realtà cruda, più incontrollabile e incontenibile di qualsiasi migliore buona intenzione andata poi a male.

    Quel desiderio di fare le cose nel modo giusto resta solo un prelibato proposito. A volte non mi riesce, si blocca dentro di me, per paura, nei cunicoli del mio corpo; altre volte perché quello che magari incontro lungo il percorso non era previsto.

    In questo momento vorrei indietro le mie certezze, le avevo tutte davanti fino a una settimana fa, fino a un giorno fa, ma ora sembrano sfuggirmi, e ne ho un bisogno disperato.

    Ogni cosa ha un perché, ogni cosa ha il suo tempo, e a volte gli intenti non si mostrano per quello che sono davvero. Certe cose, certi pensieri, sono evidenti in alcune occasioni, in altre circostanze, invece, spingono verso il dubbio. Le necessità cambiano. Immagino dipenda dalla verità a cui si vuol credere in un preciso momento della propria vita.

    E magari non esiste una sola e unica verità.

    Nulla è mai ciò che sembra, e non si tratta dell’umido sul tetto di un’auto parcheggiata al lungomare in una sera buia e fredda. Si tratta di me, di ciò che sapevo di desiderare e sperare e che ora, invece, non è più lo stesso.

    I cambiamenti spaventano, ma sono cose inevitabili e necessarie, per tutti noi.

    Il messaggio di Federica è strano. Non che non lo siano normalmente, ma questo forse va interpretato più del dovuto.

    Ci rivedremo? è quello che mi ha scritto. Forse, mentre lo componeva al cellulare, il programma ha aggiunto quel punto interrogativo finale.

    O forse mi sta solo dicendo che se n’è andata.

    «Usciamo, allora?» Il mio amico si volta verso di me, mi sorride.

    Non c’è motivo perché in una giornata di sole così stupenda del mese di maggio si debba stare fermi in un appartamento a pensare a milioni di cose in pochi minuti. Non va bene interrogarsi sull’intera esistenza. Lui mi sta guardando con attenzione, e so bene che mi direbbe esattamente questo.

    La vita va vissuta mentre si vive. È proprio ciò che esprimono quel sorriso, quegli occhi sereni.

    «Sì, va bene, andiamo.» Non ho aggiunto altro.

    Non riesco ad aggiungere altro: vorrei parlargli, come facevamo qualche anno prima, ma non in strada. Vorrei che se ne accorgesse senza doverglielo chiedere. Non mi piace parlare molto, e meno ancora delle cose ovvie. Ovvie, poi. Sono evidenti per me, ma non per gli altri.

    Aiutami, ti prego. Lo osservo e rispondo a mia volta al suo sorriso smuovendo le labbra.

    Vedo che si guarda ancora intorno, non conosce bene l’ambiente; ora è fermo con le mani nelle tasche e il sedere poggiato contro il muro antico che fa da davanzale alla finestra. Sposta lo sguardo ancora in giro, dal tavolo su cui ci sono alcuni libri, al lavello di lato dove qualche piatto della sera precedente è ad asciugare. Si avvicina e li mette a posto. Ha voluto fare qualcosa per me, per impiegare il tempo, darmi una mano, tenere in ordine il mio appartamento. Perché, poi? Mi viene a trovare e sistema la cucina. È arrivato a Napoli appena ieri, non doveva scomodarsi, non abbiamo nemmeno cenato insieme.

    Mi distraggo per un attimo. Dentro al lavandino una goccia d’acqua cade con costanza in una tazza dove quella mattina c’era il latte. Fa da eco, contrasta un po’ con il nostro improvviso silenzio.

    Il mio amico torna alla finestra e mi sorride ancora, attende forse che io decida ad alzare le chiappe dalla sedia. «Mi piace la disposizione degli ambienti. Rilassa molto.» Rimbalza ancora un po’ lo sguardo a destra e a sinistra. «Non so come spiegartelo.»

    «Piace anche a me. Sono innamorato di questo angolo di indipendenza che mi sono creato. Una casa tutto da solo non è affatto male, considerando che non avrei mai pensato di riuscire in questa impresa.»

    «Anche la penombra che c’è, il fatto che non si soffre troppo il caldo, rende tutto particolare.»

    Tamburello le dita sul tavolo; oggi sono un po’ svogliato, non vorrei davvero uscire. «Restaci un po’ di tempo e poi ne riparliamo.»

    Annuisce. Quel semplice gesto forse riassume una valanga di parole. Quanti anni sono passati dall’ultima volta che ci siamo visti?

    Sono quattro. Non ho dovuto nemmeno pensarci troppo. È da tanto tempo che quello che una volta era un capo scout non mette più piede in questa città, ma ora non è più al comando di giovani esploratori, anche se l’animo di Francesco non può essere cambiato molto.

    Me lo rivelano i suoi occhi. Hanno una certa aria triste. So bene che Francesco non è contento di essere tornato a Napoli, di questa città ha solo brutti ricordi, ma so anche che proprio questa metropoli è la più bella del mondo. Tanti scappano e finiscono per dimenticarsene, e quando tornano piangono di gioia.

    «Alzati da quella sedia, Gianluchino.»

    Mi tratta ancora come se fossi il fratellino piccolo e indifeso sempre bisognoso di affetto. In quattro anni sono cresciuto, il periodo trascorso è tanto, ma quella distanza non sembra nemmeno tangibile. È tutto fermo da quel momento e ho ancora bisogno di parlargli, come allora, più di allora.

    Ci siamo salutati il giorno prima e, ora, eccoci di nuovo qui. Il tempo è una sensazione, mi disse una volta proprio il Francesco che è con me. Il tempo passa, ma le cose buone no. Restano sempre nel cuore, nei propri ricordi, infilate nelle pieghe della pelle.

    «Perché ridi?» Sposta ancora lo sguardo su di me.

    Aiutami, ti prego.

    «Non rido. Andiamo.» Mi alzo e accosto la sedia al tavolo, mi volto, inspiro e scuoto la testa.

    Francesco mi passa davanti. Si muove lentamente, senza togliere le mani dalle tasche, con la sua felpa di cotone leggero che ricopre la maglietta londriana. Non ci sono mai stato a Londra, ma Francesco mi ha consigliato di andarla a visitare. Ha detto che magari, organizzandoci, potremmo andarci insieme.

    Il mio amico è già sulla soglia della porta, ma io torno indietro. Entro in bagno, guardo il riflesso sul vetro, osservo i miei occhi. Sono un po’ lucidi. Mi piego sulle gambe, tremo, ma mi faccio coraggio, non può iniziare così. Sono stato più o meno sereno fino a una settimana fa, non ha senso buttarsi giù così e bruciare anni di sforzi fatti affrontando la vita di petto.

    Mi getto acqua sul viso un paio di volte. Osservo le mie pupille sul vetro, poi prendo il morbido asciugamano, ne sento l’odore – è così pulito e delicato – e me lo passo sul volto.

    Che mi succede? Perché adesso?

    Francesco sarà impaziente. Devo darmi una mossa, accidenti.

    Sorrido leggermente, per provare a dimenticare la tristezza, la paura che si è affacciata di nuovo nell’animo. Ancora un po’ d’acqua, stavolta sulle labbra, ne bevo dalle mani a coppa.

    Osservo ancora una volta il riflesso sul vetro. Ecco, ora mi sembra non si veda più che avevo voglia di piangere. E se lui se ne accorge? Cosa gli devo dire? La verità, oppure devo di nuovo fare finta di nulla?

    Sembra quasi che sia capitato al momento giusto. Francesco è come se fosse qui per me. Non credo al destino, almeno non credo che la sua presenza a Napoli sia legata al magico fato.

    Ho ventuno anni, ma mi sento stravolto come se ne avessi ancora sedici, sedici e mezzo, e posso parlarne solo con lui. Ma quando? Non so se riuscirò a farlo. Ogni volta che mi osserva mi vengono in mente i silenzi di quattro anni prima, il suo viso preoccupato e nervoso perché io sembravo un muto. Non voglio che si accorga che sono turbato al punto che ho un desiderio matto di piangere.

    Ha due anni più di me, più o meno. Se mi chiede cosa non va, come mi devo comportare? Devo ignorare la cosa? Un freddo improvviso e irrazionale mi scuote le spalle, in tutto il corpo. Mantengo le mani appoggiate al lavabo, fermo, abbasso il capo, sbatto le palpebre e torno a spiarmi nello specchio.

    Non posso fare finta di nulla. Non più.

    Sì, ma fare finta di nulla, cosa? A cosa sto davvero pensando? Per capire bisogna tornare indietro di qualche giorno, niente di grave. È da lì che comincia la mia storia. Quella che voglio raccontare oggi.

    Siete pronti, oppure avete paura di ascoltarla quanto ne ho io di raccontarla?

    Due

    Sono quattro anni che Francesco non mette piede a Napoli. Osserva le nubi da così tanta altezza. L’aereo è quasi giunto a destinazione, si tratta di pazientare al più altri venti minuti. È abituato a volare, a viaggiare. È stato spesso a Londra, per lavoro, per piacere, per rilassarsi. Ogni viaggio è scoperta, divertimento.

    Eppure il ritorno a Napoli non sa bene cosa gli porterà. È emozionato, è confuso. Ora più che mai. Le cose non stanno andando bene, forse il mare di via Nazario Sauro e di via Partenope lo aiuterà a ritrovare se stesso.

    Quattro anni. Ho viaggiato ovunque, in lungo e in largo, ma non mi sono più riavvicinato alla mia città. Che strana sensazione che ho addosso. Guarda ancora verso il finestrino quelle nubi bianche, gli sembra quasi di poterle toccare. Il cielo è azzurro, terso.

    Un annuncio impone di richiudere il tavolino, di riprendere la posizione eretta, di spegnere ogni tipo di apparecchiatura elettronica, anche l’accesso alla toilette sarà vietato. Sta per atterrare. Manca poco.

    «Ehi, scusa?» Una voce. Un tocco alla spalla sinistra. Forse lo sta chiamando da un po’, ma lui non ci aveva fatto caso. «Scusa, ma tu hai…»

    Si volta verso la ragazza. È stata in silenzio per tutto il tempo. La scorgeva ogni tanto a osservarlo, ma ha fatto finta di nulla. Pensava ancora a Giulia e ad Andrea, ad Andrea e Giulia, a Diego, a Caterina e, per un attimo, anche al dolce buon Samuel. Lo ricorda ancora una volta col violino a suonare il Canone. Ogni volta che è stato a Londra, a Covent Garden, ha udito violini eseguire quel brano di musica classica che gli fa accapponare la pelle. Nel ricordo di quella notte buia che ha cambiato per sempre la sua vita, si odia. Si odia tanto. Troppo. Avrebbe potuto dare ascolto a Samuel, invece non lo ha fatto. «Dici a me?»

    «Hai posato per una rivista? Cioè eri in una pubblicità di…»

    «Di?» Le sorride. Ha fatto diverse pubblicità, qualche volta lo hanno riconosciuto. Alcuni uomini, alcune donne, ma mai una ragazza. Gli sembra forse anche sua coetanea. «Di cosa?»

    «Intimo maschile?»

    «Boxer? Ah, sì, diverse.»

    Lei arrossisce. «Stavi bene.»

    È proprio carina! «Nella pubblicità?»

    «Sì.»

    «Grazie. È per questo che mi hai guardato per tutto il tempo del volo? Anche quando dormivo lo facevi, vero?»

    La ragazza arrossisce ancora di più. «Be’, ecco, io… Che figuraccia!»

    «No, nessuna figuraccia. Ci sono abituato.»

    A Francesco vengono gli occhi lucidi. Ricorda di come lo guardava Giulia. Lei in abito bianco da sposa, al centro dell’attenzione, parlava con tutti, ma poi ha iniziato a osservarlo, mentre si intratteneva coi suoi ospiti. L’abito scuro del ragazzo, con tanto di cravatta grigia e camicia bianca, tutto firmato, e viso in bell’ordine e sorridente, non è passato inosservato. Un regalo che si è fatto dopo una sfilata a cui ha dovuto partecipare. Una delle tante in cui presentava abiti eleganti da cerimonia e da lavoro.

    Il gestore dell’atelier gli ha fatto un grosso sconto dopo averlo riconosciuto. «Sei tu il modello che indossava questi vestiti?»

    Sembrava impazzito, aveva chiamato tutte le sue commesse e i clienti del negozio, e tutti a fargli i complimenti per l’eleganza e il portamento.

    Ne è valsa la pena, perché Giulia si è avvicinata a lui, come incantata, impedendogli di piangere mentre ricordava di lei… di Maria, al matrimonio di Giulia e Andrea, i due suoi migliori amici. Un evento a cui non avrebbe rinunciato per nessun motivo al mondo.

    «Wow» è stata l’unica parola della giovane sposa. Quanto era emozionata. Lo sguardo di lei, i suoi occhi, si perdevano. Non per lui, ovviamente. Era di certo contenta di condividere con Francesco quel giorno importante, frastornata dal momento magico.

    «Mi concede questo ballo, signorina? Ah, devo chiedere a suo marito Andrea, giusto.» Ha calato il capo, facendole un piccolo inchino.

    Lei ha sorriso, di certo divertita dal suo modo scherzoso di fare.

    I loro sguardi si sono scrutati.

    Francesco è sempre stato un clown, il clown perfetto. È l’unico modo per tenere tutti a distanza dai suoi veri sentimenti, è la maniera giusta di affrontare la vita. Col sorriso.

    I ricordi si spengono e si ritrova seduto in aereo.

    «Mi chiamo Francesco Sacco.»

    «Lo so… Cioè, io…»

    «Una mia fan, capito.»

    Sul volto della ragazza passano mille colori.

    Guarda un attimo fuori del finestrino, ancora, poi torna di nuovo su di lei. «Ti posso lasciare il mio numero, se vuoi.»

    È sempre stato spavaldo. È una cosa di sé che difficilmente cambierà.

    «Mi chiamo Maria. Studio moda, ecco perché ti ho riconosciuto. Sei comparso su molte riviste che compro. Sto pensando di fare un corso magari a Londra o a Milano. Voglio diventare stilista.»

    Le sorride. Ha ignorato del tutto la sua proposta.

    Maria. «Fai bene.»

    Maria si sistema meglio, non parla più.

    Francesco si rilassa, appoggia la testa e chiude gli occhi. Risente la musica del Canone, rivede Giulia e pensa ad Andrea. Rivive la scena del giorno del matrimonio. Appena tre giorni prima.

    «Ehi, giovanotto, posso chiedere un ballo alla sua giovane sposa?»

    «Francé, mamma mia, quanto sei bello in questo abito elegante! Quasi quasi mi fai sfigurare.»

    «André, mai. Sei mio fratello, ti voglio bene.»

    Il fotografo si avvicina, Andrea fa un cenno di assenso, poi avvolge con le braccia le schiene di Francesco e Giulia. Sorridono tutti e tre e la foto li immortala in quel momento che sa di eterno.

    Francesco si toglie la cravatta, la mette nella tasca della giacca.

    Giulia gli si avvicina. Lui le prende una mano e inchina appena un attimo il capo in un gesto scherzoso, di affetto, poi la poggia su una spalla e con un braccio le cinge in parte il fianco. Lei ha il viso pallido, gli occhi lucidi e un bel vestito bianco da sposa. La più bella sposa del mondo.

    Sente il cuore battergli forte. È emozionato.

    «Ti ringrazio, Francesco, sei un cavaliere perfetto» gli sussurra all’orecchio.

    Al posto di Andrea avrebbe voluto esserci lui. Perché c’era lui accanto a lei il giorno che il padre di Giulia è morto.

    No, no, non avrei mai potuto sposarmi così giovane e fare un tal torto al mio migliore amico. No.

    Lo sa, ma a volte non ne è così convinto.

    I pensieri sfumano. Francesco è ancora una volta in aereo. Il viaggio sembra più lungo del dovuto. È prossimo ad affrontare i propri fantasmi. Napoli prende e Napoli dà. È questo che fa, e lui non si rende conto se sarà in grado di combattere contro gli anni di sofferenza che si è buttato alle spalle.

    Il giorno dopo il bel matrimonio a Napoli c’è stata un’emergenza. Presi dal caos dei preparativi né Giulia, né Andrea, né Francesco hanno pagato il mensile dell’appartamento di Milano, così Francesco è dovuto ritornare per spiegarsi di persona col proprietario. Per telefono si sarebbe potuto creare un brutto disguido. A quel punto è tornato anche a lavoro ma, quando il datore di lavoro lo ha visto entrare nel salone, gli ha sorriso e gli ha detto che dopo un matrimonio di solito si resta un po’ con gli amici e i parenti e che lui, non avendo mai fatto un sol giorno di assenza, poteva prendersi anche due settimane, se desiderava.

    Ha chiesto conferma più volte, incredulo, poi è corso a prenotare un volo aereo per tornare di nuovo a Napoli, per andare un po’ da sua madre che non vede più da anni, per rimettere piede nella sua città natale.

    «Com’è, essere un modello?» È la voce di Maria, della ragazza che è una sua fan.

    Proprio carinissima.

    Riapre gli occhi. «In che senso?»

    «Riesci a essere te stesso, oppure per strada devi sempre essere sul chi va là?»

    «Non sono un attore. Chi vuoi mi riconosca per strada? Su un aereo c’è una possibilità su un milione.»

    Lei ride. «Sì, ma riesci a essere te stesso?»

    Essere se stessi è facile e complicato allo stesso tempo. Soprattutto quando non puoi più essere te stesso. La voce di Samuel parla nella sua testa.

    Forse non riuscirà a farcela.

    «Sì, ci riesco.»

    Al riconoscimento dei documenti un poliziotto guarda attentamente lui e il passaporto – usa sempre quello per i viaggi aerei – e lo lascia passare.

    È fatta. È praticamente a casa.

    Ha solo un bagaglio a mano costituito da una piccola valigia. Può risparmiarsi l’eterna attesa per recuperare il bagaglio da stiva.

    Deve andare al gabinetto, ma ci rinuncia.

    I cartelli indicano la toilette in fondo, ma l’uscita è appena sulla sinistra. Sbuffa. Il cesso è ubicato nel posto sbagliato, secondo lui. Non è urgente. Desiste.

    L’aeroporto è microscopico rispetto a quello di Milano, rispetto a quelli di Londra, ma è pur vero che negli ultimi anni è migliorato molto.

    La prima volta che abbandonò Napoli per diventare un uomo indipendente faceva caldo, come oggi. Prese il treno perché doveva spostarsi a Roma. A Milano si sarebbe trasferito solo in seguito.

    Eppure l’aeroporto di Capodichino non gli piace molto, lo rende triste, soprattutto quando riparte.

    Poggia una mano sulla fronte e sorride. Non ha più dato il numero di telefono a Maria.

    Perché doveva chiamarsi proprio Maria? Il sorriso gli muore sulle labbra. La mente vorrebbe evadere ancora una volta nei ricordi, ma si sforza di non farlo. Deve muoversi.

    Esce fuori all’aperto. Non percorre nemmeno un metro che un raggio di sole lo colpisce sul volto, sente la pelle scaldarsi. Sistema subito gli occhiali da sole sul viso e cerca il primo taxi disponibile.

    «Dottò, da questa parte. Date a me la valigia.»

    «Un attimo. Ho letto che le tariffe sono fisse.»

    Gli dà l’indirizzo.

    Il tassista cerca di prendere la valigia. «Dottò, sono venti euro per voi.»

    Francesco ride, fa un passo indietro e spinge le mani in avanti. «Ma voi volete scherzare?»

    «Perché? Di che parlate?»

    «Venti euro per fare pochi chilometri?»

    «C’è il supplemento valigia.»

    «Non è domenica, non è notte, non è un giorno festivo. Il supplemento valigia? Scusate, è un aeroporto, uno che atterra a Napoli non ha un bagaglio? Che vuol dire? E se vi chiedevo di andare a piazza del Plebiscito quanto pagavo, scusate?»

    «Questo è il prezzo per la zona richiesta. I prezzi non li faccio io.»

    «L’aeroporto più vicino a Londra dista tra i 60 e gli 80 chilometri e la corsa si paga tra le 50 e le 60 sterline. Una media di nemmeno una sterlina a chilometro, più o meno. E voi invece fate una media tra i 4 e i 5 euro a chilometro.»

    «C’è il supplemento valigia, dottò, c’è la tariffa fissa aeroportuale.»

    «Aridaglie con ’sto supplemento valigia. Sentite, lasciate perdere. Io vado a piedi.»

    «Questi sono i prezzi fissi. Con quelli variabili vi viene anche di più.»

    Francesco muove il passo verso la fermata del pullman e attende, mentre si gode il sole della sua bella città, quel caldo sole che ha sempre amato.

    L’autobus arriva circa mezz’ora dopo. Sale e inizia così ad avvicinarsi a casa. C’è traffico. Un’ora e mezza dopo l’atterraggio è a destinazione.

    La porta è aperta. «Mamma, ci sei?»

    «Francesco!» urla lei. «Dio, quanto sei bello. Sei un uomo bellissimo, figlio mio.»

    Gli stringe le braccia al collo e ride, i suoi occhi sono luminosi come non mai. «Quanto resti, amore?»

    «Qualche giorno, ora vediamo, dai.»

    Francesco rientra nella sua vecchia stanza. La madre l’ha lasciata proprio come la ricordava. Non ha cambiato nulla. Ogni oggetto gli fa tornare alla mente il passato, si fonde col presente, e gli sembra quasi di risentire le risate della sua ragazza.

    Si contempla in giro spaesato. Ci sono i pochi libri che leggeva, le sue foto da adolescente. C’è persino quella dove mangia il gelato, seduto al lungomare. La scattò Maria.

    Maria, la foto, i ricordi.

    Il letto è rifatto, odora di pulito, come se fosse stato sempre ad attenderlo. Un raggio di sole cade ai suoi piedi.

    Apre la finestra e un leggero venticello, quasi estivo, gli colpisce il viso. Sistema il bagaglio a mano accanto all’armadio e poi, mentre si volta, lo vede. È lì sulla scrivania, sì, proprio lui, l’orsetto dei Baci Perugina che gli aveva regalato la sua Maria quando stavano assieme. Gli arriva un colpo al cuore. Fa qualche passo indietro, si siede sul letto, gli tremano le mani, gli bruciano gli occhi.

    «Ti piace?» La mamma entra dalla porta.

    Fa qualche colpo di tosse. La voce è sparita, così tossisce ancora. «Sì. È tutto come lo ricordavo.»

    Si alza, si piega verso il bagaglio, fa scorrere la zip e prende un piccolo pacco. «Questo è per te.»

    Lei spinge le mani verso di lui. «Cos’è?»

    Ride. «Non lo so, dai, aprilo.»

    «Come, non lo sai?»

    Ride ancora. «Certo che so cos’è, ma ho perso il vizio di anticipare.»

    Le tremano le mani.

    «Vieni a sederti qui.» Francesco muove le dita sul letto.

    La mamma appoggia la scatolina sulle coperte e piange. «Il mio Francesco, il mio ragazzo.»

    «Mamma, dai, non dovevo venire?»

    Lei guarda l’orsetto sulla vecchia scrivania, Francesco si gira e lo osserva a sua volta. Trattiene le emozioni. Non può lasciarsi sconvolgere ancora una volta dal passato. Se si apre il solco dentro di lui, stavolta, non sa se riuscirà a resistere.

    La madre riprende il pacchetto, strappa la carta in cui Francesco lo ha avvolto – la donna sembra ancora scossa – e lo apre.

    «È argento?»

    Annuisce.

    «Questa collana è bellissima. Ti sarà costata una cifra, amore.»

    «Per la mia mamma sì.»

    La sistema sulle coperte e riprende ad abbracciarlo.

    «Provala, dai.»

    Si alzano insieme e lui gliela allaccia dietro il collo.

    Le fa una foto con l’iPhone e la pubblica subito su Instagram. #lamiamamma scrive, poi aggiunge: le voglio un mondo di bene #sapevatelo.

    Deve resistere molto. Vuole piangere. Sarebbe anche normale, visto che lui e sua madre non si vedono da tanto, non si sentono da troppo tempo, ma non è solo per quello, anzi non lo è affatto. Le distanze tra loro due non esistono davvero, non ci sono mai state.

    Ricorda felice il giorno in cui Lucio Dalla, nella loro cucina illuminata dal sole, cantava mentre loro due ballavano ridendo.

    Le lacrime che desidera buttare fuori con urgenza sarebbero per molto altro. E invece si morde il labbro inferiore, sbatte le palpebre, si fa forza, e sorride, come se fosse tutto a posto.

    Ma non lo è.

    Tre

    A volte la vita è strana. Ci sono stati momenti in cui ho pensato che tutto andasse storto, e cadesse giù in modo costante, rapido, come se fosse destino, soltanto perché non guardavo nel modo giusto gli eventi. Mi capita di concentrarmi su certe cose inutili e di trascurare, invece, ciò che non dovrei. Arrivano sempre quei momenti in cui mi metto in un angolino e mi lamento senza reagire. Dopo un po’ smetto di fare anche quello, non mi lagno nemmeno più, subìsco in silenzio me stesso, gli altri, il mondo intero.

    Per me, la cosa ancora più inspiegabile, è quando finalmente le cose mutano in meglio e, accidenti, il destino si mette di mezzo con un piccolo sgambetto. Mi fa cadere a terra, forse solo per il gusto di farlo, oppure per capire se sono disposto ancora una volta a rimettermi in gioco, a cambiare. È la prova con cui posso rendermi conto se il tempo ha davvero portato via i momenti bui e tetri della mia esistenza.

    La vita è troppo strana. Non si può mai restare tranquilli a lungo, si è sempre in guerra con il mondo intero e con se stessi. Oggi una cosa, domani un’altra.

    Eppure io ho ancora paura. Tanta.

    Ecco, per capire di cosa vado blaterando devo tornare indietro di qualche giorno. Devo parlare del suo arrivo, di quando lo vedo uscire dal palazzo. Gli sono abbastanza vicino. Appena fuori del portone si copre il viso con la mano destra, il sole gli dà fastidio, gli arriva dritto negli occhi.

    Mi sento strano, come se qualcuno mi avesse colpito con un bel ceffone, uno di quelli forti che si danno a chi è svenuto per farlo rianimare. Mi sembra che sia così. Sto rinvenendo dalla condizione in cui avevo dimenticato di essere stato una volta. Per me nemmeno esistevano più certe cose, certe circostanze.

    L’ho riconosciuto subito, come se ci fossimo dati appuntamento qui, proprio oggi. «Ehi, ehi. Francesco Sacco, quanto tempo!»

    Toglie la mano dalla fronte.

    «Non mi riconosci?»

    Ride, forse è sorpreso, e mi pare molto contento di rivedermi dopo tanto tempo. «Gianluca? Quanto ti sei fatto grande, cavolo. Sei proprio tu, il mio fratellino Gianluca. Ora dovrei chiamarti fratellone? Oddio, guarda come sei grande, accidenti.»

    Mi stringe a sé e poi tiene un braccio sulle mie spalle. Sono contento, vorrei saltellare per la gioia.

    Gli sorrido. In effetti, non pensavo si sarebbe ricordato di me. Non rammenti di una persona che ha sempre gli occhi tristi e che resta in silenzio senza parlare dopo che gli hai rivolto una domanda. Quante cose gli devo raccontare. «Sai che avevi ragione?»

    È come se stessi continuando una conversazione che non è mai finita, ma che non è nemmeno mai iniziata. Eppure è la prima cosa che mi è venuta in mente. Sono davvero strano. Ora Francesco prenderà le distanze da me.

    Muove la testa di lato. «Su cosa avevo ragione?»

    «La felicità sta nel trovare la persona giusta e io l’ho trovata. Non solo, ma tu dicevi anche che…»

    Resta con un’espressione seria sul viso. «Cosa?»

    Metto le mani in tasca. «Quanti ricordi! Ho appuntamento con la mia ragazza. Ci siamo conosciuti sei mesi fa e da allora ci vogliamo così bene.»

    Sto dando informazioni a raffica, sparse.

    «Quanto sono contento, ricordavo che… vabbe’, chi se ne frega quello che ricordavo.»

    Ho la sensazione di sapere cosa voglia dire.

    Certi momenti sono stati riportati indietro dal tempo, quegli attimi di buio sono lì dietro l’angolo. Li vedo. Mi sorridono. Come quei ragazzini che quando esci di casa ti aspettano sempre giù, pronti a picchiarti con pugni, cinte di cuoio e mazze di legno, di ferro.

    Ho paura, ma voglio dirglielo. Guardo in terra, poi torno a rivolgermi a lui. «C’eri solo tu nella mia testa. Per diverso tempo, e ti assicuro che non ci sono mai stati ragazzi che… con cui… Solo tu, io provavo…» Lascio la frase incompleta, sento il calore prendermi; le guance mi si staranno facendo paonazze. «Perché lo avevi capito che io… giusto?»

    «Tranquillo, tranquillo.» Mi scruta, chissà cosa starà pensando di me. «Io lo sapevo che solo una ragazza ti avrebbe reso felice.»

    Era proprio necessario che glielo dicessi? Che io… che lui… Era proprio indispensabile? Mi manca il fiato, mi sento il sangue gelare. Rido, per provare a togliermi da dosso questa bruttissima sensazione. Non so cosa pensi davvero di me.

    Mi guardo in giro, poi torno ancora con gli occhi su Francesco. «Certo, la ragazza giusta abita nel tuo palazzo. Che mi racconti?»

    Quanto mi è mancato, il mio amico capo scout.

    «Vedi, sono di passaggio. Abito a Milano, lavoro e studio lì. Ho approfittato del matrimonio di Giulia e Andrea e mi sono preso un po’ di tempo per tornare alle origini. La cerimonia è stata bellissima e loro sono felicissimi.» Annuisce, con l’espressione del viso che parla in sua vece, come se mi potesse trasportare in quelle sale di convito solo parlandone. «Sono una coppia fantastica, lo sono sempre stati, anche quando né lui né lei ancora sapevano di esserlo.»

    «Andrea e Giulia? Giulia l’amica di Maria, dici?»

    Mi sembra incredibile che il poco tempo trascorso abbia portato così tanti e grandi cambiamenti. Posso solo immaginare l’immenso dolore che l’ha assalito tornando a Napoli. Quando partì non venne nemmeno a salutarmi. Non che fossimo amici strettissimi, un po’ per colpa mia, e me ne pento tanto.

    Il giorno prima lo avrò visto per strada, il giorno dopo sono andato a bussare a casa sua e la madre mi ha dato la notizia. Era andato a studiare a Roma.

    Mi sembra ancora un tipo forte, incredibilmente un grande, il mio mito, anche se sotto quell’aria allegra non capisco se nasconde il dolore. «Io sono tanto felice, Francesco… e tu?»

    «Io? Ora che sono qui non saprei. A casa ho ritrovato l’orsetto che mi regalò Maria l’anno in cui… l’anno in cui…»

    Sbatte le palpebre, muove le labbra con un sorriso smorzato. È diventato triste. Ecco, parlo poco, ma quando lo faccio, sono del tutto fuori luogo. Mi starà odiando in questo momento preciso.

    Ora Maria non c’è più. Era una persona buona, buona come Francesco. Una volta abbiamo persino parlato. Non dovevo dire che mi sento tanto felice quando la sua ex ragazza è morta. Per questo motivo se ne è andato via da Napoli. È fuggito dal dolore. È fuggito dalla morte dell’anima.

    Guardo l’orologio, poi, per fortuna, ho modo di deviare il discorso. «Ecco Federica. Federica, ti presento il mio amico Francesco.»

    La mia ragazza è sbucata dal portone alle nostre spalle, ha occhi e capelli castani, un bel sorriso radioso come sempre.

    «Francesco il tuo ex capo scout?» Allunga una mano verso di lui.

    Lui le rivolge la propria e si salutano in questo modo. «Sì, ero un capo scout.»

    Non per fare sempre il tipo preciso, ma io ero un ministrante. Mai frequentato gli scout, a parte lui.

    «Gianluca mi ha parlato molto di te. Ti va di pranzare con noi?»

    Lo vorrei. Pranzare con lui.

    Lo desidero davvero tanto. Ho troppe cose da dirgli, ma non so se l’idea della mia ragazza sia buona. È anche vero che ora non posso fermarla, sembra così allegra, non posso bruciare le sue proposte in questo modo. «Sì, Francesco, ti va? Sono anni che non ci si vede. Offro io, dai.»

    «Ragazzi, vi ringrazio. Possiamo fare domani?»

    Lo osservo, vorrei insistere, per non rimandare, ma forse è appena tornato a Napoli e vuole stare un po’ da solo coi suoi pensieri. «Ah, giusto, sei in abiti da footing. Vai a via Caracciolo a correre?»

    «L’idea è quella. Per domani come siete messi?»

    «Direi che va bene.» Io e Federica abbiamo parlato insieme, mentre la prendo per mano. «Magari una bella pizza da Sorbillo?»

    Francesco distoglie lo sguardo da noi, come se fosse sovrappensiero. Federica lo fissa a lungo, sto per andare via, ma lui mi guarda un attimo e poi scambia con me il numero di cellulare prima di congedarsi.

    Non ho mai cancellato il suo numero. A volte sono stato tentato di chiamarlo quando in un periodo particolare e difficile le cose si erano messe molto male, ma non l’ho mai fatto.

    Andiamo via pian piano e mi accorgo che lui ci sta osservando. All’improvviso ho un’urgenza irresistibile di parlargli, sento un bisogno unico di confidarmi col mio fratellone acquisito. Ci sono cose che non gli ho mai detto davvero e le due parole che abbiamo scambiato prima sono… sono… sbagliate? Fuorvianti?

    «Ehi, che hai?» Federica mi bacia su una guancia.

    Continuo a guardare dritto davanti a me. «Nulla.»

    Si sposta e mi si ferma dinanzi. «Credo di avere visto già il tuo amico, da qualche parte, forse su una rivista, in una pubblicità. Ha un viso così familiare, sai? Ne sono quasi certa.»

    Stringo le palpebre, poi le sbatto. «Non saprei.»

    «Sì, credo di conservare ancora qualche numero.»

    Non aggiungo altro. Penso alle poche cose che mi ha detto l’ex capo scout, e sento i ricordi trascinarmi indietro, a quei giorni dolorosi, all’uscita con Mimmo, al mio carattere chiuso, alle sensazioni contrastanti di una adolescenza strana, stranissima, dolorosa come una ferita provocata da calci e lame sulla pelle. Eppure, a volte, ho la sensazione di rivivere ogni giorno quei momenti, mentre il buio mi accompagna sempre, come se non si fosse mai allontanato troppo, mai separato del tutto da me.

    Nella mia vita le incertezze sembrano aumentare, per poi sparire, per poi tornare ancora, senza arretrare mai per troppo tempo, come se non volessero proprio staccarsi da me. Ci sono giorni che sto benissimo e altri molto meno, soprattutto quando piove, quando devo cucinare e non ne ho voglia.

    Quando la pioggia batte sui vetri, lenta e silenziosa.

    Mi stenderei sulle coperte del letto, nel buio della mia stanza, senza fiatare, in attesa di addormentarmi lì sopra, lasciandomi attraversare da brividi febbrili mentre cerco il cuscino a occhi chiusi.

    A volte, su quel letto, nei giorni di pioggia, abbandonando il mio fisico straziato e debole, risento i brividi percorrere la schiena. Col corpo fermo e le palpebre abbassate, odo il ritmo del mio cuore, sento la mancanza di qualcuno che mi faccia una domanda, una sola piccola grande domanda, anche se io non riuscirei a rispondere. Mi ammutolirei per minuti interi come accadeva sempre quando ero adolescente.

    Federica mi prende il viso tra le mani e lo fa dondolare. «A che stai pensando?»

    «A te.»

    «E hai una faccia così turbata? Stavi bene stamattina o hai avuto ancora dolori allo stomaco?»

    Sì, i famosi dolori allo stomaco. A volte ci sono, altre volte no, ma sono quelli dietro cui mi trincero per non parlare di ciò che non riesco a capire di me.

    Le sorrido, non è che abbia molto da aggiungere, ma lei attende una risposta. «Niente di grave, dai. Mi passerà tutto. Sono gli esami, mi tengono in tensione.»

    Ed è vero. L’università non è facile da gestire nelle mie condizioni. Vivo da solo e devo lavorare per pagarmi l’affitto, sto iniziando a pensare che per riuscire ad avere meno pensieri dovrei provare qualcosa di più redditizio. Ma cosa? Cosa posso inventarmi di questi tempi?

    Eppure, stamattina, quando mi sono svegliato, ero meno teso, più rilassato, non lo nego. Sollevo lo sguardo verso il cielo. Non ci sono nubi scure.

    «È perché devo partire per Parigi senza di te?»

    Cosa dovrebbe mai succedere quando non sarò con lei? Però, se ora non darò una motivazione riguardo il mio stato di presunta tristezza, Federica non si arrenderà. Quale sintomo ho? «Credo di sì, però mi passerà, dai. Sto bene.»

    «Ti passerà?»

    Continua a osservarmi. Non l’ho convinta? Se è per questo, non ho persuaso nemmeno me stesso.

    «Senti, però dobbiamo chiarire una cosa» ha quasi bisbigliato.

    «Sarebbe?»

    «Dalla Francia non posso chiamarti. Non possiamo scambiare molti messaggi, non so come funziona il roaming, quanto si paga. Sono in economia, lo sai.»

    «Va bene.» La abbraccio, appoggio il mento su una sua spalla. Non lo faccio mai per strada. Certi complessi non li ho superati, ma in quel momento non mi importa, mi sento davvero male. «Ti voglio bene.»

    Lei ride. «Già ti manco?»

    Passa le sue dita sulla mia schiena, sui capelli. «Allora lo sai cosa possiamo fare.»

    Ci sto lavorando su. Da quando l’ho conosciuta ho cambiato molte cose di me, abbiamo parlato e sono riuscito addirittura a fidanzarmi con lei, ad accettare che in certi giorni deve uscire da sola con le amiche, inclusi alcuni sabato. Cerca di farli coincidere con quei giorni in cui lavoro al pub.

    Mi stacco da lei, poi la prendo per mano e mi sento più leggero, ma non le rispondo, ignoro la sua allusione. «Dai, ho fame. Andiamo.»

    «Fame di me?»

    «Anche.»

    Ridiamo insieme, poi Federica continua a studiarmi. Stavolta sembra lei quella triste e a me non va di chiederle il perché, se avessi bevuto una cassa di birra forse mi sentirei meno stonato.

    Il sole è davvero caldo, l’estate è praticamente qui, sta entrando con insistenza in questo mese di maggio e il leggero venticello rende il momento perfetto.

    «Ma me lo dici cos’hai davvero?»

    Mi sta sul serio sfiancando.

    «Non sto pensando a nulla. Non ho nulla» mento.

    Ricordo l’attimo esatto in cui iniziai a rendermi conto che ogni parte del mio universo stava crollando e che non sarei riuscito più a farmi forza a lungo.

    È successo più o meno un anno e mezzo fa. Prima di incontrare Federica, prima di capire il mondo. Prima di tante altre cose. Una di quelle decisioni prese con urgenza, senza pensare troppo. Un problema serio non lo si combatte rimandando per sempre il da farsi, o lo si affronta di petto e subito, o nel quotidiano inizia a trascinarsi dietro mille nuovi timori, grattacapi.

    Ero con un foglietto chiuso in mano, seduto dietro un banco dell’università. L’aula era vuota ma, nonostante ciò, avevo paura, custodivo dentro quel pezzetto di carta il mio piccolo segreto; guardavo la lavagna nera su cui mezz’ora prima c’erano state le note del docente. Che poi non era questo gran segreto. C’era un numero di telefono, il numero di un medico.

    Sapevo di dover chiamare, non sarebbe successo nulla di che, avrei fissato un appuntamento e poi… e poi non lo so cosa sarebbe accaduto nei dettagli. Sarei andato allo studio, avrei pagato e avrei fatto la seduta. Eppure io vivo di particolari, la mia vita deve essere sempre chiusa dentro quelle minuzie che stabiliscono ogni mio passo, devo avere sempre tutto sotto controllo, emozioni incluse. Proprio quelle, poi, erano un problema, perché spesso

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