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Joe è tra noi
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E-book321 pagine4 ore

Joe è tra noi

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Info su questo ebook

 «Ti prego, Joe, aiutami, non lasciarmi morire.»

In un futuro dove la tecnologia domina l'esistenza di tutti, Anika è la grande madre rete globale su cui ci sono vita, morte e miracoli del mondo intero, una rete interconnessa a ogni casa, scuola, edificio, che regola l'accesso alle informazioni.

Ma ad alcune di esse non è possibile accedere.

Joe è un ragazzo che affronta la vita in una Londra dell'anno 2358. Una richiesta d'aiuto anonima che rimbomba nella sua testa lo spingerà verso agghiaccianti scoperte, che cambieranno per sempre la sua esistenza.

L'eterna ricerca della perfezione e il desiderio del controllo sono i temi di questo thriller fantascientifico. 

È possibile cambiare il proprio futuro alterando il DNA?

 

-- Attenzione: il testo è consigliato a un pubblico di soli adulti. --

 

Autore anche dei racconti/raccolta di racconti:
- Deve accadere
- Viaggio dentro una storia
- Journey within a story
- Racconti dall'isola

del romanzo di fantascienza:
- Joe è tra noi

e dei romanzi della serie "Le parole confondono":
- Le parole confondono: volume 1
- Certe incertezze: volume 2
- I motivi segreti dell'amore: volume 3
- Un giorno, sempre: volume 4
- Sempre coi tuoi occhi: volume 5
- Sai correre forte: volume 6

LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2015
ISBN9788890755958
Joe è tra noi

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    Anteprima del libro

    Joe è tra noi - Giovanni Venturi

    uno

    Spinge il corpo con la forza che gli resta; è magro, con qualche accenno di muscoli, ma oggi non riesce a sollevarsi quanto desidera. Respira, poi le braccia affondano di nuovo – l’odore del cloro non manca mai –, batte i piedi e sa che deve agitarli con più rapidità, deve muoversi con più scioltezza, perché deve librarsi sull’acqua.

    C’è solo lui. È presto. La mente vuole divagare ancora una volta. Si è svegliato di soprassalto quella mattina, come accade quasi sempre da qualche settimana… o forse si tratta di un paio di mesi? Non ricorda più, si è abituato.

    Anche quel giorno non ha detto niente a nessuno, forse il suo corpo sta reagendo a qualche sostanza che ha ingerito col cibo in uno dei locali in cui va coi suoi amici, ma non gli sembra una spiegazione tanto plausibile, forse è solo stress, solo preoccupazione per il suo rendimento scolastico, ma non è nemmeno quello. Riesce a essere sempre impeccabile, soprattutto quando si tratta di applicare la logica e spesso anche quando deve memorizzare i concetti, le definizioni, ciò che vede. E ci riesce bene.

    Ritorna dai suoi pensieri, si concentra. Piedi, braccia, determinazione, col suo stile delfino avanza lungo la corsia della piscina; intravede il fondo mentre agita ogni parte di sé, adora quell’acqua limpida, così perfetta e trasparente, ma quando si trova al centro ha paura. Le otto vasche, i cinquanta metri di lunghezza e i quattro di profondità, che in quel punto diventano sette, mentre è lì da solo, lo spaventano. Potrebbe non arrivare sul bordo, potrebbe sentirsi male, come in quei sogni confusi che lo coinvolgono così tanto, a tal punto reali che l’angosciano. Eppure, appena apre gli occhi, spariscono lasciando solo un gran senso di oppressione.

    Riduce sempre di più la distanza, i cinquanta metri ora sono diventati trenta, poi venti, sempre più vicino, ma è stanchissimo, gli manca l’aria, ancora. Allarga le dita, muove le mani e le braccia sotto di sé, spinge con tanta energia per spostare quanta più acqua gli riesce, si coordina con le gambe. Deve volare. E vola. Urla e resta col fiatone, ma ce l’ha fatta. Ora è attaccato al bordo, fermo, ma non riesce a liberarsi dai brividi che lo scuotono, si osserva i piedi e vede che sono lì appesi, e il fondo è molto lontano.

    Si passa le dita sul viso, prova a calmarsi, sente dei rumori. C’è qualcuno in una delle ultime corsie, forse un uomo, poi scorge due ragazze tuffarsi e iniziare ad alternare il movimento dei piedi con gran precisione, a scivolare sulla superficie. L’eco dell’attività fisica riempie la volta, un soffitto altissimo. Guarda sopra la propria testa e vede il cielo limpido, sa che c’è una spessa vetrata che lo tiene al sicuro, che impedisce ad animali, vento e pioggia di introdursi nella piscina, ma è così perfetta che ha sempre la sensazione che non ci sia nulla lassù, forse è tutto aperto.

    In alcune occasioni è venuto di sera inoltrata e ha notato la luna piena. A quell’ora, però, l’illuminazione è solo nelle corsie, mentre intorno ci sono fasci di luce che seguono il percorso in cui ciascun ospite si muove. L’intelligenza artificiale del sistema è così complessa che realizza una previsione perfetta del tracciato che ciascun nuotatore segue per raggiungere il bordo vasca e tuffarsi.

    Le due ragazze sembrano riuscire dove lui ancora si blocca; si concentra troppo, si lascia conquistare da pensieri, da ricordi, da sensazioni invadenti, a volte perde il conto delle vasche fatte e di quelle ancora da fare.

    L’unità di training personale ha elaborato per lui una precisa serie di esercizi, successione di stili, per tirare fuori il meglio e permettergli di sviluppare ancora di più la propria muscolatura, per allenare resistenza, respiro. Il pensiero di doversi sollevare come un vero delfino, per poi calarsi e correre con le bracciate, lo mette quasi in ansia. Adora lo stile libero e il dorso. Riescono a rilassarlo come lui desidera, ma l’unità di allenamento lo mette sotto stress per spingerlo sempre oltre il numero delle vasche da percorrere.

    Inspira, trattiene il fiato, si immerge con la testa, poi emerge ed espira. Ripete il tutto quattro volte, poi solleva una mano. Pare quasi come se volesse ripararsi da qualcuno che è lì davanti a sé e vuol picchiarlo. Si ferma, guarda comparire un piccolo schermo olografico che gli illustra i dettagli del suo allenamento: gli fa notare che mancano ancora dieci vasche. Ora deve alternare per un po’ cento metri di stile libero con cento di dorso.

    «Ce l’ho fatta, ho quasi finito.» Sorride, piega il mento in basso e vede riflesso il proprio viso che mostra una dentatura bianca perfetta.

    L’allenamento terminerà tra 6 minuti e 41 secondi. Spazio rimanente da percorrere: 500 metri; velocità media di esercizio 1,2468 m/s; lunghezza totale attraversata a fine allenamento: 5350 metri è la scritta che vede lampeggiare sul fondo della proiezione olografica.

    Ci siamo quasi.

    Solleva lo sguardo verso la vetrata e vede ancora il cielo limpido. Niente nubi, non sembra quasi di essere a Londra. La luce è forte e illumina in maniera naturale tutto l’ambiente.

    Sono stanco di allenarmi. 1,2468 m/s. 500 metri. Tutti questi calcoli… Basta!

    Osserva ancora lo schermo olografico. «Sparisci!»

    Lo vede lampeggiare e poi dissolversi.

    Centinaia di anni prima c’era bisogno di uno smartphone legato al braccio, di un’applicazione che usasse il GPS. Era l’unico modo per determinare quanta parte di allenamento ancora ci fosse da fare, lo spazio percorso e il tempo impiegato per farlo. Il ragazzo ne ha letto in vecchi articoli, oggi sa che con le tecnologie in voga nel 2358, non c’è bisogno di molto. C’è la rete Anika ad altissima velocità e unità elaborative distribuite con processori e tecnologie in fibra e tessuto, ovunque. Basta un piccolo dispositivo appeso al collo, a volte nemmeno, e, sollevando una mano, si viene identificati e si dispone di uno schermo olografico con tutti i dati desiderati.

    Lui è abituato. È nato in quel mondo, ma qualcosa lo inquieta, parecchio. Troppo controllo, troppe informazioni, troppa tecnologia e, spesso, null’altro.

    «Joe?» Una voce. Nitida. Inequivocabile.

    Chi mi chiama?

    Si volta, ma non vede nessuno alle sue spalle, non c’è anima viva nemmeno dove poco prima comparivano le indicazioni per completare le ultime vasche.

    Apre la bocca, tira dentro l’ossigeno, pronto a quell’ultima carrellata, quando sente di nuovo la voce.

    «Aiutami.» È nella sua testa?

    Il collo, le labbra, il naso, il viso tutto, sono a contatto con quel liquido tonificante e cristallino. Inizia la sua sequenza di stile libero, la voce sembra sparita, eppure ha voglia di piangere. Il fondale diviene trasparente, ora è come trovarsi in mare aperto ed essere inghiottiti dallo stesso. No, è peggio, non c’è fondo, sembra andare giù per chilometri.

    Chiude gli occhi, stringe i denti e accelera. Deve uscire da quella piscina quanto prima.

    «Aiuto.» Ancora una volta, è tornata, sembra un accento che conosce, ma respinge quell’idea, ferma ogni pensiero, ogni tormento, sorride senza aprire la bocca e riprende a nuotare.

    Il suono sparisce del tutto.

    Piedi, braccia, determinazione, e col suo stile libero avanza lungo la corsia della piscina in solitaria. Nessuno è lì con lui.

    Ti prego, Joe, aiutami, non lasciarmi morire.

    Si spinge ancora avanti, le mani smuovono il fluido con tutto il vigore che i suoi diciotto anni gli permettono, lo sente passargli tra le dita, poi, il terrore si impadronisce di lui e, come sempre, si perde.

    Ti prego, Joe, aiutami, non lasciarmi morire. Aiutami.

    due

    Il sole entrò dalla finestra aperta. Nessuno parlava. Tutti in attesa del docente di Programmazione Logica e Informatica.

    «È qui, accidenti. È qui.» Un ragazzetto corse a sedersi rapido. «Tu sai quanto sia difficile questo corso?»

    «No.» L’altro scosse la testa, con lo sguardo perso nel vuoto, poi si riebbe e cambiò espressione.

    «E allora perché sorridi?»

    «Non saprei. Dovrei piangere?» Riprese il suo atteggiamento di sempre – serio e imperturbabile – e guardò verso l’arco della porta.

    Vide entrare un uomo sulla trentina – forse più grande, magari trentasei anni. Aveva capelli lunghi castani e un paio di occhiali che gli ricordavano una foto vista mentre consultava Anika.

    Stile John Lennon. Prese a osservare il banco innanzi a sé.

    «Com’è possibile che al giorno d’oggi esistano ancora persone che portano occhiali, Joe?» Il ragazzo di prima rise, in segno di disapprovazione.

    «Perché, Will?» Si voltò verso il suo compagno.

    «La tecnologia, la genetica. Ma dove vivi?»

    L’uomo posò la propria borsa sul bordo della scrivania di finto legno e osservò i due ragazzini; mise le mani nelle tasche dei jeans e continuò a studiarli. «Salve, fanciulli, tutto bene? Di che si discuteva? Algoritmi, immagino. Oggi ne siamo circondati, non trovate?»

    Si voltò e sollevò la mano verso la parete. Comparve uno schermo olografico che, su uno sfondo trasparente, compose la parola algoritmo. «Ecco a noi.»

    Spinse l’indice davanti a sé, come se stesse premendo su un pulsante invisibile, e la parola iniziò a ruotare su se stessa, sempre più veloce. Le vocali e le consonanti si confusero, poi tornarono a ricomporre quel termine, battevano come un cuore, poi si ingrandirono e algoritmo si fermò al centro dello schermo, grande da poter essere visto ovunque nella classe.

    Il ragazzo sorrise di nuovo.

    «Bella scena, vero, signorino?»

    Non rispose, strinse i denti e serrò le labbra, poi deglutì.

    «Io sono il vostro insegnante di Programmazione Logica e Informatica. E questa è la classe prima, giusto?»

    «Sì» risposero un po’ tutti.

    «Classe prima, sezione A, numero degli allievi: 37. Numero assenti: 3. Numero medio degli allievi per classe: 50.» Era la voce suadente dell’intelligenza artificiale della scuola. Era la stessa in tutto l’edificio, ma c’era una personalizzazione per ciascuna classe. Ogni intelligenza artificiale aveva un proprio nome. «Età degli allievi: anni 14. Il mio nome è Maya, professor Lafken, e sono la sua assistente personale.»

    «Per chi vuole seguire direttamente dal suo schermo olografico, può…»

    «Professore, si chiama oloschermo. Da dove viene?»

    Un leggero ronzio si diffuse davanti ai lunghi banchi degli allievi e un piccolo oloschermo riprese il termine indicato su quello del docente.

    «Certo, oloschermo. Ora dammi anche la definizione di algoritmo, visto che siamo così in vena di fare bella figura il primo giorno, no?»

    Era come essersi puntato un faro abbagliante addosso, da solo. Si fece coraggio e si schiarì la voce con un colpo di tosse. «Un algoritmo rappresenta una serie di passi finiti che altro non sono se non il ragionamento che permette di risolvere un dato problema. Il termine algoritmo è la trascrizione latina del nome del matematico persiano al-Khwarizmi. Fu tra i primi a formulare quest’idea e a praticarne i concetti.»

    Il docente restò col sedere poggiato alla scrivania.

    Joe ebbe la sensazione che gli stesse fissando i capelli, sollevò un po’ il viso e il ciuffo ribelle gli finì sugli occhi. Sì, stava mirando il suo colore. Era di un castano così chiaro che, in realtà, si spingeva nel color rame. Tutti restavano colpiti da quella tonalità.

    Continuava a tenerlo d’occhio. «E dove hai sentito parlare per la prima volta di queste cose?» Abbassò lo sguardo sull’oloschermo, poi lo risollevò guardando dritto davanti a sé. «Non so di preciso.»

    «Non sai di preciso? Come ti chiami, ragazzo?»

    Scrollò le spalle e attese il peggio. Il docente sciolse la sua posa da adolescente e incrociò le braccia sul petto.

    «Si chiama Joe, professore.» Il suo compagno di banco gli batté una mano sulle spalle. «Ed è timidissimo.»

    L’amico lo guardò, poi subito tornò a osservare la reazione del nuovo insegnante. Non voleva iniziare male la giornata e, soprattutto, non ci teneva a suscitare troppo interesse nel docente. Desiderava parlare solo quando interrogato e, forse, nemmeno.

    Avrebbe dovuto stare zitto ed evitare quei commenti da saccente sul termine usato prima. Oloschermo o schermo olografico era perfettamente la stessa cosa, sapeva bene che entrambe le terminologie erano corrette, eppure doveva parlare. Sentì la pelle del viso incendiarsi, doveva essere diventato rosso ovunque. Restò in attesa di una sospensione, di un cattivo voto il primo giorno. Sentiva la lingua secca, mentre Will, invece, era più allegro che mai.

    «Vedo, vedo, quant’è timido. Giusto per curiosità, sapresti anche dirmi, alla tua veneranda età di quattordici anni, come si calcola il minimo di una sequenza di numeri interi positivi?» chiese, mentre mirava l’aula. Era piccola e ricolma di ragazzi in giacca blu, camicia bianca e cravatta a righe blu e rosse, ognuno con un piccolo bermuda blu e scarpe scure con calzini bianchi. «O qualcun altro vuole correre in soccorso del nostro amico?»

    Le ragazze, invece, indossavano gonna e calze. Quasi tutte con treccine identiche e inquietanti, solo un paio di loro avevano la coda di cavallo.

    La calma scese all’istante sulla platea che affollava la piccola aula; anche il leggero brusio dovuto alla risposta del ragazzo s’era completamente dissolto. Ora regnava solo un’atmosfera intrisa di silenzio.

    «Basta considerare come valore minimo il primo elemento della sequenza, poi, per ogni altro intero positivo, è sufficiente effettuare un confronto tra il minimo trovato fino a quel momento e il numero x della sequenza.» Joe accettò la sfida, la schiena eretta, lo sguardo rilassato e sicuro di sé. «Se il minimo relativo è maggiore dell’intero positivo x, allora sarà quest’ultimo a diventare il nuovo valore minimo di riferimento. Si procede così fino ad arrivare all’ultimo numero intero positivo della serie. Il procedimento, come vede, conta un numero finito di passi e riesce a determinare il minimo di una qualsiasi lista di numeri finiti. Mi permetto di aggiungere che, invece, si può ottenere il massimo considerando lo stesso procedimento, ma con un confronto al contrario.»

    «Certo.» L’insegnante aprì la bocca, lasciando un sorriso spandersi sulle labbra e su tutto il volto. «Il massimo relativo resta tale se l’intero positivo estratto dalla sequenza è minore o uguale al massimo, giusto?»

    Il ragazzo mosse la testa su e giù, molto piano. «Si potrebbe anche ordinare la sequenza e stabilire che il primo numero della stessa è il minimo, mentre l’ultimo è il massimo, oppure, considerando un intero positivo di due byte, il minimo può essere assegnato col valore iniziale di 65535, mentre il massimo col valore 0 e quindi…»

    Il docente sollevò la mano. «Mi arrendo, genio, dove hai studiato tutte queste cose?»

    Ci fu un lungo mormorio in classe, qualcuno rise, poi tutto tornò alla calma; anche il suo compagno di banco Will attese, sembravano tutti curiosi della sua risposta.

    Spostò il capo prima da un lato, poi dall’altro, in cerca di aiuto, e dopo un istante si bloccò del tutto. «Le ho dedotte.»

    Il professore liberò le braccia e le stese lungo i fianchi, provò ad avvicinarsi, poi fece alcuni passi indietro, fissò il ragazzo, prese di nuovo ad accostarsi. «Stai tremando. Sei tutto rosso in viso.»

    Era terribilmente in soggezione per le sue domande.

    «Dici che le hai dedotte?»

    Il ragazzo assentì. «Forse le ho studiate tempo fa sul pliabook di mio padre. Non ricordo.»

    «Quindi non ti divertivi solo ad arrotolarli?» Gli mostrò un sorriso strano, come se volesse condividere un segreto con lui.

    Il ragazzo ricordò delle prime volte che aveva trovato il dispositivo. Sembrava un rettangolo sottilissimo fatto di plastica, lo sfiorò e vide il testo di alcuni documenti. Si chiamavano libri e un tempo erano in formato cartaceo, riposti nelle biblioteche e negli scaffali delle case in tutto il mondo, ma questo prima dell’avvento dei pliabook. Accarezzò la superficie del dispositivo, poi lo prese con la punta delle dita e iniziò a farlo sventolare come un fazzoletto, quando lo vide arrotolarsi da solo, come un antichissimo papiro, ma dal contenuto sconfinato.

    «Come ti chiami? Dico, il tuo nome completo.»

    «Joseph Campbel, signore.»

    Il docente sgranò gli occhi, poi gli sorrise e si avvicinò ulteriormente. «Sono convinto che un giorno ti ricorderemo tutti. Non credi, Joseph Campbel?»

    Joe increspò lievemente le labbra e cercò di capire come avesse fatto, con tanta scioltezza, a impostare il suo primo algoritmo informatico scolastico in almeno tre modi diversi e a conoscere la definizione precisa della parola algoritmo, ma nei suoi pensieri c’era una fitta nebbia. Era tutto ingarbugliato e perso nei meandri della sua mente. Non ricordava di aver usato il pliabook per ritrovare quelle informazioni. Doveva essere avvenuto troppo tempo prima, ma nemmeno di questo era certo. Perché non ricordava?

    Guardò fuori dalla finestra e una sensazione di déjà vu lo colpì come un cilindro di ferro alla base del collo.

    Il suo compagno di banco lo strinse a sé. «Nel caso so da chi copiare gli algoritmi, vero? Perché non vieni a cena a casa mia stasera?»

    Non riusciva a muovere il collo, la luce che si introduceva nell’aula, rimbalzando da un punto all’altro della stanza, sembrò più intensa, più abbagliante. A tratti quasi lampeggiante.

    Il suo amico lo strinse ancora. «Ehi, Joe, cos’hai?»

    Non lo ascoltava affatto. Provò a uscire dal banco, posò la mano sul viso per ripararsi dal sole, respirò agitato, sentì come un fischio acuto, poi vennero meno le gambe e ci fu il buio più completo.

    tre

    Per quanto la giornata sia limpida, per quanto il sole colpisca marciapiedi, palazzi, tavolini all’aperto, alberi, l’acqua delle fontane, i corpi non sono ancora abituati al freddo che è calato durante la notte. È stato un autunno un po’ anomalo. Il giorno prima c’erano ancora ventisette gradi e molti continuavano a recarsi al mare nel fine settimana. Qualcuno sceglieva Brighton, ma non era mai soddisfacente come una vacanza in Italia, nei mari della Sicilia. Qualcun altro si recava presso le virtual beach, dove c’era la sensazione vera e propria di essere al mare: sabbia, cielo azzurro e onde. Le proiezioni olografiche e la realtà virtuale in 5D, negli anni, sono diventate così precise e reali da sostituirsi alla realtà stessa, da poter aprire campi e boschi sconfinati in una stanza o nel centro di una città metropolitana come Londra, aggiungere coste bagnate dal mare, spiagge con palme e distese sconfinate di sabbia e oceano.

    Anche Londra è cambiata. In primavera e d’estate possono esserci giornate calde il più delle volte, il clima è diventato quasi mediterraneo. L’evoluzione, l’inquinamento, i gas serra, hanno modificato le condizioni climatiche e ambientali; non ci sono più tante giornate piovose e umide che si succedono anche d’estate, come accadeva centinaia di anni prima.

    «Accidenti, dove sarà mai questa agenzia?» Joe dà uno sguardo al suo pliabook. «Accidenti, sono già le quattro.»

    Il luogo è quasi deserto, si leva un po’ di vento e il ragazzo si stringe di più nel suo giubbotto. Gli sembra breve il passo verso il Natale. È quasi fine ottobre, manca davvero poco, ma il suo pensiero muore sul nascere, ora è concentrato sul luogo in cui si trova.

    I palazzi sono tutti belli alti, con finestre composte solo da vetrate, dove centinaia di persone sono riverse dietro un’interfaccia elaborativa, dietro oloschermi, a lavorare, a inviare messaggi e resoconti tramite la grande rete Anika, e dove le connessioni vocali irrompono di continuo in un open space di un call center, dove miriadi di informazioni appaiono e scompaiono in aria, su proiezioni olografiche.

    Eppure la zona sembra antica, ferma nel tempo da decine d’anni, forse secoli. Il tutto ha un’aria poco tecnologica, molto più naturale, come si legge in quelle storie che scorrono parole dietro parole, su un pliabook, magari pronunciate dal perfetto sintetizzatore vocale del dispositivo.

    C’è una fontana al centro dell’area. Gli spruzzi d’acqua si allargano in varie direzioni, compongono, tutte insieme, un disegno tridimensionale, forse quello di una donna nuda con una coperta che ricopre le sue intimità. Il ragazzo immagina cosa possa accadere in una giornata di fine gennaio dove, a volte, la temperatura scende sotto lo zero.

    Un altro colpo di vento lo costringe a richiudere gli occhi, a stringersi di più nel suo giubbotto. Alza la testa e vede sopra di sé un piccolissimo stormo di passerotti, forse una decina, forse venti. Battono le ali, volano molto rapidi, cinguettano, attraversano il cielo e si riversano sui rami di alcuni alberi. C’è questa area di verde ai lati del vialone centrale che compone la zona in cui dovrà presumibilmente cercare l’agenzia. Gli uccelli si sistemano sugli alberi in bell’ordine e fanno silenzio.

    Sorride, poi riprende a osservare la fontana. Ci sono tratti in cui il liquido scorre in orizzontale e poi cade a cascata come se ci fosse un ripiano invisibile che impone quel percorso al flusso. Sui due lati ci sono due piccoli draghi di pietra che sputano fuoco, un fuoco composto d’acqua, acqua viva che viola le leggi di gravità.

    Il vento è insistente, ma la struttura lì davanti a sé non ne risente. Il flusso continua a seguire il suo percorso innaturale, anzi, lo incanta quando uno spettro di colori si presenta alla sua vista. È composto in modo rigoroso da: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto.

    Adora la dispersione e la rifrazione della luce sulle gocce d’acqua.

    Solleva le mani e si lascia colpire dai colori.

    Un’ombra gli passa di lato. La nota appena, si gira. È un bambino piccolissimo, avrà forse tre anni, forse quattro, e porta un altrettanto piccolo zaino sulle spalle. Cammina da solo.

    Il ragazzo guarda dietro di sé, a sinistra, poi a destra, davanti a sé. Nulla. «Ehi, piccolo, dov’è tua madre?»

    Il bambino non lo ascolta, procede a piccoli passi, lento, verso il vialone centrale. Quel posto sembra una città dentro la città, ma una città periferica, di cui quasi nessuno conosce nulla. Ha dovuto cercare diverse ore su Anika prima di capire dove si trovasse e come si raggiungesse, eppure le informazioni spesso gli saltano addosso. Non deve fare altro che pensarle e il suo pliabook gliele mostra senza indugio, mezzo secondo dopo aver pronunciato la domanda. Spesso non digita per effettuare ricerche. A volte il pliabook lo chiama per nome e gli corregge la pronuncia, come se fosse vivo e pensante.

    «Ok, Anika. Cerca Anocronis.» Ha pronunciato quelle parole più e più volte sul suo dispositivo, ma solo dopo diversi tentativi è riuscito a scovare parte di ciò che cercava, forse è un errore del sistema di ricerca, eppure l’esattezza dello strumento e di Anika rendono non plausibile questo tipo di problemi.

    «Sarà stata l’assenza di un segnale costante, qualche disturbo atmosferico, qualche scarica elettrostatica o qualche campo magnetico dovuto ai lampi» aveva pensato ad alta voce diversi giorni prima, ma senza troppa convinzione, proprio un attimo dopo che si ritrovava a consultare una mappa di Anocronis, stranamente imprecisa,

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