Una foglia di banano per ombrello
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L’infanzia durante gli anni ‘60 nell’Isola filippina di Bohol descrive un’epoca rurale, in cui le abitudini delle persone sono dettate da una natura dominante, a volte madre e spesso matrigna, con i suoi pericoli dietro l’angolo, e dalle festività della fede cattolica, di cui è permeata la cultura locale.
La fede in Dio è un tema ricorrente e totalizzante in tutta la storia di Pantalia che, sposandosi con un italiano nel 1987 e trasferendosi a Modena, cambia completamente abitudini e riferimenti culturali.
Gli eventi spalmati dalla vita sul suo percorso hanno realizzato una trasformazione lenta e profonda della giovane donna spaesata giunta in Italia.
Viaggiando per il mondo in quasi tutti i continenti, ha scoperto la bellezza della multiculturalità e la gioia dell’indipendenza personale, sempre coadiuvata da una profondo lavoro interiore spirituale.
Oggi sessantenne, ha ancora mille progetti in animo e una grande certezza: gli anni felici sono stati quelli in cui bastava una foglia di banano per soddisfare qualsiasi necessità.
Una foglia di banano per ombrello oppure come porta pranzo, in cui la mamma avvolgeva il riso, con le uova fritte o il pesce secco salatissimo da mangiare a scuola.
Basta poco per la felicità, e non è mai troppo tardi per comprenderlo.
Pantalia Baugbog è nata il 27 luglio del 1959 a Bohol, un’isola delle Filippine.
Nel 1987 si è trasferita in Italia, a Modena, dove risiede ancora oggi.
Pur avendo svolto vari lavori, si identifica in quello di viaggiatrice.
Questo libro è il racconto del suo viaggio, nella vita e per il mondo.
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Anteprima del libro
Una foglia di banano per ombrello - Pantalia Baugbog
Pantalia Baugbog
UNA FOGLIA DI BANANO PER OMBRELLO
© 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-4335-6
I edizione settembre 2023
Finito di stampare nel mese di settembre 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
UNA FOGLIA DI BANANO PER OMBRELLO
A cura di: Annarita Padovano
CAPITOLO 1
GLI ANNI FELICI: UN MONDO CHE NON ESITE PIU’.
Il mio nome racconta già un destino: è strano, al mondo probabilmente lo porto solo io.
Per curiosità ho fatto qualche ricerca su internet, ma non ho trovato nulla e quindi mi sono abituata all’idea dell’unicità.
Da quando vivo in Italia mi piace persino, perché tutti me ne hanno fatto notare la specialità, prima lo avevo solo cordialmente detestato.
Secondo la consuetudine, per cui il nome di un bambino si stabilisce in base al santo del giorno sul calendario, i miei genitori non ebbero alcun dubbio il 27 luglio: San Pantaleo, che adattato ad una femminuccia divenne Pantalia.
Nel 1959 di eventi se ne sono registrati tanti.
Il mondo era già diviso in due blocchi contrapposti (USA – URSS) e lanciato in quella che è stata definita: La guerra fredda
.
Intanto, proprio quell’anno Fidel Castro entrò trionfante a l’Avana alla guida dei suoi fedelissimi, concretizzando la nascita di un Governo Rivoluzionario.
Invece, il Tibet vedeva sfumare definitivamente la sua indipendenza, inutilmente rivendicata con una ribellione sfociata in un mare di sangue, per mano dell’esercito cinese.
Non voglio elencare solo vicende politiche e ce ne sarebbero tante altre, ma preferisco ricordare che fu inaugurata la metropolitana di Lisbona; che gli astronomi riuscirono a calcolare il diametro di Venere e la struttura della sua atmosfera; che fu ideato il simbolo della pace, oggi universalmente noto ed infine, che nei negozi comparve per la prima volta la bambola Barbie.
Ecco… mentre accadevano tutti questi mirabolanti avvenimenti, io nascevo nella casa in cui ho vissuto tutta la mia esistenza con la famiglia, in un villaggio rurale delle Filippine.
Di isole in quell’arcipelago ce ne sono più di settemila, la mia è quella di Bohol, che dà il nome alla provincia, la cui capitale è Tagbilaran, accorpando le altre settantacinque isole vicine, come quelle di Cebu, Mindanao e Leyte.
Oggi è sicuramente fra le mete turistiche più note della zona, per le bellissime spiagge immerse nell’oceano blu; per i suoi tratti di barriera corallina; per le particolari montagnole tutte simmetriche fra loro, chiamate Chocolate Hills dato il colore delle rocce, che spiccano in contrasto con il verde della giungla.
Io però non sona nata vicino al mare, invece sono figlia di una campagna selvaggia, dirompente, in cui la modernità e le comodità non si riuscivano neanche ad immaginare.
Il villaggio in cui ho vissuto l’infanzia si chiama Cambailan, comune di Catigbian, nella Regione di Visayas Centrale.
Fra i miei genitori c’erano ventotto anni di differenza e la mamma era la seconda moglie di un vedovo piuttosto anziano per lei.
Dal primo matrimonio mio padre aveva avuto sei figli, tutti ormai adulti e sposati, che vivevano in varie città, mentre undici anni prima era nato il primo figlio di queste seconde nozze: un fratello che ho visto poco purtroppo, perché studiava in città.
Praticamente sono cresciuta come la figlia unica, di una coppia in cui il lui era decisamente antico (classe 1890) e la lei aveva un carattere dolcissimo e paziente.
La mamma non si può definire in altro modo, se non buonissima: accomodante e comprensiva aveva un ottimo rapporto con tutti i precedenti figli del marito, alcuni dei quali persino suoi coetanei.
Coerente con la mentalità della sua generazione e della sua epoca, quell’uomo del secolo passato opprimeva la moglie con una gelosia ossessiva e veniva vissuto più come un padre, che come un marito.
Per me avrebbe potuto essere molto più naturalmente un nonno, piuttosto che un genitore, considerando che aveva sessantotto anni, quando mi accompagnò a scuola a sette anni.
In quell’occasione avvertii la profonda diversità fra lui e tutti i papà giovani dei miei compagni e mi ha sempre accompagnata la sensazione di disagio per il rapporto instaurato fra noi, talmente negativo che il mio modello maschile è divenuto irrealizzabile, perché idealizzato nel suo opposto.
Sono nata nella nostra casa fatta di legno ed il tetto di alluminio, uno dei materiali più costosi sul mercato, per garantire una copertura migliore.
Per registrarmi all’anagrafe è stato necessario raggiungere a piedi il villaggio più vicino, che distava circa sette kilometri; la scuola era lontana tre kilometri e la chiesa due; anche le case dei vicini, per quanto si vedessero ad occhio nudo in lontananza all’orizzonte, oltre la distesa dei campi, distavano qualche kilometro dalla nostra.
Quello in cui sono nata è un mondo che non esiste più oggi, cristallizzato in un tempo talmente lontano per le abitudini ed i ritmi, da sembrare irreale.
La comunità e la società in cui vivevo era profondamente rurale e legata ad abitudini e tradizioni antiche.
Camminavamo scalzi per le strade sterrate e nella giungla, per arrivare a scuola, o andare a messa o al mercato; gli infradito di bambù intrecciato le calzavamo entrando in classe e in chiesa, dopo esserci lavati i piedi ad una fonte all’esterno. Le scarpe erano un lusso e quelle per le grandi occasioni, si usavano poco per non usurarne la suola.
Le piante che ci circondavano ovunque, erano fonte continua di sostentamento: la merenda nella pausa in classe, si faceva uscendo in giardino e raccogliendo qualche frutto maturo.
L’avocado, che in Europa ha un certo costo, da noi era talmente diffuso da venire utilizzato come cibo per i maiali; la guava¹ agrume dolce e succoso; il cainito² dall’aspetto di una mela rossa, ma con la polpa molto morbida e dolce.
Nel raccoglierli, poteva capitare che intravedessimo dei serpentelli verdi fra gli alberi, ma sin da piccoli imparavamo a non averne paura, pur evitandoli.
La mia famiglia viveva di agricoltura, avevamo molte terre e risaie, dove altri contadini venivano a lavorare ed ogni mattina liberavamo le galline chiuse nel pollaio.
Questo significava che spesso per merenda, potevo portarmi delle uova fresche, oppure la mamma preparava una frittata, riso o pesce, che avvolgeva in una foglia piccola di banano, usata come contenitore per il trasporto.
La foglia di banano, una palma grossa e lunga, fungeva anche da riparo quando pioveva; ho visto il primo ombrello soltanto a quindici anni, quando me lo regalò uno dei miei fratellastri che abitava a Manila.
Mangiare era un’abitudine spesso faticosa per me, perché il cibo dipendeva strettamente dalle stagioni e dall’andamento del raccolto; per mesi a tavola si trovava sempre la stessa pietanza: granoturco, la cassava o manioca³ una specie di patata lunga e grossa come un braccio ed il gabi⁴, un’altra specie di patata dalla buccia nera, le cui grandi foglie diventavano anch’esse un ombrello, se necessario.
La scuola rimaneva per me il momento sociale più importante, in cui incontravo altri bambini, vivendo praticamente come figlia unica; avevo come compagnia un’amichetta, che abitava nella casa più vicina alla mia a circa un paio di kilometri. Giocavamo a nascondino in due ed ho ricevuto sonore sculacciate da mio padre, quando richiamata per il pranzo a casa, fingevo di non sentire per continuare a divertirmi.
A differenza degli altri bambini, nella mia famiglia mancavano stormi di fratelli a cui badare, per cui non collaboravo particolarmente nelle faccende domestiche, a cui provvedeva totalmente mia madre.
La casa, che nella descrizione potrebbe sembrare modesta, per la zona rappresentava una gran comodità, avendo tre camere, una cucina ed un ingresso. Come tutte le abitazioni locali, era sollevata da terra ed il pollaio si trovava nella zona sottostante.
Nonostante ci fosse spazio a sufficienza, sino a dieci anni ho dormito con i genitori, poi mi sono spostata in un’altra stanza, dove mio padre aveva costruito un katre(un letto di legno) tutto per me.
Sopra si stendeva un banig⁵ o più spesso della paglia e poi le lenzuola con il cuscino. Al mattino si arrotolava tutto e si conservava, per fare spazio.
Quando alla radio si diffondeva il segnale d’allarme per l’arrivo di un tifone,
la famiglia si trasferiva in una capanna bassissima, costruita per l’occasione, in cui si poteva entrare solo distesi e si trasportavano tutte le provviste disponibili. Poteva durare giorni ed una volta, quando uscimmo dal nostro riparo alla fine della tempesta, la cucina era quasi tutta distrutta ed il tetto sfondato.
In quelle occasioni, mi terrorizzavano gli altissimi alberi di tuba⁶, che si piegavano al vento e ci circondavano.
Ogni