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A quell'ora la Tele non c'era
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A quell'ora la Tele non c'era
E-book200 pagine2 ore

A quell'ora la Tele non c'era

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Info su questo ebook

Alessio Corsi ci accompagna in un viaggio verso luoghi remoti e magici e ci riporta a un sapore antico, che torniamo ad assaporare socchiudendo gli occhi, immersi in un dolce brivido e in una calda carezza.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2014
ISBN9788867930746
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    Anteprima del libro

    A quell'ora la Tele non c'era - Alessio Corsi

    © Edizioni SENSOINVERSO

    Collana TesoriSepolti

    www.edizionisensoinverso.it

    ufficiostampa@edizionisensoinverso.it

    Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)

    ISBN 9788867930746

    1° edizione cartacea – Luglio 2010

    © 2010 - Copyright | Tutti i diritti riservati

    Sensoinverso - P.I. 02360700393

    Adattamento grafico e impaginazione | shangrya@libero.it

    Disegno di copertina | Davide Laugelli

    Creazione e impaginazione eBook | http://creoebook.blogspot.com

    Alessio Corsi

    A QUELL'ORA

    LA TELE NON C'ERA

    Alla mia gente, alle voci che mi hanno nutrito

    Capitolo 1

    C’era una volta un bambino… e quel bambino ero io.

    La guerra era appena finita e qua e là, sulle facce delle case e nello sguardo della gente, se ne riconoscevano ancora le unghiate.

    Erano tempi proprio differenti da questi d’oggi!

    Vero è che, a quell’ora, si indovinava di già, per aria, un odorino pungente di futuro, ma il mondo camminava lento. Occorreva più tempo per fare le cose, e ce ne voleva ancora di più per consumarle.

    Io ero uno fortunato, e stavo con i miei genitori, una sorellina e un gatto, in una vecchia casa con stanze grandi, un po’ fredde, e una terrazza sterminata, tutta di mattoni rossi; facevo il bagno dentro una zangola per il bucato e cercavo di aiutare la mia mamma quando andava a riempire il secchio dell’acqua a una pompa sferragliante in fondo alle scale.

    A quell’ora, la mia giornata era un susseguirsi continuo d’emozioni forti. Il mondo era un posto di meraviglie che si manifestavano nei modi più improvvisi e imprevisti, un posto dove tutto era vero e tutto possibile. Misteri sottili e segreti portenti bisbigliavano messaggi, occhieggiavano dalle cose, popolavano ogni angolo del mio tempo. Il mondo sembrava governato da animi arcani che lasciavano qua e là il profumo della loro impronta.

    Una mattina, avrò avuto quattro o cinque anni, mia madre venne a svegliarmi, mi prese in braccio e mi portò in quello che noi chiamavamo il tinello.

    Stamattina c’è una sorpresa… c’è un ospite mi disse.

    Quello fu per me un risveglio strano. L’esser portato ancora in pigiama a scoprire la sorpresa che mi aspettava mi rimandava un poco alla mattina di Natale, o della Befana; ma quelle feste erano lontane, dato che si era in primavera… e allora ?

    Allora, l’arcano mi si svelò immediatamente, prima ancora di vederlo.

    Più che vedere, infatti, udii. Si trattava d’una voce d’uomo, probabilmente il lettore di uno dei notiziari del mattino; ma non era la tv, che a quell’età, probabilmente, non avevo sentito ancora nominare, quindi…

    "L’aradio…!" esclamai.

    Tutto ciò per dire che, a quei tempi, non solo non c’era ancora la televisione, ma poteva capitare, come nel nostro caso, che in casa non ci fosse neanche un apparecchio radio.

    Accolsi tuttavia quella novità con moderato entusiasmo, dato che non si trattava di un balocco che avrei potuto maneggiare a piacimento. Difatti l’apparecchio, un modello in bachelite color avorio di dimensioni piuttosto contenute per l’epoca, era già sistemato sopra una mensola, in alto sulla parete, ben oltre la portata delle mie mani.

    Fino a quel giorno, dunque, non ne avevo sentito la mancanza. A casa dei nonni, la grossa radio d’anteguerra che troneggiava severa in cucina veniva accesa soltanto verso l’ora di cena, quando il cinguettio di un uccellino annunciava il giornale radio. Era un bla-bla di sottofondo, che solo a tratti catturava l’attenzione.

    Zitti… zitti… sent’icché dice ! e allora ogni discorso restava a mezzo, giusto il tempo d’ascoltare la notizia.

    Insomma, per un bambino di quei tempi la radio non era per nulla come sarebbe poi stata la televisione e, pur restando, quella di casa mia, accesa quasi ininterrottamente nel corso della giornata a diffondere soprattutto musica e canzonette, era comunque un aggeggio per grandi, a cui non davo troppa importanza e che non riempiva affatto le mie giornate.

    Ma riempire il tempo, in quell’epoca senza tv, non era certamente un problema.

    A scuola s’andava come oggi e, più o meno, ci si rimaneva per lo stesso tempo. Finché ero un piccinaccolo "dell’asilo", infatti, restavo a scuola per buona parte della giornata; quando poi iniziai ad andare al comune, cioè alla scuola elementare, tornavo a casa all’ora di pranzo, ma le lezioni per il giorno dopo avevano la precedenza su tutto, e si portavano via una bella fetta di pomeriggio.

    Dopodiché, se la stagione non era cattiva, potevo anche uscire a giocare per la strada.

    Andar fuori a divertirmi con gli altri ragazzi: era quella la faccenda nella quale riversare anima e corpo, il segno costante dei miei desideri. Inoltre, da quando in una sorprendente lezione di catechismo un frizzante curato aveva rivelato che il primo dovere di un fanciullo era quello di giocare, sulla mia attività preferita si impresse perfino un indelebile sigillo morale.

    La strada era dunque il luogo delle relazioni, dei grandi sodalizi e delle rivalità, il regno della realtà e dell’immaginazione; era un luogo d’iniziazione e conoscenza.

    Pericoli effettivi ce n’erano pochi. Abitavo infatti nel centro storico di un paese piccolo e molto tranquillo, dove il traffico d’auto era quasi inesistente. Per di più, il luogo di ritrovo con i compagni di allora era la stradina dove abitava la mia nonna materna, un vicolo non lontano da casa mia, sempre affollato di ragazzi, dove poteva transitare tutt’al più qualche baroccio. Fra tutti, io ero forse il più piccolo e vivevo con grande emozione le mie avventure, per chiassi, piazzette nascoste e depositi di ferraglia. Quelle stradine lastricate, quelle vecchie piazzole, potevano diventare, nel volgere rapido di un pomeriggio, campi di calcio e poi di battaglia, praterie e savane ed ancora piste che si perdevano nella foresta vergine; ci si potevano correre le Mille Miglia o le tappe del giro d’Italia; tutto vi poteva succedere e tutto ci si poteva fare.

    Quando non andavo a scuola, durante l’estate o nelle occasioni di festa, trascorrevo lunghe giornate a casa degli altri nonni, i genitori del babbo; e lì il discorso cambiava. Tra i molti bambini che abitavano da quelle parti ero infatti uno dei più grandi e tendevo a darmi arie da comandante. C’era un lungo schieramento d’orti, ordinatamente divisi da reti e muretti, con fichi, susini e altri alberi da frutta sui quali non era difficile arrampicarsi. C’erano bande di gatti randagi che azzardavano razzie nei pollai e, di tanto in tanto, faceva le sue apparizioni una grossa tartaruga, senza padrone né fissa dimora, che da tempi immemorabili se ne andava pellegrinando da quelle parti. Altrettanto vecchia, una piccola e rugosa signora passeggiava con la stessa serafica calma per quegli orti, raccoglieva tutto quel che le capitava sotto mano e si fermava a chiacchierare con noi, molto seria, con lunghi e strani discorsi da sibilla. Era una donnina piena di mistero; non sapevo bene chi fosse, ma dentro di me sospettavo fortemente che lei e la tartaruga fossero la stessa persona.

    L’aperta campagna non era lontana, come non era lontano l’argine dell’Arno. Da grandicello, ci sarei andato a pescare da solo e, qualche volta, d’estate, a fare il bagno, ma a quei tempi, quando non ero a giocare con i miei amici, ci andavo con mio nonno, che aveva l’abitudine di fare quattro passi prima di cena. Mi affascinavano i viottoli che costeggiavano, lungo le rive, le fosche macchie di rovi popolate di gatti mammoni e di chissà quali altre terrifiche creature che, al nostro passaggio, producevano fruscii secchi, improvvisi. E mi piaceva scendere giù nel greto, candido di pilleri rotondi e levigati, fino al limite dell’acqua, e ascoltare mio nonno discorrere con i pescatori, o con qualche pecoraio. A quell’ora, infatti, non era insolito vedere greggi di pecore abbeverarsi agli strosci o trascorrere la notte sotto i ponti dell’Arno. Naturalmente, in quelle occasioni, poteva anche succedere che m’annoiassi un pochino, perché mio nonno conosceva praticamente tutti e talvolta la gente lo fermava per chiacchiere lunghe e tediose. Ma non era sempre così, perché, fra tutti quelli che ci capitava d’incontrare, c’erano anche personaggi bizzarri e di grande fascino. C’era, ad esempio, un signore sempre elegantissimo, con una benda nera sull’occhio, tipo vecchio pirata, che mi avevano detto essere un poeta.

    Io non sapevo chi precisamente fosse o cosa facesse un poeta, ma ricordo che mi incuriosiva moltissimo quel suo modo di fare, specie quando, nel mezzo d’una discussione, come a sottolineare le proprie affermazioni e dare più verità a ciò che sosteneva, cominciava a declamare versi con grande impegno, e con un birignao che avrebbe fatto invidia al più consumato e accademico degli attori drammatici. A me la cosa pareva oltremodo buffa e mi divertiva sentirlo parlare a quel modo, con le parole in rima; ma il fatto più strano era che mio nonno, invece di mettersi a ridere, l’ascoltava con attenzione, educatamente, fino all’ultimo verso, dopodiché la discussione riprendeva nei toni consueti.

    Un altro tipo interessante e fuor dal comune, anch’egli non più giovane, lo incontravamo immancabilmente sul ponte dell’Arno. Se ne stava lì, appoggiato al parapetto a guardare i pescatori o, d’estate, quelli che nuotavano nell’acqua verde e profonda intorno ai piloni, e raccontava leggende di pesca, di quando, da giovane, andava con la rete in quello stesso tratto di fiume, oppure catturava le anguille, immergendosi sott’acqua e tirandole fuori con le mani dalle loro tane nel massicciato, dopo averle convinte ad azzannargli il pollice.

    E poi, ancora, un vecchio e ormai malinconico ospite della casa di riposo, ma che in gioventù era stato contorsionista e aveva girato il mondo al seguito di diversi circhi. Era conosciuto come l’omo-serpente e, in vita sua, ne aveva viste di cose strane e fenomenali… e ne raccontava di tutti i colori. Mio nonno diceva che erano quasi tutte balle, ma a me piaceva lo stesso starlo ad ascoltare, quel signore dall’aria un po’ triste, forse perché raccontava le sue storie con tanto trasporto e con tale dovizia di particolari che qualcosa di vero doveva esserci per forza e, se anche una minima parte lo fosse stata, quella persona, all’apparenza così fragile, avrebbe avuto comunque una vita straordinariamente avventurosa.

    Altre volte, quando non ero fuori a giocare con gli amici, mi portavano a far visita ai parenti.

    Ricordo una famiglia, forse di lontani cugini, che, a quel tempo, viveva in una casetta al limite delle coltivazioni. Avevano un cane dalla voce potente, fantasmagorico nel suo lungo pelo bianco, che appena ci fiutava, da brava sentinella, con gran rumore di catena si catapultava fuori dalla cuccia e iniziava un’incredibile canizza. Io lo guardavo con ammirazione e cercavo di aizzarlo ancora di più, restandomene naturalmente a distanza di sicurezza. Aveva un nome assai appropriato: Terrore, e forse mi piaceva anche un po’ per questo.

    Circondata da fazzoletti d’orto, la casa era un dado che i proprietari non s’erano mai decisi a intonacare. Il piano terra era un labirinto di strane rimesse, ripostigli e minuscoli laboratori: vere e proprie miniere di attrezzi e ammennicoli misteriosi, il posto ideale per curiosare e buttare all’aria. Il bello è che i cugini del nonno me lo permettevano volentieri, come mi permettevano sempre d’andare a vedere i loro conigli e divertirmici un poco. L’odore selvatico dello sgabuzzino dov’erano rinchiusi mi stuzzicava piacevolmente le narici, e mi divertiva il loro tambureggiante fuggi-fuggi al mio apparire. A volte li tormentavo un po’ troppo, allora mio nonno mi rimproverava ordinandomi di piantarla, ma…

    Lascialo stare, poerino, o che male farà? dicevano gli indulgenti padroni di casa. Fatto sta che, alla fine, per quelle bestiole divenni un incubo e, appena mi vedevano apparire sulla soglia del loro stalletto, si precipitavano tutte insieme in un angolino buio, e vi si rannicchiavano spaurite e tremanti.

    Quando non ero a giocare con i miei amici, andavo volentieri a far visita anche a una prozia, la zia Gemma, già piuttosto anziana, ma che aveva ancora in casa i vecchissimi suoceri. La suocera, che per me era la zia Celestina, era molto malata e raramente mi permettevano di farle visita nella sua camera. Se ne stava sempre a letto, con pile di guanciali a sostenerle la schiena e una mantellina nera sulle spalle. Ricordo la folla di santini sul ripiano del cassettone, i vecchi ritratti fotografici un po’ tristi e ingialliti ed una statua della Madonna sotto una grande campana di vetro. Il comodino, accanto al letto, era ingombro di medicinali, boccette e boccettine, e c’era un campanellino d’argento che mi divertivo a far squillare.

    Il suocero, consorte altrettanto anziano ma più vispo, della zia Celestina, era il mio grande amico ed avversario. Non ricordo quale fosse il suo nome di battesimo, anche perché, com’è talvolta in uso dalle nostre parti, tutti, anche i familiari più stretti, lo chiamavano per cognome.

    I’ Picchi era dunque un antico cacciatore, con candidi baffi ottocenteschi dalle punte all’insù. Era sempre assai contento di vedermi e trascorrevo con lui la maggior parte del tempo della visita. Per un po’ m’incantavo ad ascoltare le memorie delle sue mirabolanti gesta venatorie, poi andavo in cucina, mi facevo prestare due mestoli… ed erano sanguinosi duelli. Era un avversario abile, pericoloso e, soprattutto, sempre deciso a prevalere, o comunque a vender cara la pelle. Sebbene costretto sulla sua poltrona di vimini, si difendeva strenuamente con terribili fendenti e affondi improvvisi. Ci fronteggiavamo a lungo, duellando a quel modo, finché qualche botta, o qualche puntone, come diceva lui, poneva fine alla battaglia. Cominciavamo allora a misurarci a parole, a suon di paragoni e paradossi.

    Ma io vo a pigliare la sciabola vera!

    Ah sì ? Allora piglio i’ fucile e appena ti ’edo…

    Ma io piglio lo scudo… così mi riparo… e così via, fino alle bombe, agli aerei e alle armi più improbabili e terrificanti.

    E poi c’era quella casa, disseminata di trofei di caccia, animali impagliati, ricordi e cimeli esotici riportati da Sauro, il figlio degli zii, che aveva fatto la guerra d’Africa. C’erano sedili d’antilope, armi e oggetti d’artigianato; e poi grandi fotografie alle pareti, tutte naturalmente in bianco e nero, dove Sauro, col casco coloniale e il fedele attendente di colore, se ne stava in posa, impettito e orgoglioso delle prede abbattute, al termine di straordinarie giornate di caccia. In una delle foto si vedeva il baldo ufficiale che, nel letto sassoso di un torrente, teneva saldamente tra le mani un giovane coccodrillo, mostrandolo all’obiettivo. L’animale, di circa un metro di lunghezza, faceva del suo meglio per contribuire alla spettacolarità dell’immagine: se ne stava quindi a fauci spalancate, mostrando una

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