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Una professione? No, una passione! Bimbi, colleghi e tanto altro ancora...
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E-book169 pagine2 ore

Una professione? No, una passione! Bimbi, colleghi e tanto altro ancora...

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Una professione? No, una passione!

Bimbi, colleghi e tanto altro ancora…

Barbara Gisser è stata maestra di sostegno per molti anni, dapprima in Austria e poi in Italia.

L'autrice, ripercorrendo la sua vita da alunna prima e la sua carriera da insegnante di sostegno poi, ci racconta di come, in quasi mezzo secolo, il sistema scolastico ed il rapporto con l'handicap siano cambiati ed in parte evoluti; nel farlo, non manca di rivivere la propria esperienza personale a cavallo di due culture e sistemi scolastici differenti, quello austriaco e quello italiano. Un'occasione questa per ripercorrere una vita anche professionale, per riuscire meglio a comprendere l'entità di questi cambiamenti e, soprattutto, di come il rapporto con l'handicap sia, di per sé, un argomento in continuo divenire e capace di coinvolgere l'intera socialità, non solo quella del gruppo-classe.

Durante la sua vita professionale, infatti, si è occupata con passione di molti casi di handicap, più e meno gravi. In questo libro racconta la sua storia lavorativa e umana e la sua dedizione, costante e tenace, nei confronti dei bambini con bisogni speciali.

Il racconto biografico ricco di ricordi, aneddoti e riflessioni proprie, pieno di entusiasmo e positività, è stato integrato anche col contributo di alcuni ex colleghi dell'autrice, insegnanti ed assistenti/educatori.

Il libro non vuol essere propriamente un'opera storica, né un manuale pedagogico e tantomeno un racconto puramente biografico, ma vuole piuttosto descrivere e porre l'accento sulla grande passione per una professione, non sempre facile, ma senza dubbio appagante, ricca di sfumature e tante, tante soddisfazioni. Proprio quelle che solo un lavoro come quello con i bimbi, speciali e non, è capace di regalare.

Queste pagine altro non fanno che raccogliere una testimonianza: il suo delicato ma deciso invito a non aver paura del diverso e ad agire in prima persona per conoscere un mondo apparentemente inconsueto, spesso in salita, ricco di sfide e di difficoltà, ma pieno di soddisfazioni e amore incondizionato.

Ed è forse solo accettando questo invito che sarà possibile una reale e concreta inclusione, forse uno fra i pochi mezzi che abbiamo per costruire una nuova consapevolezza ed un'umanità migliore.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2021
ISBN9791220352741
Una professione? No, una passione! Bimbi, colleghi e tanto altro ancora...

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    Anteprima del libro

    Una professione? No, una passione! Bimbi, colleghi e tanto altro ancora... - Barbara Gisser

    PARTE I – IN AUSTRIA

    1. I miei anni di studi: dalla scuola elementare all’Accademia pedagogica

    Le elementari lunghe

    Correva il lontano 1959 quando una bimba piccola e molto vivace faceva il suo ingresso a scuola.

    Non era mai stata lontana da casa prima di allora, anche perché nel suo paese non c’era la scuola materna, e questa novità un po’ la intimidiva… I primi due giorni di scuola si mise a piangere e venne mandata a casa. Considerando che questa tattica sembrava funzionare, continuò a piangere ogni mattina anche nei giorni a seguire, ma fu solo un’illusione, perché non si fece attendere molto il primo «NO!» secco della maestra, seguito dall’incalzante «D'ora in poi si rimane in classe!».

    E immaginatevi queste parole pronunciate da una signora che tanto ricordava la Signorina Rottenmeier in Heidi: alta, schiena dritta e posa sempre severa, che un sorriso neanche a tirarglielo fuori con le pinze?!

    «Sniff, sniff». Due lacrimucce ancora e poi mi dovetti arrendere.

    Ebbene sì: quella bimba, un po’ vivace e con la testa fra le nuvole, non abituata a stare rinchiusa nella classe, ero proprio io.

    Eppure, se al principio ero non poco intimorita da questo nuovo mondo, allo stesso tempo ne ero anche molto incuriosita, soprattutto per la possibilità di incontrare tutti quei nuovi compagni di classe. E così finivo per chiacchierare allegramente prima con uno e poi con l'altro, noncurante dei continui richiami dell’insegnante.

    E si parlottava senza sosta, fino a quando la maestra, avvicinandosi al mio posto, tutto d'un tratto mi fece mettere le mani sul banco e prima che potessi reagire in un qualche modo, fece scendere come un lampo il suo sottile bastone pieghevole sulle mie dita.

    «Ahia! Che dolore!!!» era la prima punizione corporale vera e propria della mia vita!

    Pensare che a casa non avevo mai ricevuto neanche uno schiaffo?! I miei genitori, infatti, erano contrari a punizioni di questo tipo. Immaginatevi lo choc e la mia incredulità. Me lo ricordo ancora come se fosse successo ieri: cose del genere non si dimenticano.

    Eppure è proprio da quel giorno che in me si fece strada l’idea di diventare un’insegnante. Sia ben chiaro: «…di sicuro, non come quella lì!», pensai, ma una maestra di quelle buone, gentili e ben volute dai suoi alunni. In altre parole, se avessi dovuto prendere a modello qualcuno, sarebbe stato il suo esatto contrario! E glielo dissi anche, a quella mia maestra, scatenando in lei un altro temporale, con tanto di lampi e fulmini.

    Se i primi quattro anni di scuola elementare furono un po’ turbolenti dal punto di vista degli insegnanti e delle modalità di insegnamento, fortunatamente in quelli successivi scoprii anche che non tutti gli insegnanti erano dei gendarmi o delle arpie.

    Infatti, dalla quinta alla ottava classe della scuola elementare – all’epoca, gli alunni impossibilitati a seguire una scuola media vera e propria, potevano frequentare un percorso a ciclo unico di otto anni di elementari –, ci seguì anche un maestro: colto e paziente, faceva ottimamente il suo lavoro e riusciva a farci appassionare a quasi tutte le sue materie. Nonostante dovesse domare una pluriclasse, era sempre calmo e non si arrabbiava facilmente, anzi, era anche molto aperto agli scherzi.

    Quando io e le mie due amiche del cuore – soprannominate non a caso dai compagni le tre selvagge –, combinavamo ad esempio, qualche marachella, si limitava a riprenderci, con voce tranquilla ma ferma, esclamando: «Siete peggio dei maschi…».

    E così finivamo per ridacchiarcela tutti e quattro: noi e il maestro. E noi tre ci calmavamo quasi all’istante.

    Se penso al nostro comportamento, immagino che al giorno d’oggi, forse, ci avrebbero quasi sicuramente etichettate come iperattive, disadattate… chissà! Sta di fatto che, nonostante tutto, veramente arrabbiato non l'ho mai visto: sapeva ristabilire l'ordine semplicemente con l'aiuto di qualche parola e alcune spiegazioni… ma non veniva mai alle mani. Era un grande, e non solo per lo stile: ci trasmetteva tantissime nozioni importanti per lo studio, per migliorare ad esprimerci… sapeva appassionarci! Ed è anche grazie a lui che alle superiori, poi, nessuno di noi incontrò grosse difficoltà.

    Come vi accennavo, a quei tempi molti alunni non avevano la possibilità di frequentare le scuole medie, e così, in accordo col sistema scolastico austriaco dell'epoca, esisteva la possibilità di frequentare un ciclo unico di otto anni di scuola elementare: quattro anni di elementari, seguiti da altrettanti equivalenti alle medie. Nei primi anni gli studi erano quelli classici del ciclo delle primarie, mentre negli ultimi due anni venivano inserite materie nuove come l’inglese e il potenziamento di altre, come la matematica. In altre parole, queste scuole elementari lunghe riuscivano a fornire tutto quello che sarebbe potuto servire per riuscire a frequentare successivamente le superiori con profitto.

    In generale, sono stati otto anni bellissimi, divertenti e ricchi di tanti bei ricordi, nonostante alcuni insegnanti fossero cattivi e un po' crudeli. Mi è anche capitato di prendere degli schiaffi, semplicemente perché in musica non azzeccavo bene tutte le note e a volte stonavo un po’, il tutto accompagnato da un «Non è possibile che tu non sappia cantare!? Visto anche che i tuoi sono bravissimi e tuo zio è un compositore…».

    Quello che più mi dispiace è che da quel momento non ho avuto più il coraggio e il piacere di cantare ad alta voce come quando ero bambina. Ma se è vero che ciò che non uccide fortifica, tutto questo ha saputo insegnarmi cosa non avrei mai voluto fare ed essere nella vita.

    I ricordi di un bimbo vivace, diventato poi maestro

    Mi capitava di ridere senza motivo in classe e la maestra, un signorina d’altri tempi, s’indispettiva tanto, portandomi anche in castigo nelle altre classi. Accadde che un giorno mi sgridò così tanto che poi mi disse di voler parlare con un adulto di casa.

    Disse proprio così e io le portai il nonno, che venne col cappello e se lo mise in grembo prima di porsi all’ascolto di ciò che la maestra aveva da dire.

    Lei mi accusò di disturbare con le mie risate anche gli altri alunni, s’indignò, pretese scuse e pentimento.

    Lui annuiva con la testa e poi le fece notare che il ciliegio del giardino della scuola era in fiore.

    «E cosa c’entra?», chiese la signorina.

    «Lei non trova strano che nonostante questo aprile piuttosto freddo il ciliegio sia fiorito lo stesso?», rispose il nonno continuando a guardare l’albero.

    Lei rispose: «Affatto. È nella natura dell’albero fiorire in primavera e comunque non è così freddo da impedirlo. Siamo nella norma direi», concluse con quella voce stridula che ancora ricordo.

    «Bene» disse nonno alzandosi e prendendomi per mano. «Anche il sorriso di mio nipote fiorisce nonostante il freddo che avverto qui dentro. Com’è giusto che faccia un’anima giovane che impara ad essere felice. Quindi direi che siamo nella norma. I miei ossequi, signorina maestra».

    Camminammo in silenzio fino a casa, poi sulla porta nonno mi fece promettere di non addormentarmi mai senza aver sorriso almeno dieci volte al giorno.

    E io glielo promisi.

    Correggere senza puntare il dito: il valore delle parole

    C'è un piccolo appunto a cui tengo particolarmente e riguarda la correzione verbale errata nei confronti degli alunni e, più in generale, dei bambini. Sembra una cosa da poco, ma in realtà il modo con cui ci rivolgiamo a loro quando li rimproveriamo o li sgridiamo può vanificare anche in larga parte il nostro lavoro di educatori e insegnanti, creando a volte anche dei danni non indifferenti.

    A volte capita di riprendere o rimproverare un alunno per una cosa che abbiamo richiesto loro di fare e non hanno poi fatto o eseguito in maniera corretta, si tratti di un errore totale o parziale poco importa.

    Senza pensarci troppo sopra, spesso possono sfuggirci frasi come «Ma cosa hai combinato! Guarda quanti errori hai fatto/che errore che hai fatto! Non capisci?», ecc.

    Così facendo, però, non stiamo giudicando gli errori in sé o lo svolgimento errato dell'esercizio. Piuttosto stiamo puntando il dito, rimproverando semplicemente la persona per una sua lacuna o errore: in un certo senso, la stiamo mettendo in imbarazzo, rischiando di farla sentire inadeguata o impreparata o, nel peggiore dei casi, come una nullità.

    In particolar modo, se nel corso del tempo battiamo sempre sullo stesso chiodo con la stessa modalità di rimprovero, per l'alunno può trasformarsi in un'esperienza traumatica, che può protrarsi per periodi anche lunghi, o a volte accompagnarlo per tutta la vita. Me ne sono resa conto in prima persona, anche attraverso la mia personale esperienza: come vi ho raccontato, io ho sempre adorato la musica, ma posso assicurarvi che il mio senso di inadeguatezza in materia ha origini proprio dal periodo delle elementari.

    A volte dovremmo soffermarci un po' di più sul reale significato delle parole che usiamo e di come esse possano essere percepite dai nostri interlocutori, specie quando si tratta di bimbi. È giusto riprenderli in caso facciano degli errori, ma sarebbe forse più giusto farlo puntando sull'errore e non sulla persona: «Vedi, questo esercizio è sbagliato. Ci sono degli errori: proviamo a farlo in un modo diverso».

    Gli anni del liceo

    Dopo le scuole elementari fui ammessa al liceo scientifico - musicale - pedagogico, che all'epoca comprendeva quattro anni di corsi e un esame finale di maturità.

    Anni un po’ faticosi, perché, mancandomi molte delle nozioni più specifiche e non potendomi permettere di ripetere un anno, dovetti studiare molto.

    Come quella volta che fui rimandata a settembre in Latino; premetto, che non è mai stato il mio forte come materia e tantomeno mi piaceva particolarmente, ma feci davvero di tutto per recuperare, conquistai un buon voto e riuscì a finire gli studi in tempo. Una sfida da cui uscì più che vittoriosa. Ma non fu neanche l’unica delle prove che dovetti affrontare…

    Nonostante la mia conclamata negazione per la musica, scoprii ben presto che, oltre al canto, avremmo dovuto studiare anche uno strumento musicale e la scelta poteva ricadere tra pianoforte, violino o chitarra. Scelsi la chitarra e fui, in un certo senso, anche fortunata: era lo strumento che più mi ispirava e la professoressa era gentile e comprensiva. Nell'ora di musica ero sempre un po' timida, visto anche la mia storia pregressa con la materia, ma devo dire che mi è andata sempre bene e a tratti posso dire di essermi anche divertita.

    La cosa più bella di quegli anni, però, è stata la capacità della mia classe di rimanere uniti, tanto che anche in seguito e nel corso degli anni siamo riusciti a non perderci mai troppo di vista. Pensate che con due delle mie compagne di allora ci troviamo regolarmente ancora oggi, pur vivendo lontane. Eravamo un gruppo molto numeroso – in prima superiore più di una quarantina in un'unica classe – e andavamo d’accordo: eravamo in tanti, ma uniti, e ci davamo una mano a vicenda quando

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