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Ultraviolence: inizia il gioco
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E-book440 pagine6 ore

Ultraviolence: inizia il gioco

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Info su questo ebook

Anno 2236. Dopo guerre e cataclismi devastanti, il mondo ha cambiato interamente assetto. Una parte della popolazione sopravvissuta è stata oggetto di esperimenti genetici al fine di creare soldati dalle capacità superiori. Sulla loro pelle sono comparsi dei marchi molto simili ai semi delle carte da poker, gioco al quale i potenti si ispirano per creare una nuova gerarchia. Cuori, Quadri, Fiori, Picche: le nuove macchine da guerra dall’aspetto umano affiancano un esercito di uomini e robot. Non hanno più una vera identità, a loro non è concesso nemmeno usare il proprio nome, possono solo eseguire gli ordini, controllati dai microchip impiantati nel corpo. Il Velo dimensionale è stato squarciato, facendo fuoriuscire campi energetici e altri orrori. Ma anche dove regna la distruzione, esistono emozioni e sentimenti che nessuna tecnologia potrà mai spegnere: l’amore incondizionato per una sorella, la lealtà verso un amico, l’attrazione profonda che lega due corpi. Come accade nel Mazzo Minore di Walter Scott, Re di Quadri, che si è posto l’obiettivo di riscattare l’umanità assieme ai suoi compagni: il Jolly Nero, un coraggioso e protettivo colosso tatuato, la Regina di Cuori, l’irresistibile Alice, e la Jack di Fiori, la valorosa Valery.
Nella speranza di un riscatto dalle colpe dei nostri avi, inizia il gioco.
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2021
ISBN9791220863001
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    Anteprima del libro

    Ultraviolence - Valentina Serena Barreca

    Prologo

    Anno Domini 2264.

    Nel XXI secolo l’annuncio di una nuova guerra mondiale sconvolse il mondo intero. Tutte le nazioni trasmettevano notizie strazianti sullo stato d’allerta e non ci volle molto perché si facesse pressante la minaccia di un nuovo ordigno nucleare. La chiamata alle armi non risparmiò nessuno, nemmeno donne, anziani e giovani poco più che bambini. Le conseguenze della guerra furono disastrose: il tasso d'inquinamento si alzò oltre ogni previsione, alcune isole sprofondarono, le radiazioni mutarono ogni forma di vita che incontrarono. Per i paesi più poveri, spesso teatro dei conflitti, la situazione fu catastrofica.

    Nessuno immaginava che, al termine del conflitto, proprio mentre si cercava di ricostruire un brandello di civiltà, ci sarebbe stata un’eruzione dalla potenza ultra-pliniana sul versante oceanico del Pacifico. Interi Stati furono spazzati via, l’acqua inghiottì parte dei continenti. Nacque una catena montuosa dalla rottura delle placche, ancora oggi impenetrabile. La chiamano l’Altura degli Dei. La quantità di polveri liberate rimase sospesa per così tanto tempo nel cielo da portare a una nuova era glaciale. Ci furono inondazioni, tsunami, terremoti e l'aspetto del mondo mutò insieme al clima: non si sa più niente dell'Oceania da almeno cento anni e sono state ridisegnate tutte le mappe di una Terra devastata dai cataclismi, oltre che frammentata sul piano sociopolitico. Le città minori si ridussero a villaggi, le grandi città si spopolarono. Dove un tempo si pregava il Dio cristiano, si propagò il culto messicano della morte santificata.

    Tuttavia, la razza umana e la tecnologia, seppur a stento e attraverso lotte continue, sopravvissero. Le case farmaceutiche, sotto stretto controllo del Governo dei Cinque, ripresero in mano il mai dimenticato progetto nazista del Super Uomo. All’inizio ci furono decine di anni di esperimenti per integrare parti meccaniche nei corpi umani. Il progetto però non ottenne subito i risultati sperati: i primi prototipi di robot non erano autonomi, erano in grado di identificare solo forme elementari e spesso le componenti meccaniche non erano compatibili col resto del corpo. Così, gli esperimenti continuarono tra silenzi e sotterfugi.

    Tutti i prigionieri di guerra furono deportati per questa buona causa. Dopo i primi insuccessi, arrivarono addirittura a recuperare i cadaveri dai campi di battaglia, per evitare di sprecare altre vite, poiché anche il tasso di nascita era calato in modo drastico. Ogni nascita significava vita, ma la morte passeggiava silenziosa a chiudere quelle bocche, con fame e malattia al suo fianco. Anche se l'apocalisse era giunta, dai piani alti ancora non se ne capacitavano.

    Solo una cinquantina di anni fa i governanti cominciarono a ottenere risultati più soddisfacenti con gli esperimenti, ma il progetto fu messo da parte in virtù di una nuova utopia. I robot erano pezzi di carne morta e ingranaggi, animati da stimoli elettrici e forse qualche istinto primitivo: erano un surrogato di Uomo, ma non erano in grado di sostituirlo. Non bastavano più. I nostri governanti volevano trovare qualcosa di più potente, trasformare l'essere umano stesso in una macchina da guerra superiore, senza protesi artificiali, partendo dalla sua genetica.

    Decine e poi centinaia di persone, quindi, furono deportate come cavie da laboratorio, le reclute furono esposte a una serie di veleni e droghe sperimentali per amplificare le loro capacità extrasensoriali. L'unico metodo che cominciò a dare degli effetti tangibili, dopo una serie di insuccessi devastanti, fu l'esposizione all'Huranos 826.

    L’assetto politico del mondo si è trasformato più volte, fino ad assestarsi sotto l’autorità indiscussa degli Onorevoli Cinque. Secondo le fonti storiche il potere passò sotto il controllo dei maggiori esponenti politici delle nazioni rimaste in piedi, ai quali si aggiunsero quelli del comitato scientifico e i corpi militari più eminenti, pronti a servire il dio potere. Le notizie riportano in modo confuso che pian piano arrivarono a suddividersi in diverse fazioni, facenti capo a due rappresentanti politici che si definirono regnanti. Accanto a loro, si trovavano due militari e due scienziati, i migliori nel loro campo. Dovevano agire in coppia nel rispetto dell’antico criterio di collegialità. I territori da amministrare furono spartiti di conseguenza. L’improvvisa scomparsa di uno dei regnanti, con conseguente inglobamento del territorio, portò alla struttura di cinque onorevoli capi. Tuttavia, gli Onorevoli Cinque si trovarono ben presto in difficoltà, dovendo gestire troppo potere da soli e dovendosi rapportare anche con la popolazione stremata. Così nacque il Triumvirato, l’organo di potere diretto sul popolo conferito a piene mani, che portava avanti i nuovi esperimenti mentre il mondo in superficie si leccava le ferite. Era un corpo autonomo nelle sue scelte e solo i Cinque gli erano superiori: nessuna legge poteva essere attuata senza la loro approvazione, né potevano essere prese decisioni diplomatiche drastiche.

    Nessuno conosce le loro vere identità.

    Né dei Cinque, né dei Triumviri.

    In tutti i superstiti all'Huranos 826 erano state riscontrate delle particolari capacità extrasensoriali che i Triumviri cercarono di amplificare al massimo. Dopo alcuni piccoli successi, decisero di dare il via libera alla fase successiva dell’esperimento: squarciare il Velo dimensionale, ovvero non limitarsi solo a cercare un modo per viaggiare in altre dimensioni, ma aprire veri e propri varchi tra il nostro mondo e quelli paralleli. Lo scopo era assorbire maggiore energia e usare le menti sensitive delle cavie per dominare il mondo conosciuto, viaggiare in altre dimensioni e oltrepassare i limiti del tempo e della scienza. Progetti grandiosi, ma non se ne potevano immaginarne le conseguenze: il Velo infatti non ha un aspetto tangibile, finché non lo si attraversa. Può assomigliare a un’enorme crepa brulicante di liquido nero e luminescente, oppure può dare l’impressione di guardare attraverso un paio di lenti sbagliate per la propria vista. Non è più necessario cercare un suo squarcio per attraversarlo ma, una volta che vi ci addentra, bisogna essere pronti a rischiare anche più della vita.

    I soggetti cavia furono i primi a varcarne la soglia o ad assorbirne l’energia. In breve tempo, acquisirono capacità di gran lunga superiori a quelle sperate, ma la soddisfazione del dipartimento durò quanto una pioggia estiva. Una serie di episodi inquietanti e fino ad allora inspiegabili invase quelle mura senza dare la possibilità di reagire.

    Le cavie adulte cominciarono a manifestare un’aggressività incontrollabile; nei bambini venivano registrate delle attività paranormali spaventose. Gli oggetti si spostavano da soli, scoppiavano o prendevano inspiegabilmente fuoco; si sentivano sussurri nel buio, comparivano strane impronte e alcuni giuravano di vedere dei riflessi: chi nello specchio, chi nell’acqua, chi lamentava di essere sorvegliato giorno e notte da un’ombra scura.

    Il Demone Custode.

    Pare che ogni cavia ne abbia uno, personale, che in rari casi lo accudisce come fosse il suo cucciolo, ma in prevalenza lo spinge a violenza inaudita.

    Chi gridò al demonio o all'apocalisse venne messo a tacere, dovevano evitare che l'isteria dilagasse. Volevano salvare il mondo, dicevano! Già, il mondo. In realtà era già finito da un pezzo, il mondo, e non volevano capacitarsene.

    I Demoni Custodi non erano però gli unici abitanti del mondo parallelo: altre creature mostruose tentavano di fuoriuscire, distruggendo e divorando come parassiti tutto ciò che trovavano sul loro cammino.

    Il livello di radioattività inoltre continuava a salire e per arginare i danni, i Triumviri indissero dei confini ben monitorati da uomini e macchinari, i quali riuscirono a malapena a non far allargare ulteriormente gli squarci nel Velo. Questi sono identificati come fosse o ZARR, Zone ad Alto Rischio di Radiazioni. Sono ancora oggi necessarie tute speciali per avvicinarsi e sono inavvicinabili anche le aree circostanti, monitorate per chilometri.

    Molte delle guardie di queste zone radioattive pian piano deperirono e morirono, non prima di aver manifestato piaghe da radiazioni, tumori, un’aggressività animalesca e incontrollata. La loro malattia, qualunque essa fosse, era contagiosa, l’incubazione era lenta e i sintomi non si manifestavano se non troppo tardi anche solo per azzardare una cura.

    L’unica traccia che ricondusse questo male agli squarci nel Velo fu la presenza di una molecola, in grado di moltiplicarsi, mutare forma e cambiare il DNA: l’Huranos 826.

    E così arrivò l'epidemia. Ci misero anni a contenerla, non esistendo una cura effettiva.

    I sopravvissuti e i figli di chiunque fosse stato esposto alla molecola di Huranos 826, anche indirettamente, si trovavano ad avere delle macchie irregolari sulla pelle. Le cavie diventarono più potenti e difficili da gestire. Eravamo tutti figli di un dio marchiatore, che imprimeva la sua firma nella carne e nel sangue, di generazione in generazione. E questa è la croce che ancora oggi ci portiamo addosso.

    Lo spuntare del marchio sulla pelle provoca un dolore intenso quanto quello del parto, che si propaga per tutto il corpo. I simboli sono riconducibili alle carte da poker (tutti marchi rossi e neri, uniche tonalità percepibili oltre il Velo, nel mondo dei Demoni Custodi) e classificati in quattro semi distinti: Cuori, Quadri, Fiori e Picche. I Cuori tendono ad avere un’avvenenza fuori dal comune e una certa influenza sull’istinto emotivo e sulla manipolazione della realtà, i Quadri possiedono un Q.I. superiore alla norma e possono avere facoltà psichiche attive, per esempio la capacità di generare scosse elettriche con la sola forza del pensiero, ma anche percezioni extrasensoriali, come alcune forme di veggenza e telepatia. I Fiori sono velocissimi combattenti, talvolta diventano immuni alle sostanze tossiche; i Picche sono guerrieri dalla forza superiore e hanno una certa familiarità con il fuoco; ognuno di loro può creare un campo di forza per proteggersi, man mano che il loro potere aumenta possono anche guarire in fretta. Sintetizzando, si può dire che i soggetti Rossi presentano delle impressionanti capacità di controllo emotivo e mentale. I Neri invece sono delle ottime bestie belliche, perfetti macellai da prima linea. Tuttavia, ogni Carta possiede anche abilità individuali, talvolta difficili da catalogare. E poi ci sono i Jolly, di cui parlerò più avanti.

    A volte può capitare la nascita di un soggetto con due semi: per i soggetti Double Face non ci sono i chip di controllo, che di norma vengono impiantati a ogni Carta nata in laboratorio, ma, solo la soppressione immediata: il rischio che una Carta così difficile da controllare si ribelli non è da sottovalutare. Tutti gli altri crescono in severe basi di addestramento come Carte da gioco pronte all’uso. Tuttavia esistono ancora molti soggetti sfuggiti al controllo del Governo, spesso nascosti da genitori amorevoli o nati lontani dalle basi. Ne stanno ancora cercando tanti. Il Censimento è ancora un bel problema.

    Le Carte, corpi ormai adibiti a uso personale del Governo, vivono oggi in piccole organizzazioni gestite da una gerarchia piramidale legata al regolamento del poker. Giusto per essere più chiari: ai Re, Assi e talvolta Regine viene assegnato un vasto territorio da amministrare, ma solo il Re (anche detto King, secondo la dicitura internazionale) può governare in autonomia. Quello di Asso o Ace è un titolo molto difficile da raggiungere ma, una volta ottenuto, si accede a uno dei Mazzi Maggiori, raggiungendo un’autorità superiore a quella degli altri Re. Gli Assi possono anche ricoprire un doppio ruolo ad interim e rimanere a capo di un mazzo minore e di un territorio definito ducato, senza perdere il titolo di Re, finché non trovano un degno sostituto che potrà ereditarne il titolo, mantenendosi – se opportuno – in contatto con lui per guidarlo e istruirlo. I Jack o Fanti sono emissari del Re, si occupano di tenere l'ordine e spesso agiscono sul campo. In poche parole, svolgono il lavoro sporco. Le Regine (Queen) sono in linea di massima di sesso femminile, emissarie dirette del King, consigliere e ambasciatrici; hanno un potere di poco inferiore a quello del Re e possono farne le veci in sua assenza, ma non possono essere a capo di un mazzo autonomo.

    I civili sono ignari di tutto questo, credono di godersi un governo generoso e giusto; molti anni di storia sono stati cancellati e rimpiazzati con un passato ancora più remoto, gran parte della tecnologia avanzata è stata sepolta senza lasciarne tracce. Si mormora che continui a progredire sotto terra, in delle basi inaccessibili, ma io sto scrivendo con una comune macchina da scrivere. Esistono delle città sotterrane, ma si sostentano soprattutto con ingranaggi poco sofisticati e macchine a vapore. Alcune voci parlano anche di città della superficie lontane dalla piccola era glaciale, in cui la tecnologia è progredita in modo sano, e dove la popolazione prospera in pace. Io non ho mai visto nulla di tutto ciò, ma una parte di me continua a crederci.

    Ed è proprio per questa mia speranza che vorrei questa realtà per tutti, per quanto possibile.

    Se leggerete queste righe, non perdete le speranze. Finché respiriamo, finché possiamo amare e ragionare, finché combattiamo per dei valori, siamo ancora uomini. Possiamo progredire. Possiamo vivere. Il mio vecchio Re paragonava la speranza alle lucciole. Sono rare, fragili, ma resistono. Non so come fossero gli insetti nel passato, ma possono trasformarsi in vere guerriere per sopravvivere. Pericolose, luminose lucciole.

    Al momento esistono moltissimi Mazzi e le città si sono pian piano riorganizzate, ma siamo comunque in pochissime Carte a cercare di ricostruirci una vera dignità. Ho visto cose che ho dovuto rinchiudere nei meandri della mia mente e imprigionarle così in profondità da dimenticarle quasi io stesso. Sono stato nel sottosuolo, ho viaggiato in bilico sulla lama sottile del pericolo, avvicinandomi troppo alle zone radioattive, ho parlato con uomini morti e ho versato sangue per mantenere il silenzio. Ho fatto queste ricerche mettendo a repentaglio il mio alto grado di Re (marchio Quadri), la mia vita e l'esistenza del Mazzo che amministro.

    Abbiamo sulle nostre spalle il peso delle atrocità commesse dai nostri avi. Possiamo mentire a chiunque, ma non a noi stessi: non siamo più uomini. E ci riscatteremo.

    Walter Scott, Re di Quadri.

    1

    Walter si asciugò la fronte imperlata di sudore, nonostante avesse i brividi. Le nuvole rinchiudevano il cielo in una coltre sempre più nera, abbandonata anche dalle incerte sfumature del tramonto. Alla luce dei fari, con un po’ di attenzione, si potevano vedere ondeggiare i rami e le cime dei sempreverdi del parco circostante. L’oscurità aveva già inghiottito la macchia boschiva che si estendeva dai colli alla valle, echeggiante degli ululati sinistri del Grecale. Un lampo lontano si rifletté sui vetri dello studio, illuminando per un breve istante le forme intricate delle nubi.

    A quell’ora la sua finestra avrebbe dovuto essere una delle poche illuminate della villa. O fortezza. Sembrava più quello che una ricca abitazione, tanto era imponente e minacciosa, grazie anche all'alto muro col filo spinato che la circondava. Con la coda dell’occhio poteva vedere il suo riflesso sul vetro, un ragazzo albino che se ne stava seduto impettito alla sua scrivania, con aria assorta e stanca. Rilesse più volte la lettera che aveva appena scritto col nodo in gola di chi sa di doversi guardare sempre le spalle. A soli ventisei anni era Re di Quadri, aveva già visto troppo e sapeva che prima o poi avrebbe dovuto pagarne le conseguenze. Ma questo non l’aveva fatto desistere dallo scrivere il report che teneva tra le mani. Non voleva che la storia andasse perduta di nuovo. Era giusto che la conoscenza non si fermasse e, se qualcuno lo avesse ucciso, il suo lavoro non sarebbe comunque stato vano. Al più presto avrebbe dovuto designare un erede valido e doveva essere degno non solo del ruolo, ma anche di portare avanti la sua opera.

    Ci fu un boato nel cielo e il temporale si rovesciò con violenza sulla fortezza, come se volesse inondarla con la sua essenza. Nello studio, invece, faceva caldo.

    Posò il sigaro, uno di quelli buoni presi dal suo amico del mercato nero, sul posacenere di ossidiana. Pioveva a dirotto ed era quasi sicuro che da qualche parte, là fuori, una creatura dal grosso occhio romboidale in mezzo alla fronte lo stesse osservando dall’acqua.

    Dall'acqua, Walter. È sempre dall'acqua. Perché non vieni? Vieni qui... qui, sotto la pioggia... ho bisogno di un tuo abbraccio...

    Scacciò la voce dalla sua testa. In quei giorni si era addentrato troppe volte in labirinti pericolosi e il suo Guardiano, il mostro oltre il Velo che lo seguiva dallo spuntare del marchio, non perdeva occasione per ricordarglielo.

    Si sistemò una lunga ciocca di capelli bianchi dietro l’orecchio, leccandosi appena le labbra albine. Gli tremavano ancora le mani, l'ultima volta che aveva usato così tanto i suoi poteri aveva rischiato il collasso. Non poteva permettersi nemmeno un passo falso. Guardò la cartella poggiata nel doppiofondo del cassetto della scrivania e l’aprì, approfittandone per nasconderci la sua eredità scritta, insieme alle altre ricerche che custodiva.

    Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto... dove sei adesso?

    Si passò tra le dita un piccolissimo disco di cristallo. Era di pochi centimetri di diametro e di vecchia generazione, ma sapeva che il suo primo Re, Cormoran Blake, non aveva potuto fare di meglio la sera prima della sua scomparsa.

    Ti troverò e riuscirò a sistemare tutto questo schifo.

    Quando sentì bussare alla porta del suo studio, Walter non batté ciglio. Aveva già sentito i passi del suo amico avvicinarsi. Rimise tutto nel cassetto e lo richiuse con grazia, riprendendo il sigaro in bocca. «Entra, John. Cosa c’è?»

    John o semplicemente Jolly, come tutti chiamavano quel colosso di due metri, entrò abbassando un po' la testa. Si lamentava spesso che alcune porte erano un po’ troppo basse per lui e infatti, una volta avuto il comando, Walter si era affrettato a fare dei lavori di ristrutturazione nella base.

    Dal collo taurino spuntava un viso mascolino e tagliente, con un trasandato pizzetto castano scuro. A rendere ancora più intrigante il suo aspetto ci pensava la carnagione abbronzata tipica degli ispanici, che evidenziava gli occhi verdi. Era pure troppo agile per la sua stazza. Lo sguardo gli cadde sul polso destro del Jolly. «Nuovo tatuaggio?»

    Il colosso girò il braccio e annuì. «Sì, fresco di questa mattina. A proposito, mi servono due aghi nuovi e altro inchiostro.»

    «Va bene. Cosa ti sei fatto stavolta?»

    A Walter non piacevano i numerosi tatuaggi del suo amico, diceva che lo rendevano troppo riconoscibile, ma John gli aveva fatto notare che non restava certo impresso per quelli. Così il discorso era caduto. In realtà lui, il Re di Quadri, non amava moltissimo nemmeno i piercing che il suo amico portava al sopracciglio sinistro e certe volte sperava che si tagliasse le treccine, lunghe fino a sotto le spalle, perché avrebbero potuto essergli d'intralcio in un combattimento... ma, in effetti, quante possibilità avevano di agguantarlo? Nonostante la stazza, John era tanto forte quanto agile e questo Walter lo sapeva benissimo. Forse doveva smettere di essere rigido e basta, dimenticarsi per qualche istante del suo ruolo e ammorbidirsi un po’.

    «Un filo spinato con dei corvi in volo, Warry.»

    Walter gli fece cenno di sedersi. «Odio quel soprannome! E non sei qui per parlarmi del tatuaggio. Dunque?»

    John si accomodò sulla poltrona marrone davanti alla scrivania e si scrocchiò le dita. Da non crederci. Si era tatuato anche quelle, ma quando? Forse doveva trascorrere più tempo con il suo Mazzo e meno sulle sue ricerche.

    «E va bene War… Vuoi prima le buone o le cattive?»

    Walter fece un sospiro profondo. «Fai come preferisci.»

    «Aember ha superato a pieni voti l’esame di chimica organica e ti ha riparato un po’ di roba lì in garage.» sorrise il Jolly, anche troppo allegro.

    Walter sgranò gli occhi. Quella piccoletta dal cervello incredibile, una bimba prodigio che lo rendeva orgoglioso anche senza marchio; una specie di mascotte, un po' di colore in quella base grigia. Avrebbe potuto essere felice, ma dalle parole di John comprese che c'era dell'altro. «Cosa ha riparato?» domandò, animato da una strana intuizione.

    «Eh… il mirino a infrarossi, il cambio della tua macchina e quella da corsa.»

    Il garage del Mazzo era molto vasto: era quasi un parcheggio coperto in un seminterrato, spesso fungeva anche da autofficina privata. C'erano tre moto e quattro automobili, delle quali solo due erano da corsa. Una era di John, oscurata e corazzata. L'altra era di Jek, ovvero Valery, una piccoletta dai capelli rossi e un pessimo carattere e che non vedeva girare per la base da giorni. Okay, lui trascorreva quasi tutto il tempo lì dentro, non prestava molta attenzione a come il Mazzo passava le ore libere, ma la sua intuizione si stava trasformando in un’inquietante certezza.

    «Quale macchina da corsa? John, vai al dunque.»

    Se la sua fantesca aveva preso la macchina poteva significare ben due cose: uno, che aveva contravvenuto all'ordine restrittivo che incombeva su di lei da quando era accusata di aver fatto esplodere una centrale in Ucraina. Due, che poteva essere nei guai.

    Il Jolly Nero fece un bel respiro. «La mia.»

    «Non dire stronzate, lo so quando menti!»

    John contrasse la mascella, ma non fece in tempo a dire niente.

    Walter cercò di non scomporsi. Si intrufolò nella mente del colosso, forzandola finché non decise di collaborare. «Dov’è il tuo Doppio, John? Oh, non pensare che non mi accorga che ti sei sdoppiato. Allora? È a giocare a rimpiattino con Valery in giro per i boschi?»

    Il Jolly allargò un sorriso innaturale e gracchiò: «A qualche chilometro da qui, appostato su un tetto con un sistema radiofonico, in grado di captare pure la vibrazione dei peli del naso della gente che sta sdraiata bella comoda nel palazzo di fronte!»

    Il Re scattò in piedi, furibondo. Odiava dover usare certi metodi, ma non aveva scelta. Quella ragazza era in guai grossi e sapeva di non poter lasciare la base senza permesso, perché se ne era andata? Da quanto? «Dimmi che il tuo doppio è con lei o ti giuro che potrei fare qualcosa di brutto» tuonò il Re.

    Le barriere del Jolly si richiusero con così tanta violenza da dare a Walter delle fitte alla testa, come se gli avessero sbattuto una porta in faccia tanto da fargli sanguinare il naso.

    Mollò la presa, era troppo stanco. Tutti quei viaggi, quelle ricerche e quei lavori notturni lo prosciugavano.

    John si abbandonò sulla poltrona, con il respiro affannoso. Lo scrutò a lungo preoccupato, mentre riprendeva fiato. «Non era necessario che lo facessi, Walter. Odio quando mi entri in testa, te l’avrei detto a momenti. No, non è più con lei, non ho idea di dove sia.»

    «Stavi mentendo. Dicevi che aveva preso la tua macchina.»

    «Quello è vero invece. Valery l'ha guidata per un pezzo, verso nord. Poi è uscita dal raggio di azione del mio doppio e ho perso ogni contatto.»

    «Dov'è andata? Ha valicato le Alpi?»

    «Non lo so, credo che l'idea fosse quella. Dio War... stai bene? Sembri mezzo morto, fratello.»

    Walter si abbandonò sulla poltrona, versandosi del caffè. John ne prese un sorso ma lo sputò. «Scusa War, ma questo schifo è gelido... quanto te» disse tastandogli il polso. «Che ti succede? Non ti ho mai visto così.»

    «Oh, succedono troppe cose. Tranquillo, sto bene» bofonchiò Walter, con la testa che pulsava. Controllò il monitor del computer e digitò un codice. Il marchio sulla giugulare bruciava. «John, richiama subito il tuo Doppio e cerca un modo per farla tornare. Tu sai che deve imparare a stare al suo posto, soprattutto dopo il casino che ha fatto, è l'unico modo per tutelarla. Ti do un'ora di tempo.»

    Walter rimase qualche istante a riflettere. Valery era una fantesca formidabile, ma oltre all'ammirazione si era tirata addosso anche invidie e sguardi molto pericolosi.

    Era molto preoccupato.

    «Perché non sei venuto a parlarmene prima?» domandò, sconfortato.

    «Perché so quanto tieni a lei: non le avresti mai permesso di partire.»

    Walter fece un cenno sprezzante. «Non esageriamo: tengo al mio Mazzo, non a lei

    John scosse la testa. «Beh io invece l'evidenza non la nego. Mi preoccupo per lei e sono venuto a dirtelo proprio per questo: all’inizio l’ho coperta perché mi ha supplicato, ho fatto credere che fosse agli arresti domiciliari sotto la mia sorveglianza. Poi però si è allontanata troppo, e il mio doppio l’ha persa di vista. È in ritardo rispetto al tempo pattuito. Ora ritengo necessario trovarla, prima che lo faccia qualcun altro.»

    Walter strinse le mani e serrò la mascella.

    Poteva essere in pericolo.

    Potevano già averla trovata.

    Poteva…

    … l’immagine di un cadavere dilaniato gli attraversò il cranio come una saetta, folgorando tutte le sue terminazioni nervose. L’idea di doverla seppellire, lui che aveva fatto così tanto per proteggerla, infilò i suoi lunghi artigli fino alla profondità delle viscere, scuotendolo dalle profondità dei suoi abissi interiori.

    Si sentirono dei colpi e tutta la stanza tremò, come colpita da un terremoto. La luce lampeggiò e un allarme cominciò a suonare. pareva gettare scintille dagli occhi. Tremava dentro fino a scoppiare di rabbia e frustrazione, di gelosia, di…

    «War! Cristo santo, torna in te! Cosa cazzo ti prende?» John scattò a spegnere l'allarme e poi scrollò il Re per le spalle. «Torna in te, questo non sei tu. Cosa cazzo ti succede, Kevin? Cosa stai combinando per ore, chiuso qui dentro?»

    John non lo chiamava mai col suo vero nome.

    Forse fu proprio quello a riportarlo alla realtà.

    Walter si accasciò di nuovo e John gli versò dell'acqua. Bevve avidamente, cercando di ignorare il sudore freddo e i brividi. Non aveva mai creato un campo di forza così improvviso.

    John spalancò la finestra e cambiò l'aria. «Spero di non sprecare il riscaldamento, ma qui c'è bisogno di ossigeno. Cielo, Kevin. Ma ti sei visto? Hai le guance incavate e gli occhi pesti. Da quanto sei qui?»

    «Stamattina... credo.» biascicò.

    «Fai bene a non esserne sicuro, credi proprio male. Forse sei qui da giorni, almeno da quando ero partito per la scorta. Da quanto non mangi?»

    Il Re non rispose e John spinse un pulsante sulla scrivania. «Freddie, prepara una cena sostanziosa per il Re. E un bagno caldo per dopo... fratello, puzzi peggio di una ciminiera.»

    Dopo aver emesso un grugnito sorpreso, si congedò dicendo, sbrigativo, che forse aveva un’idea di come contattarla.

    Walter non fece in tempo a voltarsi che John era già sparito nel nulla.

    2

    Alice, Regina di Cuori, prese aria a pieni polmoni, si tuffò e cominciò ad alternare i respiri a lunghe e forti bracciate. Era già la ventiquattresima vasca che faceva, si era annoiata, così toccò un’altra volta il bordo della piscina olimpionica e uscì. Si tolse l’orrida cuffietta sbiadita e si massaggiò i capelli castani, lunghi appena sopra le spalle, poi pese il cronometro e scrutò la piccola figura col costume accademico rimasta nell'acqua. Aember non era ancora in grado di batterla in velocità. I suoi miglioramenti erano stati notevoli nei mesi passati, ma nell’ultimo periodo la ragazzina sembrava svogliata, affaticata. Non c’erano stati altri progressi.

    «Più veloce!» le gridò avvolgendosi nell'accappatoio.

    Aember emerse dall’acqua circa due minuti dopo.

    «Ultimamente non sei molto in forma…» le disse con dolcezza. La bambina si mise a sedere sul bordo della vasca e si tolse gli occhialini. La Regina trattenne un sorriso al segno che le avevano lasciato in faccia. «Ma Alice» protestò. «Sono distrutta, pretendete troppo da me: ho passato un esame stamattina e negli ultimi tempi dormo male, puoi essere clemente?»

    «Puoi parlare come una bambina della tua età?» la canzonò togliendole la cuffia.

    Suo fratello aveva gli stessi capelli biondo miele. Era così difficile non pensarci.

    Era buio. Le catene facevano male, male! Il cuore batte forte, il cuore pompa sangue, il sangue è sale e il sale fa male. Fa male sulle ferite!

    Non brucia ancora? Odore di sangue, di sale, sudore...

    Aember sbuffò, facendola trasalire: «Ho nove anni, non mi sembra di esprimermi così male. E poi come dovrei parlare, scusa?»

    «Come tutti i bambini normali» le suggerì.

    Dio, ho il cuore in gola.

    «Non mi capita di vedere molti bambini e io non sono normale...»

    «Finché non ti spunterà il marchio, dovrai considerarti tale.»

    Non farti mai toccare da nessuno.

    «Beh allora fammi un fischio quando ne trovi uno della mia età con cui potrò parlare di meccanica e chimica! E lasciami, mi stai facendo male» tagliò corto la ragazzina, divincolando la mano. Alice si morse le labbra, pensierosa. Anche suo fratello aveva sempre la risposta pronta.

    Lui aveva la tua età quando... quando è cominciato l'incubo.

    Alice allora si chiamava Sara, aveva dodici anni e delle gambe lunghe e sexy. Sua madre non aveva mai voluto che si tagliasse i lunghissimi capelli. Erano castano cioccolato, glielo ripeteva spesso. Sara non sapeva bene cosa fosse il cioccolato, ma dedusse che doveva essere un alimento buono e costoso, così li portava fino al bacino. Sapeva di essere la ragazza più carina di tutto il quartiere italico e già qualcuno aveva cominciato a mandarle dei piccoli regali. Nel degrado dei sobborghi londinesi dov’era cresciuta, almeno c'era un po’ di gentilezza a colorare le sue giornate. Non sapeva cosa le riservasse il futuro, sua madre aveva due lavori per poterle pagare gli studi. Le piaceva l'arte, nel pub della mamma aveva anche imparato benissimo a cantare, ma sapeva che il destino aveva qualcosa di diverso in serbo per lei. Era attraente, capace e abbastanza scaltra da saper cogliere le occasioni. Avrebbe potuto conquistare il mondo.

    Peccato che sua madre si ammalò di un morbo incurabile e la sua morte sancì quello che certe volte la ragazza avrebbe definito l’inizio della sua fine.

    Forse fu al funerale, che il patrigno si era avvicinato in modo strano per la prima volta. Sentiva la puzza del suo fiato sul collo e la sua pancia premuta contro la sua schiena, mentre lei faticava ad avvicinarsi troppo alla bara aperta. Le aveva sempre accarezzato i capelli con fare affettuoso, ma era un gesto fugace, quando la mamma non c’era. Poi era diventato quasi insistente anche nel farle notare quanto stesse crescendo in fretta. Sentiva il marcio, così sottile da confonderla. Però era lì, nascosto nei brividi della sua pelle, nella ripugnanza di quegli abbracci poco paterni. Lo percepiva sul suo seno che spuntava e si arrotondava ogni giorno un po’ di più, sul fondoschiena che il porco pizzicava facendolo passare per uno scherzo.

    Cercò di scacciare il flusso dei pensieri dalla testa. Aember stava facendo l’ultima vasca a rana. Era uno dei suoi stili preferiti. Per la rana bisognava allargare le gambe.

    Allargare.

    Allargare le gambe, come nello scantinato. Allargare…

    Alice strinse istintivamente le ginocchia e si incurvò appena, come se avesse appena incassato un colpo nello stomaco. Aveva la pelle percossa da brividi e davanti a sé, come fosse proiettato un film di seconda categoria, non riusciva più a focalizzare la piscina.

    «Alice? Alice ci sei? Hai capito che ti ho detto?» cinguettò Aember scuotendole un braccio. «Oggi sei strana. Hai le tue cose?»

    Alice prese un respiro e deglutì. Non l’aveva vista riemergere.

    Si alzò dal bordo vasca e si infilò l'accappatoio bianco. «Sì... no, sto bene. Vai a farti la doccia, abbiamo finito ora.»

    Non sapeva più piangere, ma avrebbe desiderato tanto farlo. Magari sarebbe stato liberatorio, ma non con una bambina innocente. Quando aprì la borsa, trovò il telefono pieno di chiamate perse, sia di Walter sia di John. Le squillò in mano. Il Re non la salutò nemmeno, arrivò dritto al sodo. «Valery è scomparsa. Ne sai qualcosa?»

    Alice strizzò gli occhi e si scansò una ciocca di capelli dalla faccia. Sospirò: «No, ma non mi sorprende: Jek ne inventa sempre una. Da quanto è sparita?»

    Walter si schiarì la voce. «Da alcuni giorni in realtà. Alice sei la Regina, non mi importa se siete amiche o no. Le entrate e le uscite le devi controllare tu.»

    Alice sbuffò, infastidita. «Non sono la sua balia, Walter. Regina o non Regina, lo sai che Jek non mi darebbe retta nemmeno se la chiudessi a chiave con i polsi incatenati.»

    Era l’unica in tutto il gruppo a rifiutarsi di chiamarla con il suo nome anagrafico, limitandosi a usare il nome che si era scelta come Carta. Ci teneva a sottolineare il suo astio, in qualche modo.

    «Lo so. Aember è lì con te?»

    «Sì siamo in piscina, oggi aveva l'allenamento.»

    «Te ne sei occupata tu questi giorni. Quando lei non c’è, è compito tuo. Non trattarmi da fesso: sapevi benissimo che Valery era partita; o Jek, come la chiami tu.»

    Ci fu un attimo di silenzio. Quella non era una domanda, era un'affermazione piena di rimprovero. «Sì...» ammise, con una punta di vergogna nella voce.

    «Rientrate immediatamente, qualsiasi cosa stiate facendo.»

    Adesso era Alice ad avere la sensazione di averla fatta grossa. «Arriviamo» rispose secca. Infilò il telefono nella borsa, indossò un paio di pantaloni neri e un cardigan bianco, senza curarsi di aver ancora il costume bagnato sotto ai vestiti. «Aember!» chiamò a pieni polmoni. «Lascia perdere tutto, vestiti e andiamo.»

    Una testolina bionda fece capolino da una delle docce. «Ma sono tutta bagnata» si lamentò. «E poi puzzo

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